
Costantino o Giuliano, chi ha avuto ragione?
29 Settembre 2015
Ogni cattiva azione nasce da una menzogna che raccontiamo a noi stessi
29 Settembre 2015La società in cui viviamo sembra caratterizzata dalla massima varietà, dal massimo pluralismo, dalla massima, come si usa dire, multiculturalità (classica parola ormai diventata il simbolo del politicamente corretto: peccato che sia, alla lettera, priva di significato); ognuno lotta per distinguersi dagli altri: è il trionfo dell’individualismo, ma, ahimè, di un individualismo ridicolo, pilotato, suggerito dalle mode, dalla pubblicità, dai poteri occulti: un pietoso, grottesco- ci si perdoni l’ossimoro – individualismo di massa.
Ciascuno vuole essere originale, ma persegue l’originalità alla stessa maniera di milioni altri individui simili a lui: simili non solo esteriormente, ma anche, e soprattutto, spiritualmente: vuoti, inconsistenti, pecorili, totalmente privi di personalità, di senso critico, di buon gusto: pronti a fare qualsiasi cosa, anche la più ridicola, anche la più vergognosa, pur di sentirsi "qualcuno", ma nella stessa maniera in cui la fanno tutti gli altri. Insomma: non persone, ma numeri; ciascuno dei quali impaziente e fremente di apparire, smanioso di stagliarsi sullo sfondo della massa anonima, ma senza avere proprio nulla che da essa lo distingua.
Così, mentre si inseguono le mode e ci si illude di essere qualcuno, solo perché si appare, solo perché si urla, solo perché ci si esibisce in maniera narcisistica, solo perché si dà scandalo e si assumono atteggiamenti apparentemente disinibiti e trasgressivi, che però non sono affatto tali, ma, anzi, quanto di più conformistico si possa immaginare, dal momento che sono esattamente quelli stabiliti e pianificati dalle mode, ci si intruppa in un meccanismo di servitù volontaria dal quale sarà sempre più difficile uscire; ci si appiattisce e ci si omologa in comportamenti e stili standardizzati, che cancellano ogni traccia di autentica individualità e di vera personalità; ci si aliena da se stessi e dagli altri, smarrendo, di fatto, le ragioni del sapere stare con sé e con il prossimo, perché ogni gesto, ogni parola, ogni centimetro del proprio corpo sono il risultato di un lavaggio del cervello, di una resa incondizionata a degli schemi decisi altrove, da qualcun altro, e passivamente adottati con una serietà e con una tenacia che sarebbero quasi ammirevoli, certamente commoventi, se solo fossero impiegato in una causa più seria e più costruttiva.
L’uomo contemporaneo si sta sempre più spossessando di sé medesimo, volonterosamente ed entusiasticamente: non c’è neanche più bisogno di controllarlo, si controlla da solo; non c’è più bisogno di ricattarlo, di minacciarlo, di intimidirlo: si offre, si consegna legato mani e piedi alla manipolazione quotidiana che finirà per trasformarlo in un perfetto consumatore e in un contribuente che paga, obbedisce e non protesta mai, non si fa mai domande, non si chiede mai perché: lavora per mantenersi al passo con ciò che fanno gli altri ed apre il portafogli non per soddisfare i suoi veri bisogni, ma per inseguire i fantasmi evocati nella sua immaginazione dall’opera incessante, capillare, martellante della pubblicità, per sottostare ciecamente ai ricatti dell’avere e dell’esibire, per uniformarsi con piena consapevolezza, illudendosi nello stesso tempo — ecco il paradosso — di essere unico e speciale: povero idiota ridotto a spaventapasseri, a manichino, a marionetta, dalla più tenera infanzia alla più tara vecchiaia, vera e propria maschera pirandelliana, allucinante deformazione di sé perseguita con implacabile ostinazione.
E, nella massificazione generale, nel frastuono universale, nella miserabile corsa ad ostacoli per ritagliarsi il proprio spazio di visibilità, il proprio momento di "gloria", la propria illusione di essere qualcuno o qualcosa, l’uomo contemporaneo finisce per smarrire la cosa più importante di tutte, la sola essenziale, quella che meriterebbe tutta la sua attenzione, tutto il suo impegno, tutti i suoi sacrifici: la sua naturale spirituale, fatta per cercare il bene e per realizzare la vita buona, che è l’amore di Dio e del prossimo.
Ha osservato don Stefano Cucchetti, professore di Teologia morale (nella rivista «Il messaggio del Cuore di Gesù», Roma, maggio 2014, pp. 19-20):
«L’omologazione è la tentazione pervasiva di oggi e svela più che mai la contraddizione nella quale gran parte dell’umanità si dibatte. Vogliamo distinguerci, vogliamo essere individui e ricorriamo — non tutti, per fortuna — all’eccentricità, alla diversità. Basta guardare certi modi di vestire sempre più trash: anelli, orecchini e piercing perforano (questo vuol dire il termine inglese) tutte le parti del corpo, proprio per distinguersi, e quasi facendo scempio della bellezza del corpo, che è il "capolavoro di Dio", come diceva Sant’Ambrogio.
Poi, però, questo distinguerci ci massifica, ci rende massa indistinta. Siamo diventati la società dei sondaggi, fatti ormai a nostra insaputa: il solo cercare qualche notizia in internet permette ai colossi commerciali di conoscere i nostri gusti e di conteggiarli, per pilotarli. Ormai quello che compare sui nostri schermi (dai tablet agli smartphone sempre più piccoli) è pilotato e tende a orientare verso scelte dettate da spregiudicati e giganteschi interessi economici. Forse siamo rassegnati: il mondo intero va così. Domina la legge del mercato, del sondaggio, della maggioranza. Sembra non esistere più la verità, ma l’opinione, il trend, la tendenza. Piccole e potenti lobbies hanno in mano — o tentano di averlo — il controllo delle coscienze, oltre che quello economico, e impongono quelli che sono i loro valori, indifferenti a quelli che sono gli elementi fondamentali della natura stessa dell’uomo: il vero, il bene, il bello.
Viene in mente il racconto ebraico di epoca medioevale, che papa Francesco narrò durante la messa mattutina nella Cappella di Santa Maria il 1° maggio 2013: "Un rabbino parlava ai suoi fedeli della costruzione della torre di Babele. In quel tempo si costruiva con il mattone. Ma per fabbricare il mattone, per fare il mattone ci voleva tanto, no? Prendere la terra, fare il fango, prendere la paglia, cuocerlo. E un mattone era una cosa preziosa. Portavano ogni mattone fin su in alto, per costruire la torre di Babele. Quando un mattone, per sbaglio, cadeva, era un problema tremendo, uno scandalo: "Ma guarda cosa hai fatto!" Ma se cadeva uno di quelli che facevano la torre dicevano solo: "Riposi in pace!" Era più importante il mattone che la persona! Questo raccontava quel rabbino del medioevo e questo succede adesso! Le persone sono meno importanti delle cose che danno profitto a quelli che hanno il potere politico, sociale, economico".
Parole sferzanti, che i mass-media, omologati strumenti della società del sondaggio e della "verità secondo maggioranza pilotata", si sono affrettati a dimenticare, preferendo altre per loro più piacevoli e più offensive: pare che il fango venda più che la verità.»
Una civiltà, come la nostra, in cui le cose stanno diventando più importanti delle persone, e in cui le persone sono in funzione delle cose, e non viceversa, è una civiltà impazzita e degenerata, giunta ormai al capolinea: senza futuro, senza speranza. E gli esseri umani che la abitano sono degli zombie, dei morti che camminano e già mandano cattivo odore, odore di morte e di putrefazione: solo che non lo sanno. Sono già morti, e si credono vivi; sono finiti, e fanno progetti per il futuro; sono divenuti schizofrenici, e si credono saggi e intelligenti. Essa è paragonabile alla nave dei folli di medievale memoria: una nave priva di capitano e addirittura priva di timoniere, con le vele che si gonfiano e si afflosciano senza governo, che se ne va alla deriva, portata dal capriccio dei venti e delle correnti, e sulla quale ciascuno si abbandona al proprio estro, al proprio piacere, alla propria frenesia, ma non c’è più alcuno che si preoccupi della sorte comune, del destino incombente, del naufragio inevitabile.
La nave dei folli è la nave dove ciascuno vuole primeggiare, ma nessuno è disposto ad obbedire; dove tutti hanno da vantare dei diritti sacrosanti e inviolabili, ma nessuno riconosce dei doveri ai quali sottomettersi; dove ciascuno si sforza di sovrastare gli altri, di emergere, di distinguersi, ma non c’è più uno solo che si preoccupi del bene comune, che si domandi dove si stia andando, che sia disposto ad eseguire le manovre necessarie per scongiurare la catastrofe annunciata.
Nondimeno, è necessario combattere contro lo sconforto, reagire al triste incantesimo che ci tiene avvinti a questa condizione: è necessario che torniamo in noi stessi, che trasformiamo la nave dei folli in una nave della speranza, che sa dove vuole dirigere la barra del timone e il cui equipaggio è disposto a mettere da parte gli egoismi individuali per cercare la salvezza, se essa è ancora possibile, e se una meta ragionevole è ancora alla sua portata. Di profeti di sventura e annunciatori del malaugurio, ne abbiamo fin troppi: si direbbe che sia diventata una professione come un’altra, perfino più redditizia di altri. Tutto questo lamentarsi e piagnucolare non è virile; non è da uomini, ma da femminucce. E anche questo è un segno della pazzia che ci tiene avvinti, che sembra avere ipnotizzato così tanti di noi.
Se solo non fossimo così frastornati, e quasi inebetiti, dall’incessante rumore delle cose inutili scambiate per necessarie, potremmo vedere con relativa facilità quel che ci manca e quel che va ricercato; potremmo agevolmente capire che l’unica maniera di rientrare in noi stesi, di ritrovarci, di risvegliarci, è quella di gettare fuori bordo tutta la zavorra che ci tiene bloccati, prigionieri delle nostre debolezze e contraddizioni: la zavorra delle cose inutili, dei riti fasulli, delle brame inestinguibili, che ci appesantisce e ci trascina verso il fondo; che ci nasconde la luce del sole dietro un velo di opacità e di grettezza; che crea in noi una sempre rinnovata dipendenza da ciò che non è mai l’essere, ma sempre e solo l’avere e l’apparire. Questa zavorra è la forma concreta che assume l’incantesimo maligno dal quale siamo stati soggiogati.
Riscuoterci e spezzare l’incantesimo può sembrarci una cosa difficilissima, quasi impossibile, solo perché siamo scesi tanto in basso nella stima di noi stessi; solo perché ci siamo avviliti fino ad un punto tale, che ormai abbiamo smesso di stimarci e di volerci bene, abbiamo cessato di credere e sperare in noi stessi e ci siamo auto-convinti che tutto quel che possiamo fare, e che vale la pena di fare, è continuare a seguire la corrente, a lasciarsi portare da essa, tanto più se riusciamo anche a consolarci, coltivando la pazzesca e contraddittoria illusione di essere liberi e diversi da tutti gli altri, originali nelle nostre scelte, ammirati e invidiati da legioni di uomini e donne divorati da una ambizione simile alla nostra, ma, secondo noi, dotati di minori capacità, di minor fascino, di minore intelligenza. A ben considerare, la nostra è una forma di autodifesa: ci sopravvalutiamo per il terrore di guardarci dentro sino in fondo, e scoprire la desolante verità: ossia che abbiamo toccato il fondo.
Eppure, è verissimo che abbiamo toccato il fondo. E il fondo è così melmoso, così opaco, che ci troviamo a vagare di qua e di là, come ciechi che vanno a tentoni e non sanno dove si trovino, né dove andranno a sbucare. Ma non andremo a sbucare da nessuna parte, finché restiamo invischiati sul fondo dello stagno: saremo condannati a girare e girare su noi stessi, senza pace, senza serenità, senza mai vedere un raggio di luce, un po’ di cielo; a spintonarci gli uni con gli altri, a premere su quelli che ci sono più vicini, a farci urtare da quelli che sopraggiungono a loro volta. Allora tenteremo il supremo auto-inganno, e battezzeremo "mare", se non addirittura "oceano", lo stagno torbido e fangoso in cui seguitiamo a sguazzare; chiameremo "cielo" la melma più spessa, e "luce" l’oscurità più profonda: così, giocando con le parole, proveremo a evadere dalla nostra abiezione, ma solo in un mondo fittizio, in una dimensione illusoria.
Davvero è in questo modo che vogliamo concludere la parabola della nostra ormai stanca civiltà: con la beffa suprema a nostro danno, a suggello di una catena pressoché ininterrotta di infedeltà, di colpe, di bugie, di mediocri furbizie e di scorciatoie disoneste? Forse, dopotutto, vale la pena di tentare una reazione seria, di avere un soprassalto di lucidità e di amor proprio. Forse, la nave dei folli può ancora essere salvata; può ancora evitare di andare a fracassarsi sugli scogli: forse non è troppo tardi per riprendere la giusta rotta e schivare l’estremo pericolo. Certo, da soli non potremmo fare nulla: le nostre forze sono consumate, il nostro coraggio si è esaurito, perfino il nostro senso morale pare essersi smarrito. È venuta meno la parte migliore di noi stessi: non ci sono rimasti che i rimpianti ed i rimorsi, e tutti i sogni infranti d’una cattiva coscienza.
Umanamente parlando, è finita: e nessun pilota, per quanto abile, potrà mai salvarci. Ma quel che è impossibile all’uomo, è possibile a Dio. Forse dobbiamo solo ravvederci e invocare: «Abbà! Padre! Abbiamo peccato contro il Cielo e contro di Te. Ma di’ una parola soltanto, e noi saremo salvati!».
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