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Esiste un modo per risarcire la sofferenza?

La sofferenza può essere risarcita? Ossia: esiste una maniera per restituire a chi ha molto sofferto, ciò che ha perduto? Per esempio: ad un giovane, che ancora non si è mai rasato la barba, ed al quale la violenza brutale della guerra ha portato via gli occhi, il bene della vista, la possibilità di vedere mai più il mondo, i colori dei fiori, il sorriso delle ragazze: ebbene, a quel giovane è possibile offrire, donare qualcosa che lo ricompensi, per così dire, che lo indennizzi, che lo risarcisca di quel bene inestimabile che ha perduto, che dia conforto allo strazio della sua vita piombata in un notte che non finirà mai, alla sua giovinezza oltraggiata negli anni più belli?

Vale la pena di leggere questo brano del famoso scrittore inglese Somerset Maugham — autore di libri assurti al rango di classici, come «Il velo dipinto», «La luna e sei soldi» e «Il filo del rasoio» -, nato da una esperienza realmente vissuta e poi narrata nel romanzo «Ashenden l’inglese» (titolo originale: «Ashenden», traduzione di Fenisia Giannini, Milano, Garzanti, 1966, pp. 8-9):

«Nel 1917 andai in Russia. Ci fui mandato per impedire la rivoluzione bolscevica e per tenere la Russia in guerra. Il lettore vedrà come i miei sforzi non furono coronati da successo. Partii da Vladivostok per Pietrogrado.

Un giorno, attraversando la Siberia, il treno si fermò in una stazione e, come al solito, i passeggeri scesero, alcuni per cercare l’acqua per il tè, altri per comprare del cibo e altri ancora per sgranchirsi le gambe. Un soldato cieco sedeva su una panca. Altri soldati sedevano accanto a lui e altri gli stavano alle spalle. Erano circa venti o trenta, con le uniformi sporche e lacere. Il soldato cieco, un tipo alto e vigoroso, era giovanissimo. Sulle sue guance, l’ombra morbida e pallida di una barba che non era stata mai rasata. Oserei dire che non aveva ancora diciott’anni. Aveva un viso largo, coi lineamenti piatti, e sulla fronte, la profonda cicatrice della ferita che lo aveva privato della vista. I suoi occhi chiusi gli conferivano un aspetto stranamente assente. Cominciò a cantare, con una voce forte e dolce, accompagnandosi con una fisarmonica. Il treno era sempre fermo ed egli continuò a cantare, una canzone dopo l’altra. Non capivo le parole, ma nel suo canto, selvaggio e malinconico, mi pareva di udire il grido degli oppressi: sentivo le steppe desolate e le immense foreste, lo scorrere dei larghi fiumi russi e le dure fatiche delle campagne, l’aratura della terra e la mietitura del grano, il sospiro del vento tra le betulle, i lunghi mesi del buio inverno, e le danze della donne nei villaggi, e i ragazzi che si bagnano nei ruscelli nelle notti d’estate; sentii l’orrore della guerra, le notti amare nelle trincee, le lunghe marce sulle strade fangose; e il campo di battaglia, con il terrore, l’angoscia e la morte. Era orrendo e profondamente toccante.

C’era un berretto per terra, ai suoi piedi, e i passeggeri lo riempirono di monete. Erano stati colti tutti dalla stessa emozione di infinita compassione e di vago orrore, giacché c’era qualcosa di terrificante in quel viso sfigurato e cieco; sentivate che si trattava di una creatura diversa, lontana dalle gioie di questo mondo incantevole. Non sembrava più umano. Gli altri soldati se ne stavano immobili, silenziosi e ostili. Il loro atteggiamento pareva pretendere come un diritto l’elemosina della folla di viaggiatori. C’era una rabbia sdegnosa da parte loro e un’incommensurabile pietà da parte nostra, ma non un barlume di speranza che ci fosse un modo per risarcire le sofferenze di quell’uomo inerme.»

Il passo che più colpisce, in questo resoconto dai risvolti umani profondamente toccanti, è il seguente: «…sentivate che si trattava di una creatura diversa, lontana dalle gioie di questo mondo incantevole. Non sembrava più umano»; questo, infatti, è l’effetto più appariscente della sofferenza, per colui che la osserva dal di fuori e senza connettersi con il suo intimo significato: il senso di assoluta estraneità, di lontananza siderale, addirittura di disumanità che essa par conferire a chi ne è stato colpito. Infatti, quel povero soldato russo, divenuto cieco per una scheggia di proiettile e dotato di una voce meravigliosa, di una sensibilità canora semplice e spontanea, ma struggente, appare al raffinato intellettuale britannico come una creatura di un altro mondo: non più una creatura umana, ma piovuta da chissà dove.

Questa, peraltro, è l’impressione che riceve l’osservatore esterno: che vale quello che vale, cioè nulla, dal momento che a nessuno è data la chiave per entrare nelle stanze più segrete dell’anima altrui; figuriamoci se ciò può accadere allorché quell’anima è stata visitata da una presenza inaudita, sconvolgente, trasfigurante, come lo è la sofferenza. Se l’anima dell’altro è sempre un mistero per ciascuno di noi, a maggior ragione lo è l’anima che soffre: nessuno può capire veramente, nessuno può sapere, neppure nella maniera più vaga e imprecisa, quel che accade in essa: quali cose essa veda, quali voci essa oda, quali cose percepisca, intuisca, avverta. Tutto avviene per mezzo del senso interno: nulla è suscettibile di descrizione oggettiva, nulla può essere comunicato da quell’anima stessa, anche se lo volesse, se non in termini metaforici e inappropriati. La sofferenza è una rivelazione, e le rivelazioni non sono comunicabili.

Ma essa è risarcibile? Questa era la domanda che ci eravamo fatta, e vogliamo tentare di rispondere, sia pur consci della difficoltà di un simile interrogativo. Per prima cosa, però, dobbiamo precisare che la domanda stessa è posta in termini ambigui e fuorvianti: si desidera risarcire qualcuno che ha subito una perdita materiale, ad esempio chi si è visto distrutta la propria casa da una scossa di terremoto. Già risarcire chi ha perso una persona cara è, evidentemente, impossibile: si può tentare di consolarlo, ma risarcirlo è semplicemente impossibile; niente e nessuno potranno mai restituirgli la presenza fisica di quella persona, che la morte ha condotto via con sé. Questo, da un punto di vista puramente umano. Ed è qui che si vede tutta l’insufficienza, tutta la penosa inadeguatezza di un approccio puramente umano, di un orizzonte che sia e rimanga puramente immanente, al grande e solenne mistero della sofferenza.

Perché la sofferenza non è un problema: posta come problema, è assolutamente irrisolvibile; è molto più e molto peggio che uno scacco: è una beffa, una suprema ironia. Posta come mistero, e accettata come tale, ecco che essa può dischiudere una pesantissima porta bronzea, che, altrimenti, ci rimane ineluttabilmente chiusa: la porta della rivelazione. Di conseguenza, non sempre e non tutta la sofferenza ha il valore di una rivelazione; lo ha soltanto quando, e nella misura in cui, essa viene in primo luogo accettata, in secondo luogo accettata come una grazia. Che cos’è, infatti, la grazia, se non la vita soprannaturale dell’anima? Ebbene: la grazia è quell’elemento che attiva quella vita soprannaturale, la quale esiste in ogni anima, ma, di per se stessa, permane allo stato latente. Per passare dalla potenza all’atto, la vita soprannaturale dell’anima ha bisogno che qualcosa la metta in movimento; e non può farlo da sola, perché, se lo potesse, allora vorrebbe dire che l’uomo è capace di auto-redenzione: ma non lo è. L’uomo non può redimersi da solo; da solo non può né perdonare, né perdonarsi. Solamente con l’aiuto di Dio lo può fare: e questo è, appunto, l’intervento provvidenziale della grazia.

Ora, la natura umana è tale che, senza il pungiglione della sofferenza, difficilmente l’anima si ridesta; difficilmente la coscienza si mette in discussione; difficilmente il nostro cuore di pietra si trasforma in un cuore di carne, che sente, che partecipa, che si commuove, che ama. Per amare, dobbiamo aver vissuto l’esperienza del soffrire: o, almeno, per poter amare da persone adulte; cioè per poter amare davvero, da persone coscienti e risvegliate, e non da persone infanti, da sonnambuli che si credono svegli, ma non lo sono. Se la sofferenza non avesse altro valore, altro significato che questo, già sarebbe molto, moltissimo; e già questo basterebbe a rispondere alla domanda sul perché la sofferenza esista. Essa è una esperienza puramente negativa solo per i duri di cuore, che a nessun patto si vogliono risvegliare; è una esperienza puramente negativa solo per quanti sono ammalati di ipertrofia dell’ego, i quali nulla vedono e nulla sentono, se non ciò che gratifica e carezza i loro istinti più rudimentali. Per l’uomo e la donna spiritualmente evoluti, o, quanto meno, desiderosi di evoluzione e di progresso — il progresso vero, non quello che continuamente viene spacciato con questa parola, che è solo e unicamente un accrescimento materiale e grossolano dell’ego — la sofferenza è una benedizione. Non che la si debba cercare; ma, se arriva, non la si dovrebbe accogliere come un castigo, bensì come un privilegio.

Non è vero che Dio ama coloro che fa morire giovani: questa era la concezione pagana del divino, impastata di basso materialismo e di edonismo illimitato; una concezione miope e asfittica, perché puramente quantitativa. Al contrario: Dio ama coloro che tocca con il dito della sofferenza: perché disvela loro ciò che agli altri rimane irrimediabilmente precluso; rivela ad essi il vero senso della vita e della morte. Ossia la cosa più importante che è necessario sapere per vivere bene e per morire bene, da esseri umani e non da bruti. A volte accade che un’anima giovane abbia già sofferto quanto basta per risvegliarsi; ma, in generale, è vero il contrario: occorre una vita abbastanza lunga per imparare a offrire. Per imparare a soffrire nel modo giusto. I giovani, il più delle volte, sono troppo impazienti: sono bensì capaci di dedizione e di sacrificio, ma vorrebbero vedere i risultati del loro sforzo nel più breve tempo possibile.

La sofferenza, invece, è una maestra lenta e paziente, che ha i suoi tempi, i quali sono ben diversi dai nostri; che non ci molla, se non quando è ben sicura che abbiamo appreso la lezione — oppure quando è ben sicura che non l’apprenderemo mai. Perché essa è paziente, sì, ma non all’infinito: giunge anche per essa il momento di tirare le somme, di arrivare alla conclusione del discorso. Non può aspettare all’infinito. Il più delle volte, non le occorre troppo tempo per capire di che stoffa siamo fatti, e che cosa essa può tirar fuori di buono da ciascuno di noi. Se insiste, è perché vuole forgiarci ben bene; ma solo dopo essersi resa conto che la stoffa c’è, e che si tratta solo di rafforzarla e di migliorarla. Le basta poco per valutare se siamo suscettibili di evoluzione; se siamo disponibili a metterci in discussione, ad aprirci alla verità.

La verità è una; ma, per noi che siamo come rane gracidanti, sprofondate nello stagno fangoso, non si presenta tutta e subito: se così fosse, resteremmo accecati e non vedremmo più nulla, confonderemmo ogni cosa. La verità, per noi, si presenta come un palazzo a più piani, o come una torre protesa verso il cielo: essa ci invita ad entrare, a salire, e, ad ogni nuova rampa di scale che abbiamo salito, ad ogni nuovo livello che abbiamo raggiunto, essa ci si mostra un po’ di più, e in una luce più chiara ed esatta. Una vita intera non ci sarebbe sufficiente per arrivare fino alla cima, ammesso che noi la dedicassimo seriamente e interamente a questo fine; intanto, però, ci è dato cogliere le differenze che esistono tra una visione parziale e limitata, quale è quella che ci si offre dai piani più bassi della torre, ed una visione ampia e aperta, quale è quella che possiamo cogliere più in alto, mano a mano che ci portiamo verso i livelli superiori. Ecco perché la verità, per noi, è sempre relativa, pur essendo, in se stessa, assoluta: ma, in quanto verità assoluta, non avremmo neppure gli strumenti per vederla, per riconoscerla e per comprenderla. Resteremmo sconvolti: e ciò accadrebbe perfino a quelli di noi che sono così forti e audaci da spingersi più in alto di tutti. Ma, per quanto in alto possano spingersi gli esseri umani, non sarà altro che un niente, uno zero, in rapporto alla verità tutta intera. La differenza fra la verità conoscibile dall’uomo e la verità in se stessa, infatti, non è una differenza di ordine quantitativo, ma qualitativo: vi è un abisso incolmabile, fra noi ed essa, che in alcun modo potremmo eludere, aggirare, colmare. Per colmarlo, abbiamo bisogno di un aiuto che scende dall’alto: abbiamo bisogno della grazia.

Ebbene: la sofferenza appartiene a questo ordine di verità, a questa dimensione abissale. Mai e poi mai potremo capirlo con le nostre sole forze, con la nostra sola ragione. È inutile chiedersi, razionalmente, perché si soffre: perché soffrano un innocente, un bambino, una creatura indifesa. Ciò non significa che non vi sia una risposta: la risposta c’è; ma non c’è una ragione razionalmente accessibile alla mente umana. Risposta e ragione non sono sinonimi: una cosa può non avere una ragione apparente, ma può dare una risposta a colui che la interroga: e la sofferenza appartiene a questo ordine di cose, a questo genere di verità. Bisogna essersi spinti almeno un poco in alto, almeno un poco oltre i piani più bassi della torre, per cominciare a intuire questo fatto, per cominciare a intravedere un lembo della Verità. E il lembo ci dice questo: che si soffre per meglio comprendere, e che si comprende per meglio amare. Chi non ha veramente sofferto, non sa che cosa significhi veramente amare. È e resta come un bambino: ignaro del vero significato della vita. Un bambino che non crescerà mai, per quanti libri abbia letto e per quante cose creda di aver fatto…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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