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La mancata epurazione di Ungaretti, ovvero: la coda di paglia della cultura antifascista

Stranissimo destino, quello degli intellettuali italiani della prima metà del Novecento: quasi tutti fascisti prima del 25 luglio 1943; quasi tutti antifascisti, se non nei fatti, almeno nelle intenzioni (almeno stando alle loro… intenzioni), dopo quella data, in prima chiamata; in seconda ed ultima chiamata, dopo il 25 aprile del 1945: tutti folgorati sulla via di Damasco della democrazia, della libertà e del progresso sociale, civile e morale.

D’altra parte, dal momento che questo discorso vale sia per gli scrittori e gli artisti, sia per i critici letterari ed artistici, va da sé che le due categorie si sono sciacquate le mani a vicenda: i critici hanno assolto gli scrittori e gli artisti da ogni sospetto di adesione al deprecato e deprecabile regime, escogitando, all’uopo, mille plausibili spiegazioni per il loro "silenzio" rispetto alle infamie del Regime; e questi, a loro volta, hanno ricambiato di cuore il favore, astenendosi dal mordere o dal punzecchiare in alcun modo i primi, di polemizzare con essi, di dare al dibattito culturale dei toni che potessero trascendere quelli di una piccola divergenza fra educande. Sarà per quel motivo, per quella peculiare eredità, passata nel Dna dei loro eredi e successori, che mai, come in Italia, si è vista una critica tanto garbata verso gli esponenti del mondo della cultura, dalla letteratura al cinema, dalla pittura al teatro, e, in maniera perfettamente speculare, una cultura tanto ammodo verso la critica, quasi che l’una e l’altra fossero impegnate in un delicato minuetto settecentesco o in uno di quei tableaux vivants, di quei graziosissimi quadri viventi, che mandavano in visibilio i cavalieri imparruccati e le damine incipriate nei palazzi aristocratici e nei bucolici giardini del Secolo dei Lumi?

Entrambe le categorie, poi, si son trovate d’accordo nel fabbricare una strana e buffa teoria: e cioè che, a ben guardare, durante il Ventennio, in Italia erano stati tutti antifascisti, anche se non tutti — questo è vero — lo dimostrarono apertamente; però anche quelli che scelsero il silenzio, lo fecero per salvaguardare la loro preziosa dignità, e così, astenendosi dal parlare di politica e dal lodare il fascismo, mostrarono al mondo intero (?) che il fascismo, loro, lo disapprovavano addirittura, e che non volevano averci niente a che fare, né sporcarsi in alcun modo le mani con esso e con le sue nefandezze. Anche se intanto, in attesa dell’agognato ritorno della libertà, non disdegnarono del tutto le opportunità, i premi letterari, le raccomandazioni, i Littoriali, gli articoli sulle riviste del regime e, magari, perfino qualche rapporto personale con Giuseppe Bottai, il giovane e dinamico ministro dell’Educazione nazionale dal 1936 al 1943 (prima, era stato ministro delle Corporazioni; ed in entrambi i casi, con un certo qual tono di fronda, a metà fra il salottiero e l’impegnato). Del resto, la sua rivista, Critica fascista, poteva già apparire animata da un eloquente programma di quasi-antifascismo, e sia pur prudente e un po’ sornione, fin dal titolo: la parola "critica", infatti, si poteva intendere come se fosse rivolta ai soggetti artistici, ma anche come se fosse rivolta al fascismo medesimo… Che cosa di più opportuno, di più discreto, di più supremamente elegante, di una fronda interna al fascismo, che si autopromuove alla funzione di incubatrice dei futuri distruttori dell’odioso regime, e che alleva in se stessa i germi del tumore che lo stroncheranno, a beneficio della libertà a venire?

Sicché, a guerra finita — e perduta, anzi, malamente perduta non solo dal fascismo, ma da tutta la nazione: questo però è un dettaglio che i signori intellettuali hanno considerato poco o niente — vi è stato un pronto, velocissimo, sapientissimo cambio di passo, o, per meglio dire, una vera e propria inversione ad "u", ma fatta con tale destrezza, con tale naturalezza e con tale grazia e scioltezza di movimenti, da apparire più come il fulmineo gioco di prestigio d’un illusionista, che come un fatto reale e concreto, pesato e soppesato in tutti i sensi, predisposto e organizzato fin nei minimi dettagli. Al punto che, se un ipotetico Marziano fosse atterrato in Italia, dal suo bravo disco volante, una prima volta intorno al 1935, ed una seconda volta dieci anni dopo, probabilmente avrebbe creduto di avere le traveggole, o di essere entrato in una dimensione parallela della realtà, vale a dire che avrebbe supposto di essere sceso, la seconda volta, in un Paese che sembrava quello visitato dieci anni prima, e invero molto simile ad esso, ma i cui abitanti, e specialmente i cui intellettuali, erano così mutati, e in maniera così convinta e compita, senza però minimamente dichiarare d’essere cambiati, al contrario, ostentando di esser sempre quelli di prima, con le medesime idee e convinzioni e con la sola, lievissima differenza che, a suo tempo, avevano dovuto tenerle un poco per se stessi – mica per nulla, mio Dio, solo un fatto spontaneo di riservatezza -, che quel povero Marziano avrebbe finito per sottoporsi ad una terapia psicanalitica, per capire come e quando fosse iniziato, in lui, un processo di dissociazione mentale.

Il caso di Giuseppe Ungaretti è, in questo senso, veramente emblematico: e non tanto per quel che riguarda la sua persona, giacché egli rimase coerente con se stesso, e, caso assai raro, non solo non si mise ad imprecare contro il cadavere di Mussolini, ma neppure rinnegò la prefazione che il Duce aveva fatto alla sua prima raccolta di poesie; bensì per la maniera in cui i critici letterari, in base al tacito e proficuo accordo di cui si è detto, fra le due categorie, si misero d’impegno per sminuire quella passata simpatia politica, per minimizzare il fatto della ducesca prefazione, e insomma per assolvere il povero Ungaretti, perfino più di quanto non domandasse egli stesso — ingenuo o pervicace nell’errore, difficile dirlo — di venire assolto. Perché Ungaretti, in fin dei conti, da bravo anarchico formatosi ad Alessandria d’Egitto, in mezzo ad altri anarchici, molti dei quali, laggiù come in Italia, finirono per apprezzare il fascismo e per prendere posizione accanto ad esso, non si diede a smaniare per vedersi perdonati i suoi tenebrosi trascorsi di regime: segno evidente del fatto che non si rendeva conto — si sa come son fatti i poeti, come il fanciullino di Pascoli: volano leggeri qua e là, senza comprendere la serietà del mondo adulto — di quel che avesse fatto, proprio come i bambini che, di solito, non comprendono la gravità di certe scappatelle, e del resto le fanno con tanta innocenza, con tanta briosa monelleria, che è giocoforza perdonarli, ammesso e non concesso che vi sia poi qualcosa da perdonare in sì amabili e irresponsabili creature. Insomma, era più che evidente che egli era innocente, perché, se pure aveva sbagliato, lo aveva fatto senza neanche rendersene conto, e, addirittura, senza comprenderlo nemmeno dopo, a guerra finita ed a gloriosa Liberazione avvenuta.

Sicché quei pignoli e acrimoniosi rompiscatole che insistevano nel pretendere la sua espulsione dai ranghi della cultura italiana per manifesta indegnità morale, in quanto servo e manutengolo del nazifascismo, bisognava che la smettessero al più presto: possibile che non capissero che epurare Ungaretti avrebbe innescato una serie di reazioni a catena, che avrebbe messo in movimento chissà quanti procedimenti analoghi, e insomma che avrebbe infranto il tacito patto di non belligeranza e di auto-assoluzione che era stato varato e portato avanti con sì ammirevoli effetti, in maniera tale da aver reso possibile la trionfale prosecuzione della carriera a tutti gli intellettuali — critici e scrittori -, alla sola, modesta condizione che non si fossero incaponiti nell’errore o che non si fossero davvero macchiati in maniera imperdonabile di orribili delitti, come gli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, che la giustizia partigiana aveva giustamente e prontamente punito? Certo, qualche collega invidiosetto, o un po’ troppo puritano, avrebbe voluto vedere Ungaretti cacciato via dall’Università di Roma, dove aveva avuto — nel 1943, dopo il rientro da San Paolo del Brasile — la cattedra di letteratura moderna e contemporanea; senza contare che aveva avuto il pessimo gusto, per così dire, di lasciarsi insignire del titolo di Accademico d’Italia — e l’Accademia d’Italia, si sa, era stata una abominevole creazione del fascismo, la quale, non per nulla, l’Italia democratica e repubblicana uscita dalla Liberazione, si era affrettata a cancellare.

La cattedra, inoltre, l’aveva avuta «per chiara fama», il che era doppiamente fastidioso per tutti gli invidiosi: in quanto gli aveva consentito di evitare la noiosa trafila dei concorsi statali, e, nello stesso tempo, aveva avuto il sapore di un pubblico riconoscimento, che, automaticamente, lo aveva posto a pari livello, se non più in alto, di tanti professorini che la cattedra, loro, se l’erano guadagnata davvero, mica scrivendo inezie come «L’allegria» o «Sentimento del tempo». Alla fine, però, l’establishment culturale italiano si era messo a macinare nel senso giusto e aveva ricondotto alla ragione di quei futili Robespierre in sedicesimo: Ungaretti era rimasto, non più accademico d’Italia, ma pur sempre professore universitario.

Anche la sua vicenda, però, rimane: la vicenda della sua richiesta, e mancata, epurazione, alla fine della Seconda guerra mondiale. Sebbene lo scandalo fosse stato subito messo a tacere, o, per meglio dire, fosse stato bloccato già sul nascere, sì che molti non se n’erano nemmeno accorti, tranne che all’università di Roma, essa però rimane, anche nella storiografia letteraria successiva, e fino ai giorni nostri, con quel senso invincibile d’imbarazzo e di disagio che produce in chiunque vi si accosti, non tanto per quel che essa effettivamente fu — si era visto di ben altro e di ben peggio, in quel generale cambio di barricata da un regime politico all’altro: si pensi soltanto all’assassinio a freddo di un filosofo inerme come Giovanni Gentile, di un vecchio pensatore che esortava tutti gli Italiani alla riconciliazione, nell’ora dell’estrema sciagura nazionale — ma, in un certo senso, proprio per quel che non fu e non divenne: cioè per quel sentore di complice ipocrisia che da essa, inconfondibilmente, promana.

Ecco, per esempio, come Anna De Simone in «Ungaretti. Vita, poetica, opere scelte» (Milano, Il Sole 24 ore S.p.a., 2007, pp. 63-66), si contorce e si arrampica sugli specchi, per scagionare l’illustre poeta da qualunque ombra e da qualunque sospetto di connivenza e di correità con il caduto regime mussoliniano:

«Nel 1919 […] a Roma, scrittori, poeti, intellettuali, provenienti in parte dalla "Voce" si raccolgono intorno a una nuova rivista letteraria, "La Ronda"; la dirige Cardarelli. Obiettivo della rivista, che rimarrà in vita fino al 1923, è il recupero della nuova tradizione ottocentesca, dopo i clamori e i furori delle avanguardie e dopo le troppe commistioni di vita e letteratura e tanta, troppa retorica dannunziana. Quello dei rondisti vuole essere una sorta di classicismo novecentesco, che si richiama a Petrarca e a Leopardi. Gli scrittori della "Ronda" tendono a separare nettamente la vita dalla letteratura, puntando esclusivamente sula letteratura. Secondo Enzo Siciliano, la "Ronda" fu "L’Aventino della letteratura", paragonabile a un altro "Aventino", quello degli oppositori del regime fascista che dopo il delitto Matteotti (1924) avrebbero abbandonato il Parlamento manifestando silenziosamente il loro dissenso. I rondisti quel dissenso lo esprimono tenendo ben separato l’ambito della politica da quello dell’arte. Protetti da questo scudo, elaborano una prosa raffinatissima, calligrafica, che nelle pagine di Cecchi e Cardarelli trova gli esemplari più alti.

Negli anni di ascesa al potere del fascismo, c’è il rischio che il ritorno all’ordine predicato dai rondisti assuma un significato ambiguo. Ma prendendo le distanze dal presente, essi in realtà si opponevano implicitamente, con il loro silenzio, al regime, senza lasciarsi coinvolgere dalla politica culturale dei fascisti, con cui non volevano sporcarsi le mani.

Quanto ai rapporti di Ungaretti con il fascismo, sono difficili da definire, anche perché sono inconsistenti e su di essi non è stata fatta sufficiente chiarezza: inizialmente la sua è l’adesione di un anarchico, di un poeta naïf, che vive in dignitosa povertà, intrattiene rapporti epistolari solo con gli amici francesi e si tiene a distanza da polemiche e attriti. Tuttavia nei primi anni del regime, Ungaretti aderisce alla politica di Mussolini, che firma una distratta e banale prefazione a una nuova edizione del "Porto sepolto", ancora una volta curata da Ettore Serra e pubblicata in pochi esemplari a La Spezia nel 1923. Il poeta aveva conosciuto Mussolini subito dopo la guerra, nella sua qualità di corrispondente da Parigi del "Popolo d’Italia". Nel 1923, dopo la marcia su Roma, il "duce" non si ricordava più di lui, ma si presume che fosse stato contattato da Ettore Serra per quella "chiacchieratissima" prefazione. È un fatto che la "precoce adesione al fascismo", scrive Mario Barenghi — "sull’onda di un patriottismo generoso, confusamente antiborghese e populista, alimentato dalla nostalgia e dal bisogno d’identità d’un figlio d’emigranti sensibile all’appello d’un capo carismatico — non comporta vantaggi concreti": a Roma Ungaretti vive dei proventi di un modestissimo impiego al Ministero degli Esteri, che lascia nel 1930 per dedicarsi completamente alle collaborazioni a quotidiani e a riviste letterarie. Nel 1936 deve addirittura trasferirsi in Brasile per poter mantenere con decoro la sua famiglia. In un articolo intitolato "Tre riflessioni" e pubblicato su "Il Tevere" l’11-12 aprile 1929, il poeta rivendica per gli artisti la libertà — e la dignità — di essere se stessi e sottolinea la precaria condizione di chi scrive, la necessità di fare mille mestieri per mantenersi, l’indifferenza degli altri.»

Si poteva dire di più, e di meglio, senza però dire? Del resto, ci fu persino chi sostenne che Ungaretti, in Brasile, c’era andato per «sfuggire al fascismo», di cui, nel frattempo, sarebbe diventato un deciso oppositore…

Povero Ungaretti; e poveri Italiani: costretti, ancora settant’anni dopo la caduta del fascismo, a dover trangugiare una simile minestra…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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