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Dante, nella Divina Commedia, opera come un pittore o uno scultore con le “immagini agenti”

È impossibile capire Dante, lo stile di Dante, la formidabile potenza espressiva di Dante, nella «Divina Commedia» – che, in pratica, non ha eguali fra gli scrittori del suo tempo – se non si tiene presente la particolare intenzionalità artistica della pittura e della scultura medievali, teorizzata da Tommaso d’Aquino nella categoria delle "immagini di memoria" o "immagini agenti", rispetto alle quali egli opera, in sostanza, una potente e originale trasposizione sul terreno poetico.

Si osservi una cattedrale o una chiesa medievali: ogni vetrata, ogni pavimento, ogni colonna, capitello e pulvino, ogni arco, ogni portale, frontone, pulpito, nicchia, ogni soffitto: in breve tutto, assolutamente tutto, dalla sommità del tetto alle oscurità della cripta, si avvale di una particolare modalità comunicativa che fonde le immagini con il loro contenuto pedagogico: è arte "parlante", "educante", o, appunto, "agente": lo scopo dell’artista, degli innumerevoli artisti i quali, nel corso di una o più generazioni, hanno concorso ad innalzare e realizzare quella montagna di pietra viva, di marmo e di vetro, che è l’edificio nel suo complesso, opportunamente orientato con l’abside verso il sole nascente, in modo che la luce del mattino inondi dall’alto l’altar maggiore e il tabernacolo del Santissimo, è stato quello non solo di ornare, abbellire, impreziosire ogni singolo elemento architettonico e spaziale, ma anche, nello stesso tempo, di educare, di trasmettere immagini da mandare a memoria, e, per mezzo di esse, di agire in profondità nella mente e nel cuore dell’osservatore, cioè del fedele che in quel luogo sacro entra, con timore e tremore, e che, prega, ascolta la parola di Dio, si apre al mistero ineffabile dell’Eucarestia.

L’uomo moderno, che in chiesa non entra più, se non per ragioni di studio, cioè da osservatore esterno e da turista distaccato e quasi "scientifico", e che non legge più Dante, se non per le medesime ragioni, ossia perché una persona colta non può esimersi dal farlo, e tuttavia lo fa senza fede nelle verità eterne che il sacro poema vuol trasmettere, e sulle quali vuol far riflettere il lettore, operando una conversione dell’anima peccatrice verso l’amore di Dio, rischia di lasciarsi sfuggire il più o il meglio dell’arte medievale, e, dunque, anche dei versi danteschi: la sua valenza simbolica, allegorica, spirituale, morale, che è sempre inseparabile dalla dimensione "artistica", perché l’artista medievale ignora il concetto del bello fine a se stesso.

Se il lettore moderno si sforza di entrare nell’universo spirituale e religioso di Dante, ecco che le immagini del poema sacro acquistano come una seconda vita, si animano di una dimensione ulteriore: non sono più solo ciò che appaiono, ma qualcosa d’altro, qualcosa di più vero e più profondo, indicibile con le sole parole: così come è incomprensibile ciò che il pittore, il mosaicista, il mastro vetraio e lo scultore hanno voluto dire, se ci si limita ad ammirare gli affreschi, i mosaici, le vetrate istoriate ed i bassorilievi di una chiesa. Quelle immagini, quelle figure, quei santi, quegli angeli, quei diavoli, quei personaggi della Storia della salvezza, da Adamo a Noè, da Abramo a Daniele, ai profeti, ai re; quei Cristi, quelle Madonne, quegli apostoli, quei lebbrosi, quegli indemoniati, quei Barabba e quei Pilati, quei centurioni e quei ladroni, formano una galleria coerente e unitaria, che vuole imprimersi nella nostra mente con la forza dei loro gesti, dei loro sguardi, dei loro silenzi, delle loro sofferenze e delle loro speranze, della loro fede e della loro incredulità, ma anche con l’intensità bruciante della loro condizione esemplare, con la parabola contenuta nei loro volti e nelle loro storie, con la densità spirituale delle vicende che li caratterizzano e che li fissano come tipi esemplari: l’incredulità di Tommaso, il tradimento di Giuda, il "fiat" sublime di Maria.

Sì, è vero: fin dai banchi di scuola ci è stato insegnato che le tre fiere del primo canto della «Commedia» non sono veramente delle fiere qualsiasi, che non sono una lonza, un leone ed una lupa come tutti gli altri: che sono i simboli o le allegorie di qualcos’altro, dei vizi o peccati capitali, della lussuria, della superbia, della cupidigia; e che li si può ricollegare perfino a dei potentati terreni, il comune guelfo di Firenze, il regno di Francia e la Curia romana: e tuttavia lo abbiamo appreso meccanicamente, stancamente, scambiando il punto di partenza per il punto d’arrivo, senza farci domande, senza modificare sostanzialmente la nostra prospettiva, senza cogliere tutte le implicazioni di una tale lettura allegorica. Solo se ci sforziamo di entrare dentro l’universo concettuale, spirituale e religioso di Dante, e dell’uomo medievale in generale, quelle immagini si animeranno, quelle fiere prenderanno vita, e ci appariranno come dovettero apparire alla mente del loro sublime cantore: spaventose, orribili, annunziatrici di morte. Solo allora la lonza ci spaventerà davvero, e vedremo davvero il leone ruggire e scuotere, avanzando, la possente criniera; solo allora ci sentiremo tremare le vene e i polsi davanti a quella lupa spaventosamente magra, famelica, aggressiva, pronta a balzarci addosso e a divorarci. Perché solo allora ci renderemo conto che ciò che esse simboleggiano, l’allontanarsi dell’anima da Dio, travolta dalle passioni e dalle brame, non è fuori di noi, ma dentro: e avremo paura di noi stessi; e saremo spinti a pregare, a invocare il soccorso da Chi solo può e vuole offrircelo, e a nessun altro.

Ha osservato Gabrio Pieranti nel suo saggio «Arte e letteratura nel Trecento» (in: Gillo Dorfles e altri, «Percorsi d’arte. Dalle origini al Trecento», Bergamo, Edizioni Atlas, 2006, pp. 253-5):

«Rovesciando il modo radicato di stabilire il rapporto tra tradizione letteraria e tradizione pittorica, la più recente critica dantesca ha individuato in maniera precisa i debiti contratti da Dante con la tradizione figurativa medievale nell’invenzione del mondo ultraterreno. Le affinità tra le due tradizioni su alcuni temi sono infatti talmente precise, estese e semanticamente pertinenti da poter ipotizzare che un testo figurativo sia servito da modello di riferimento più o meno conscio, o meglio, che una vera e propria "tradizione" figurativa sia stata un serbatoio ricco di immagini per lo scrittore. Questo perché, nella società medievale, le immagini svolgevano una complessa funzione che non era solo quella di semplice erudizione degli analfabeti, ma riguardava intimamente la vita di chi osservava, come sostiene Tommaso d’Aquino: "Tre ragioni sottesero alla presenza delle immagini nelle chiese: la prima per istruire gli illetterati che da esse apprendono come da certi libri; la seconda perché si imprimano bene nella memoria, mente quotidianamente sono sotto gli occhi, il mistero dell’incarnazione e gli esempi dei santi; il terzo per suscitare il desiderio di devozione che viene stimolato più efficacemente dalle immagini che dalle parole" (III "Liber Sententiarum" d.9, q.1,a.2,q.2). Le immagini venivano utilizzate dalla predicazione o nelle pratiche devozionali per creare un repertorio di immagini "agentes", cioè immagini di memoria, destinate ad avere una fruizione tutta interiore e personale. È questo il compito, ad esempio, dei bassorilievi del "Purgatorio" minuziosamente descritti da Dante, che suggerisce come, guardando un’immagine, l’uomo può, oltre che provare piacere estetico, rievocare la storia sinteticamente in essa rappresentata, ricordare la lezione che da quella storia si deve trarre e di conseguenza modificare il proprio comportamento secondo precise indicazioni. Attraverso una profonda interiorizzazione le immagini parlano."L’angel che venne in terra col decreto (Pur., X, 34) […]

Espressioni utilizzate da Dante per indicare le storie scolpite nella cornice dei superbi, quali "l’immagini di tante umilitadi", autorizzano a pensare che alcune delle figure che popolano il suo mondo fossero immagini di memoria, adatte a veicolare significati spirituali come voleva San Tommaso. È naturale pensare che siano proprio quelle realtà che sfuggono all’esperienza diretta dell’uomo (angeli, demoni, santi, paradisi, inferni, mostri) a fissarsi nell’immaginario collettivo nelle forme codificate da dipinti e sculture che costituiscono parte del bagaglio culturale dell’epoca e a cui dovette attingere Dante per rappresentare il mondo ultraterreno e garantirne la "verosimiglianza". Un esempio è il Lucifero che abita il fondo dell’Inferno, protagonista del canto XXIV dell’Inferno. Dante lo descrive come un mostro che, oltre a varie altre particolarità, possiede tre facce in una sola testa e tre bocche che maciullano altrettanto traditori (giuda, Bruto e Cassio).

"O quanto parve a me gran meraviglia" (Inf., XXXIV, 37) […].

Questa rappresentazione ha molte affinità con certe immagini infernali contenute nei "Giudizi Universali" raffigurati nel "bel San Giovanni" a Firenze e nella "Cappella degli Scrovegni" a Padova: la prima opera è un mosaico attribuito a Coppo di Marcovaldo databile attorno al 1260-1270, la seconda un affresco di Giotto databile attorno al 1303-05. Entrambe presentano un Lucifero dalla testa antropomorfa dalle cui orecchie spuntano due appendici serpentiformi fornite di bocche adeguate, ognuna delle quali impegnata a stritolare un dannato; tali lavori sono, pertanto, ricordati quali importanti elementi per la descrizione dantesca di Lucifero, che riproporrebbe le due immagini rielaborate e caricate di significato teologico in senso antitrinitario. Le cose, tuttavia, devono essere andate in maniera diversa: esiste, infatti, una "tradizione" iconografica che presenta il tipo a tre facce (ad esempio, a Saint-Bazile d’Éstampes, nei fregi della facciata della Chiesa di San Pietro a Tuscania, in un manoscritto anglosassone della prima metà del XI sec., ecc.), tradizione dalla quale sembra più probabile che il poeta abbia attinto per questo particolare strutturale, forse non indipendente da una raffigurazione della Trinità come di una testa provvista di tre facce."

Di un Lucifero siffatto non si hanno testimonianze nella tradizione letteraria, dove le rappresentazioni sono tutte lontane dall’esemplare dantesco per particolari strutturali caratterizzanti; un dato importante perché, come sostiene Lucia Battaglia Ricci, che si è principalmente interessata nei suoi studi su Dante del rapporto tra "Commedia" e arte figurativa, "quando le affinità fra testi scritti e testi figurativi sono precise, estese e semanticamente pertinenti, mentre labili e generici sono i contatti rilevabili con opere letterarie, occorre prendere in seria considerazione la possibilità che un testo figurativo sia stato un modello di riferimento o meglio, almeno per epoche ripetitive come quella medievale, che una vera e propria tradizione figurativa sia stata prezioso serbatoio di immagini per lo scultore".

In sintesi Dante probabilmente agiva, nelle varie descrizioni e rappresentazioni della "Commedia", la memoria conscia o inconscia di materiali figurativi di larga circolazione e magari di tradizioni eterogenee i cui elementi, talora miscelati e risemantizzati, si sono risolti in nuove soluzioni che per forza icastica e potenza poetica si sono imposte come "altri" modelli da cui attingere. Dopo il 1330 l’iconografia di Lucifero pare assestata sul modello accettato da Dante, che in qualche modo fonde l’iconografia del Lucifero caro a Coppo di Marcovaldo e a Giotto con quella del Lucifero "trifrons": ha tre facce, e tre bocche che triturano, il Satana di scuola giottesca che compare nel "Giudizio Universale" nella cappella del Podestà, al Bargello di Firenze, così come il Lucifero del Camposanto Vecchio a Pisa e quello dipinto da Nardo di Cione in Santa Maria Novella.»

Dante, insomma, è un gigante: e, se è certo che egli si è ispirato a talune opere pittoriche e scultoree famose, ad alcuni Giudizi universali e ad alcune raffigurazioni della Trinità, di Cristo e dei santi, è altrettanto certo che il suo poema, per converso, è stato fonte d’ispirazione per chissà quanti artisti della sua generazione e di quelle successive.

L’opera dantesca è in perfetta consonanza, sia dal punto di vista stilistico e formale, sia dal punto di vista spirituale e sostanziale, con la sensibilità e l’estetica medievali (che non erano disgiungibili, ma formavano un tutt’uno), non solo quanto alla sua intenzionalità espressiva, ma anche quanto alla stessa genesi creatrice. L’uomo medievale è proiettato verso l’invisibile, verso il mistero della Grazia e del divino; l’artista medievale è colui che tenta di tradurre codesto invisibile per mezzo dei segni visibili, le figure, le immagini, i chiaroscuri. L’arte medievale è un anelito all’infinito e un superbo, tormentato, commovente tentativo di dire l’indicibile, di mostrare l’invisibile, di passare dal piano della natura e del finito a quello del soprannaturale e dell’eterno. Essa è disvelamento, rivelazione, apocalisse: non significa solo ciò che mostra, ma soprattutto ciò a cui tacitamente allude. E, in questo, è più vicina all’arte e alla poesia moderne, di quanto si possa immaginare: infatti, la sua visione del mondo è anti-naturalistica, non nel senso che neghi o nullifichi il mondo, ma nel senso che vuole cogliere ciò che sta oltre il dato immediato, le apparenze.

Dante è il vate, il sacerdote e il profeta dell’invisibile, di ciò che sta oltre: ma non alla maniera dei simbolisti e dei decadentisti moderni, cioè per se stesso, bensì come voce di cui si serve lo Spirito divino per ricondurre gli uomini sulla retta via. Dante, pertanto, è un poeta pedagogico: e questo, certo, non è moderno, anzi, è tutto l’opposto della poesia moderna, soggettivista e relativista. Perciò, attenzione: quando si parla della "superbia" di Dante, o, se si preferisce, della forte coscienza che egli ebbe di se stesso e della sua arte, non si dimentichi mai che Dante non è superbo alla maniera dei moderni: non si gloria del proprio genio in se stesso, ma riconosce che anch’esso, come ogni altra cosa esistente, viene da Dio e da Dio solo. In questo, il grande Dante è, di fatto, assai più umile del più umile dei poeti moderni: i quali tutti, grandi e piccoli, sia quando si gloriano che quando si auto-disprezzano (come fanno certi crepuscolari), si considerano comunque i soli creatori della propria arte, i soli meritevoli di lode o biasimo. Perché sono, appunto, i poeti del finito: mentre Dante è il cantore dell’Infinito: è la creatura che vuol levare un inno al suo Creatore, e non trova in se stesso le parole; e allora le chiede a Lui, e da Lui le riceve e le accoglie con devozione, con riverenza e con gratitudine infinita.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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