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Che cosa accadde realmente nella battaglia della Selva Litana?

Il 2 agosto del 216 a. C. si combatté la tragica battaglia di Canne, che costò ai Romani, secondo lo storico romano Tito Livio, la perdita di 45.500 fanti, 2.700 cavalieri e la cattura di 19.300 prigionieri (ma le perdite furono assai più gravi, secondo lo storico greco Polibio: 70.000 fanti e 6.000 cavalieri, più 10.000 prigionieri).

Soltanto alcuni mesi dopo, i Romani conobbero un’altra, durissima sconfitta, questa volta non all’estremo Sud della Penisola, ma al Settentrione di essa, in una località non meglio precisata, ma posta, probabilmente, nel territorio dei Gali Boi, ossia in un quadrilatero i cui vertici erano press’a poco coincidenti con le odierne Ravenna, Bologna, Modena e Reggio Emilia. Le perdite, questa volta, furono meno gravi che nel disastro di Canne, ma pur sempre ingenti: venne distrutto un intero esercito formato da due legioni e da consistenti truppe ausiliarie, per un totale di 25.000 uomini. Non vi furono prigionieri, non vi furono praticamente scampati al disastro: i soldati del console appena insediato, Lucio Postumio, eletto nel gennaio del 215, al posto di Luci Emilio Paolo, caduto a Canne (l’altro console era Tiberio Sempronio Gracco), perirono tutti sul posto, dal primo all’ultimo uomo, compreso il loro condottiero, il cui capo venne decapitato e il cui teschio — lugubre trofeo dei vincitori – fu destinato ai sacrifici rituali della religione druidica.

Anche se poco nota al grande pubblico, la battaglia della Selva Litana, dunque, sia per le modalità, sia per le proporzioni, può essere senz’altro accostata ad un altro fatto d’armi della storia romana, la celebre battaglia della Selva di Teutoburgo, avvenuta circa 220 anni dopo e nella quale le tre legioni Publio Quintilio Varo, insieme a tre ali di cavalleria e a sei coorti ausiliarie — per un totale di 15.000 legionari e 5.000 ausiliari — sarebbero cadute in una imboscata nel fitto di una foresta, finendo totalmente distrutte da un esercito germanico guidato dal re dei Cherusci, Arminio, fra l’8 e l’11 settembre del 9 d. C.

La notizia della disfatta subita nella Selva Litana dal console Lucio Postumio giunse a Roma in un momento particolarmente delicato, quando gli animi erano ancora prostrati per il recentissimo disastro di Canne, la battaglia più grande e sanguinosa di tutta l’antichità occidentale, che, per un momento, aveva fatto vacillare anche la saldezza degli animi più intrepidi; e si rovesciò come una doccia gelata sulle aspettative di quanti speravano che, almeno dalle frontiere settentrionali del dominio romano, giungesse qualche buona notizia, a rialzare la fiducia nel domani.

Così narra l’episodio lo storico latino Tito Livio (XXIII, 24; trad. in: Renato Russo, «La battaglia di Canne e a campagna annibalica in Puglia», Barletta, Editrice Rotas, 1999, p. 291):

«L’esercito di Postumio doveva passare per una vasta selva, chiamata Litana. Ai lati della strada, a destra e a sinistra, i Galli segarono i tronchi degli alberi di questa selva, in modo che, stando immobili, apparivano ritti; al primo urto sarebbero, invece, caduti. Postumio aveva due legioni romane ed aveva arruolato tanti alleati nelle zone adriatiche, da poter condurre contro i territori nemici cinquemila soldati.

I Galli, essendo collocato sui bordi estremi della selva, appena la schiera dei Romani entrò nella zona boscosa, diedero una spinta agli alberi che avevano tagliato per ultimi. Questi caddero l’uno sull’altro essendo di per sé instabili e mal piantati nella terra e si abbatterono sulle armi, sugli uomini e sui cavalli dei Romani con una doppia strage, dalla quale a stento scamparono dieci uomini. Poiché la maggior parte fu uccisa dai tronchi d’albero e dai frammenti dei rami, i Galli con le armi in pugno, circondata tutta la zona, massacrarono il resto dei soldati romani, spaventati per l’inaspettato disastro.

Di tanti uomini solo pochi furono fatti prigionieri; questi furono circondati mentre tentavano di raggiungere il ponte, che in precedenza era stato assediato dai nemici. Qui combattendo cadde Postumio dopo aver fatto ogni sforzo per non essere preso. Le spoglie del comandante e il suo capo troncato furono portati dai Boi esultanti al loro tempio più venerato. Secondo il loro costume, scuoiarono poi il cranio, le cui ossa nude coprirono con uno strato d’oro cesellato, per servirsene come vaso sacro per le libazioni nelle cerimonie solenni e nello stesso tempo come calice per i sacerdoti ed i capi del tempio. Anche il bottino non ebbe per i Galli minore importanza della vittoria; infatti, benché gran parte degli animali fosse stata abbattuta nella strage della selva, tuttavia furono ritrovate tutte le altre cose giacenti lungo il tratto occupato dalla schiera dei caduti poiché nulla era stato portato via, essendo nessuno fuggito.»

Quando la notizia del nuovo disastro giunse a Roma, abbattendosi come un fulmine sugli animi già scossi dal disastro di Canne, sembrò che ogni speranza, per un momento, abbandonasse il cuore dei fieri Romani. Pareva che il nemico fosse già alle porte; le botteghe chiusero i battenti; l’Urbe piombò in uno stato di angoscia e desolazione tali, da ricordare un’eclisse o una improvvisa oscurità notturna: «velut nocturna solitidine». Per restituire ai cittadini un po’ di speranza nell’immediato futuro, fu necessario un apposito invito del Senato ai commercianti, affinché riaprissero le loro botteghe, nonché un virile intervento del console Tiberio Sempronio Longo, che esortò gli stessi senatori — convocati in seduta straordinaria — a superare lo scoraggiamento e a non disperare circa i destini della patria.

Ora, il racconto di Tito Livio ha, da sempre, incuriosito e affascinato i suoi lettori, non solo per i particolari di crudo realismo — come il cranio del comandante romano trasformato in un macabro vaso per le cerimonie religiose dei vincitori — ma, nello stesso tempo, per l’atmosfera favolosa da cui sembra pervaso e, ancor più, per due interrogativi che suscita, senza offrire una risposta. Primo: dove si trovava, esattamente, la Selva Litana: una foresta così vasta e fitta da prestarsi a intrappolare un esercito intero? Secondo: è credibile che ben due legioni romane, con un forte contingente di truppe ausiliarie, siano state spazzate via, non già mediante la forza delle armi, in uno scontro faccia a faccia — e sia pure con un certo grado di astuzia da parte dei Galli Boi, che avevano teso l’agguato, e sotto l’effetto psicologico delle loro urla spaventose e delle sinistre pitture di cui si ricoprivano — ma provocando un crollo degli alberi a catena, e seppellendo sotto di essi, così, praticamente senza combattere, tutti i legionari romani, dal primo all’ultimo, console compreso?

Sappiamo che il territorio dell’Italia Settentrionale, non solo nelle aree alpine e subalpine, ma anche nel cuore della Pianura Padano-Veneta, era, a quell’epoca, ricoperto da ampie e fitte foreste che si spingevano fino ai due mari, il Mar Ligure e l’Adriatico, e che, sovente, si succedevano l’una all’altra, quasi senza soluzione di continuità. Ricordiamo le più conosciute, almeno dal punto di vista storico-letterario: la Selva Fetontea, situata nella porzione di terraferma retrostante la laguna di Venezia, là dove uno dei profughi troiani al seguito di Antenore, chiamato Mesthle (principe dei Meoni), avrebbe fondato la città di Mestre; la Selva Lupanica ("foresta dei lupi"), di cui parlano Virgilio e Plinio il Vecchio, che occupava quasi tutta la sezione del basso Friuli, dalla Livenza fino all’Isonzo (e di cui sopravvivono oggi appena 500 ettari!); e la Silva Magna, che alcuni identificano con la stessa Selva Fetontea, mentre, per altri, sarebbe stata situata più a nord, nell’area poi detta della Marca trevigiana.

Ancora non vi era stato il folle saccheggio del legname per la costruzione delle flotte romane, che, specialmente in occasione della Prima guerra punica (264-241 a. C.), aveva già depauperato pesantemente il patrimonio boschivo dell’Italia centro-meridionale (cfr. il nostro articolo: Le flotte dell’antico Mediterraneo distrussero le foreste causando alluvioni e malattie», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 18/04/2008); e ancora non vi era stata la centuriazione romana, perché le regioni settentrionali avevano conservato, nei confronti di Roma, la loro fiera indipendenza, tanto è vero che si erano schierate al fianco di Annibale, allorché questi, nel 218, aveva valicato le Alpi e sconfitto i Taurini, alleati dei Romani.

Per rispondere alla prima domanda, dobbiamo chiederci quale fosse l’obiettivo del console Lucio Postumio Albino. Egli intendeva portare il suo esercito contro le tribù celtiche che si erano schierate dalla parte di Annibale e gli avevano fornito grossi contingenti ausiliari: i Galli Senoni, stanziati lungo la fascia costiera delle attuali Marche; i Lingoni, stanziati in Romagna; i Boi, nell’Emilia, e infine, probabilmente, gli Insubri, nella bassa Lombardia (fra Milano e il corso del fiume Po). Possiamo supporre che egli si sia portato nella zona di operazioni seguendo la recentissima Via Flaminia, iniziata verso il 220 dal console Gaio Flaminio, che giungeva sulla costa dell’Adriatico a Fanum Fortunae, non lungi da Pesaro, e proseguiva fino a Rimini; per poi addentrarsi nel cuore delle foreste padane e cadere nell’agguato tesogli dai Boi. Meno probabile è l’ipotesi che egli si sia servito della Via Aurelia, la quale, pur essendo stata iniziata nel 252 con l’obiettivo di risalire tutta la Toscana e, in seguito, di arrivare fino a Marsiglia e Arles, non era ancor giunta neppure a Luni e che, pertanto, mal si prestava alla bisogna.

Ne deriva che la Selva Litana doveva trovarsi in qualche area della Romagna o dell’Emilia, ma è quasi impossibile giungere ad una più precisa identificazione, tanto più che numerose città e diversi studiosi si sono attribuiti il merito di averne rintracciato il sito "autentico", ma si tratta di tradizioni incerte, che si escludono a vicenda, e nessuna delle quali appare del tutto convincente. C’è perfino chi, come lo storico e geografo carrarese Emanuele Repetti (1876-1852), ha escluso di poterla collocare nell’area dell’Emilia-Romagna; né il racconto di Tito Livio offre il minino appiglio per dirimere la vexata questio. Il problema fondamentale è che, come accennato sopra, tutta la superficie della Pianura Padano-Veneta era occupata, nel III secolo a. C., da una successione quasi ininterrotta di densi boschi planiziali, formanti l’antichissima selva primeva, mai seriamente intaccata dalla scure dell’uomo e mai sottoposta ad un qualche regime di controllo, se non nelle forme della raccolta dei frutti spontanei – ghiande, castagne, funghi, bacche, piante medicinali – e di qualche modesto prelievo di legname, non per uso navale, ma semplicemente per la costruzione delle case e dei templi e per le necessità individuali delle famiglie: attrezzi, armi, carri (cfr. il nostro articolo: «Attraverso le vicende del bosco Olmé di Cessalto rivive la storia degli antichi boschi planiziali», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 15/12/2008). In pratica, la Selva Litana poteva trovarsi in qualsiasi punto della regione compresa fra Modena, Bologna, Ravenna e Rimini, sempre che non si trovasse ancora più a Nord, nel pieno della Pianura Padana, magari verso i territori dei Galli Insubri. Di più, allo stato attuale, non è possibile affermare.

Resta l’altra domanda: quanto sia credibile il racconto di Tito Livio, e quanto, in esso, sia da considerarsi favoloso o semi-leggendario, scaturente più dall’animo di artista del grande scrittore padovano, che non da una severa coscienza storico-critica, così come noi oggi la riteniamo indispensabile per lo studio del passato. Anche a questa seconda domanda, però, abbiamo poche speranze di poter dare una risposta certa e definitiva. Così come si presenta al lettore, il racconto di Tito Livio sa più di leggenda che di storia; o, al massimo, dà l’impressione di avere amplificato al massimo un elemento reale — lo stratagemma di intaccare il tronco d’un certo numero di alberi, per poi farli rovinare in basso, l’uno sull’altro, al momento opportuno — fino a oscurare ogni altro. Possiamo, cioè, ammettere che i Galli Boi si siano davvero serviti di una tattica come quella descritta, ma facciamo molta fatica a credere che l’intera battaglia si sia risolta in una carneficina, nella quale gli attaccanti non avrebbero avuto neppure bisogno di combattere, ma si sarebbero limitati a finire i legionari romani, seppelliti dalla viva muraglia di piante fatte precipitare su di loro. Possiamo invece benissimo immaginare che il crollo di alcuni grandi alberi, ostruendo il sentiero principale, così davanti a loro, come alle loro spalle, abbia gettato il panico fra i Romani, che dovettero sentirsi presi in trappola, prima ancora di subire l’attacco del nemico; e, pertanto, che essi abbiamo offerto scarsa resistenza, né abbiano potuto assumere la formazione difensiva a quadrato, sia per il nervosismo e il cedimento morale, sia per lo spazio assai ristretto di cui disponevano per manovrare, nel fitto della foresta. E così tutti gli interrogativi permangono, irrisolti e affascinanti…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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