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Fogazzaro poeta della natura inquietante in chiave quasi espressionista

Antonio Fogazzaro (Vicenza, 25 marzo 1842-ivi, 7 marzo 1911) è universalmente conosciuto per il suo capolavoro, «Piccolo mondo antico», e, in genere, per la sua tetralogia, costruita a partire dai personaggi e dalle problematiche che stanno al centro di questo, oltre che per romanzi come «Malombra», che lo connotano, inequivocabilmente, per un autore che si muove nell’ambito del Decadentismo e che, pur fra slanci idealistici ed empiti mistici, risente di una certa qual torbida sensualità, tipicamente simbolista ed estetizzante.

Eppure, a noi sembra che uno degli aspetti più interessanti, per non dire il più interessante senz’altro, di questo scrittore veneto che si è ritirato nella remota Valsolda, facendo di quell’angolino di terra, posto fra il lago di Lugano e la montagna, al confine tra Lombardia e Svizzera, una specie di patria ideale e spirituale, pressoché intatta nel suo isolamento e quasi estranea alle poderose correnti della civiltà moderna, sia non già quello storico e patriottico, per il quale è universalmente conosciuto e apprezzato, e neppure quello religioso e confusamente modernista, pervaso di languori decadentistici alla Huysmans; bensì quello, coevo al Pascoli delle «Myricae», di lucido interprete d’una natura stupefatta e sottilmente inquietante, colta con una sensibilità particolarmente acuta, e, si direbbe, iper-realista, tale da spalancare, attraverso di essa, una finestra sul mistero, sulla dimensione "altra". Perfettamente in linea con il Decadentismo, dunque; ma, nello stesso tempo, con una componente di "realismo", peraltro intrisa di sensualità quasi pagana, o meglio dannunziana, che fa di questo scrittore cattolico del Veneto profondo, figlio di una civiltà contadina ancora saldamente ancorata ai valori religiosi, lo stranito precursore di un "mondo nuovo", quasi espressionista, fatto di trasalimenti e premonizioni che hanno un po’ il sapore della trasgressione, e, anche, della rivelazione "à rebours": come si vede — se ci si consente l’accostamento — nelle inquietanti e surrealiste incisioni di un Arturo Martini, altro figlio di quella terra veneta che, nel suo rassicurante tradizionalismo, sa partorire, talvolta, dei veri figli di Dioniso o del dio Pan, magari sotto apparenze alquanto ordinarie e dimesse.

Fogazzaro possiede una maniera di guardare alla natura che ha qualcosa di primordiale e di sensuale nello stesso tempo, vorremmo quasi dire di pagano; però di un paganesimo "colto", filtrato dalla cultura di un uomo del tardo XIX secolo («Malombra» è del 1880-81, mentre «Piccolo mondo antico» vedrà le stampe solo nel 1895), molto aperto al progresso delle scienze e, in genere, alla cultura moderna; e però, tutt’insieme, di un paganesimo cristianizzato, nel senso che gli slanci ed i fremiti di quella natura misteriosa, seducente e provocante, vengono filtrati da una vigile coscienza religiosa, che cerca — cerca, ma non vi riesce poi del tutto — di imbrigliarli, di contenerli, di razionalizzarli: e che s’illude di averli in qualche modo esorcizzati, o, quanto meno, placati, solo perché li ha riconosciuti (ma fino in fondo?), li ha descritti e, per così dire, catalogati, inglobandoli e assorbendoli in se stessa. Questo vale per la morbosa atmosfera delle sedute spiritiche, per l’innominabile attrazione verso gli abissi della sensualità (dai quali Corrado Silla, il protagonista di «Malombra», un po’ come Franco Maironi, il protagonista di «Piccolo mondo antico», sfuggono, a ben guardare, solo con la morte); ma vale anche per le mirabili descrizioni del paesaggio.

Ed ecco la famosissima descrizione dell’Orrido di Osteno, una delle pagine più memorabili in cui lo scrittore vicentino canta la bellezza inquietante e quasi "gotica" di una natura primigenia e selvaggia (da: Antonio Fogazzaro, «Malombra», introduzione e note di Vittore Branca, Milano, Rizzoli, 1982, 1993, cap. VI, pp. 199-200; 211-13):

«Si doveva partire per l’Orrido alle dieci del mattino, c’era da percorrere il lago sino alla sua estremità di levante e poi da risalire la valle che lo alimentava con il torrentello di cui appunto sono lavoro le caverne dell’Orrido. Andavano tutti, tranne il conte. […]

Le due barche si dilungarono verso quello stretto dove il lago fa un gomito e corre ad appiattarsi dietro un alto promontorio selvoso, fra selci e canneti. "Saetta" precedeva il battello d’un buon tratto, malgrado le voci supplichevoli che partivano spesso da quest’ultimo perché la lancia bizzarra non avesse a correr tanto. Esso pareva un nonno gottoso che anfanasse dietro un nipotino monello sfuggitogli di mano. Marina non mostrava udire quelle voci, e al Rico bastò un’occhiata per intendere che non dovea smettere né rallentar di remare. Presto, di "Saetta" non apparve ai viaggiatori del battello che un punto bianco, la bandiera, oscillante lontano tra l’azzurrognolo confuso del lagh e dei vapori mattutini ancora avvolti alle montagne. […]

L’Orrido sta a poche centinaia di passi dal paese. Il fiume di C… nasce qualche chilometro più in su, si raccoglie lì tra le cave immani in cui scendono a congiungersi due opposte montagne, corre per breve tratto in piano, all’aperto, poi trabocca sotto al paese di rapida in rapida, di cascata in cascata sino in fondo della valle, per morire ignobilmente nel lago, là dove approdò la brigata del Palazzo. Uscendo da C… si trova presto un ponticello di legno che gitta la sua ombra sopra una luce di sparse spume, di acque verdi, di ghiaiottoli candidi. Non si passa il ponticello; si piglia invece a sinistra del letto del fiume. Colà le acque blande ridono e chiacchierano correndo via tra la gaia innocenza dei boschi con certi brividi memori di passate paure. Di scogli non appariscono che strisce oblique a fior di terra, tappezzate di scuri muschi, di fiocchi d’erba, di ciclami pomposi. Guardando in sui dalle ghiaie si vedono a dritta e a manca disegnarsi sul cielo le due sponde come due colossali ondate di vette fronzute, due alte dighe vive, luccicanti al sole, di roveri, di faggi, di frassini, di sorbi che si drizzano gli uni dietro gli altri, si curvano in fuori per vedere passar l’onde allegre, agitando e braccia distese, plaudendo. Presto si giunge a un gomito del fiume. Non più sole non più verde, non più riso d’acque: immani fauci di pietra vi si spalancano in viso e vi fermano con il ruggito sordo che n’esce, con il freddo alito umido che annera là in fondo la gola mostruosa. Il ruggito vien su dalle viscere profonde; l’acqua passa per la bocca degli scogli, grossa, cupa, ma silenziosa. Una sdruscita barchetta è lì incatenata a un anello infisso nella rupe. Porta due persone oltre il barcaiolo. Si risale la corrente con quella barchetta che pare non voler saperne, torce il muso ora a destra ora a sinistra e scapperebbe indietro senza la pertica di Caronte. Il fragore cresce; la luce manca. Si passa tra due rupi nere, qua rigonfie come strane vegetazioni, gemme enormi della pietra, là cave e stillanti come coppe capovolte; tutte rigate a intervalli eguali, scolpite a gengive su gengive dal fondo alla cima. In alto, il cielo si restringe via via tra scoglie e scoglio, e scompare. La barchetta salta in una fessura buia, piena d’urla, si dibatte, urta a destra, urta a sinistra, folle di spavento, sotto gli archi echeggianti della pietra che, morsa nelle viscere dal flutto veloce, si slancia in alto, si contorce. Dal sottilissimo strappo che fende il manto boscoso di quelle rupi filtra nelle tenebre un verdognolo albore, un lividore spettrale che macchia cadendo le sporgenze della roccia, vien meno di sasso in sasso e si perde prima di toccar l’acqua verde cupa; si direbbe un raggio di luna velata di nuvole, sull’alba.

Da quell’andito si entra nella "sala del trono", rotondo tempio infernale con un macigno nel mezzo, un deforme ambone per la messa nera, ritto tra due fascie enormi di spuma che gli cingono i fianchi e gli si spandono davanti in una gora larga, , tutta bolli menti e spume vagabonde, levando il fracasso di due tremi senza fine che divorino a paro una galleria. È da quel masso che viene alla caverna il nome di "sala del trono". Si pensa ad un re delle ombre, meditabondo su quel trono., fisi gli sguardi nelle acque profonde, piene di gemiti e di guai, piene di spiriti dolenti. Per una spaccatura dietro al trono sprizza nella caverna un getto di luce chiara.»

Oppure si prenda questa descrizione, simile ad un veloce acquerello, con cui Fogazzaro tratteggia in poche, sapienti pennellate un paesaggio di acque e boschi, colto nel magico momento del tramonto (idem, cap. III, p. 36):

«Il sole era tramontato e le cicale non cantavano più. La costa boscosa in faccia alla biblioteca si disegnava nera sotto il limpido cielo aranciato che posava un ultimo lume caldo sul pavimento della sala presso alle finestre, e, fuori, sulle foglie lucide, brune della magnolia, sulla ghiaia del giardinetto. Per la porta aperta entrava l’aria fresca del vallone e lo stridio dei passeri intorno ai cipressi.»

È un quadro che ricorda certe veloci, ma efficacissime descrizioni di paesaggio di Joseph Sheridan Le Fanu (nato a Dublino nel 1814 e ivi deceduto nel 1873: l’autore del celeberrimo romanzo "vampiresco" al femminile, «Carmilla», un genere oggi banalizzato da una pletora di libri e film che paiono la desolante fotocopia l’uno dell’altro: anche lui, come Fogazzaro, scrittore in fondo "gotico", con quell’ultima fiamma di luce che entra dalle finestre aperte e va a posarsi sul pavimento, come una languida promessa che si scioglie e si dissolve; malinconia mista a sensualità, sensualità intrecciata alla malinconia. (cfr. il nostro precedente articolo: «Mistero e poesia della foresta primeva in una pagina di Joseph Sheridan Le Fanu», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 13/05/2015).

Ma non è tutto. Alcune notazioni realistiche, anzi, quasi iper-realistiche, come l’ultima luce che scivola sulle lucide foglie della magnolia — non di un albero qualsiasi, di un albero generico, ma di una magnolia: quell’albero preciso, dalla chioma armoniosa ed imponente, e dalle grosse foglie lucide e brillanti, che paiono cose vive; e lo stridio dei passeri — non "degli uccelli", ma proprio di quel particolare tipo di uccelli, i passeri; e, infine, quell’aria fresca che entra dalla porta aperta, proveniente direttamente dal vallone: solo uno scrittore che ben conosce la natura poteva cogliere questi particolari, per esempio il fenomeno della brezza di monte, che si verifica dopo il tramonto all’imbocco delle valli e giù dalle montagne (mentre la brezza di valle, al contrario, sale verso le cime di buon mattino), che l’abitante delle città non conosce affatto e, quindi, non saprebbe cogliere, né saprebbe esprimere.

Vi è come una sospensione in quel momento magico, quando il cielo color d’arancio attende di essere avvolto nelle tenebre, le cicale tacciono e i grilli ancora non hanno incominciato a cantare, e tutta la natura sembra come in attesa di qualcosa. È un momento magico, inquietante, percorso da brividi arcane, come lo è in certe poesie del Pascoli, specialmente di «Myricae» – altro che Pascoli bucolico e sereno poeta della natura: Pascoli, il più inquieto e inquietante poeta dei campi, delle siepi, delle bestie, delle nuvole, dei temporali estivi; di tutto ciò che sembra immutabile e noto, e invece è sempre nuovo e imprevedibile, segretamente teso fino allo spasimo, nei brividi di una indicibile, arcana stupefazione.

Antonio Fogazzaro, in questi brani e in altri simili, sparsi nei suoi romanzi, mostra una felice, istintiva capacità di ricreare paesaggi e momenti fuori del tempo, a tu per tu con una natura innocente, ma enigmatica: forse più a-morale che innocente, sicuramente sfuggente alle pretese della razionalità e della volontà umana; una natura davanti alla quale gli uomini e le donne rimpiccioliscono, non solo fisicamente, ma soprattutto spiritualmente, in quanto è essa ad imporre la sua forza, i suoi ritmi, i suoi oscuri richiami, e non loro a signoreggiarla. In altre parole, è una natura che resta padrona, al di sopra delle vicende umane: le quali, al suo confronto, sbiadiscono e assumono proporzioni modeste, quasi insignificanti; come accade nella rievocazione delle trascorse ere geologiche nella celebre poesia di uno dei maestri di Fogazzaro, Giacomo Zanella, «Sopra una conchiglia fossile nel mio studio», del 1864.

È qui, a nostro parere, più che nel suo velleitario e sensuale "modernismo", che va cercata la chiave dei conflitti interiori e delle inquietudini intellettuali di Fogazzaro, scrittore cattolico che irrompe sulla scena letteraria italiana ed europea da un angolo del cattolicissimo Veneto: nel senso vivo e istintivo di una natura potente e prepotente, che sovrasta l’intelligenza umana e che ignora gli sforzi, le tensioni e le lacerazioni della volontà e della stessa etica. Perché la natura, per Fogazzaro, non è solo quella esteriore, non è solo l’Orrido di Osteno o la luce del tramonto che si posa sul pavimento della sala; è anche, e soprattutto, quella interna, degli istinti e delle passioni brucianti…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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