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15 Agosto 2015L’essere umano non arriva all’idea del bene da solo, in perfetta autonomia, anche se la conquista dell’autonomia morale è certamente la sola maniera di giungere al possesso duraturo e profondo dell’idea del bene.
La conseguenza di queste due proposizioni è che gli adulti devono adoperarsi affinché il bambino, crescendo in un ambiente idoneo, riceva l’esempio vivo e operante della legge morale e arrivi, nel passaggio dalla prima alla seconda infanzia, a oltrepassare la fase della eteronomia morale, per capire da se stesso quello che è bene e quello che non lo è. Secondo Rousseau e i suoi molti, attardati discepoli, il bambino è già buono in se stesso: tutto quel che gli adulti possono fare per lui, in fondo, è tirarsi da parte, o, quanto meno, rimuovere dal suo cammino tutti gli elementi esterni che possono solo creare confusione, o addirittura ritardare, la piena fioritura della sua autonomia morale; il che è una solenne sciocchezza. Nessun bambino arriva da se stesso all’autonomia morale, per il semplice fatto che esiste una legge morale naturale, inscritta nell’anima degli esseri umani: ma non matura da sola, ha bisogno di esempi ed è una conquista faticosa e combattuta, il cui esito non può mai dirsi scontato, nemmeno nella più tarda vecchiaia, sicché anche quel che sembrava acquisito stabilmente, deve essere difeso e riconquistato ogni giorno, ogni ora.
Il problema è che gli adulti, da un paio di generazioni a questa parte, sembrano avere completamente abdicato alla propria funzione educante, a ciò sospinti anche da una cattiva, anzi, da una pessima pedagogia: improvvisamente sgomenti davanti ai "traumi" che la loro educazione morale potrebbe causare all’innocente fanciullo, essi hanno solennemente preso l’impegno di non rinnovare mai più simili forzature, simili "pressioni", come facevano i loro padri e i loro nonni.
A questo brusco venir meno della figura genitoriale come fonte e modello della legge morale, si è aggiunta, contemporaneamente e parallelamente, l’azione distruttiva, devastante, degli educatori impropri e abusivi, primo fra tutti la televisione, e poi il computer e tutto ciò che la tecnologia, sfuggita di mano ai suoi inventori, è in grado di fare per stravolgere e sviare il senso morale del bambino. Immensi, incalcolabili sono i danni che i giochi elettronici, per esempio, esercitano sulla formazione del carattere dei bambini, specialmente se questi ultimi hanno familiarizzato con essi fin dalla prima o dalla primissima infanzia. Non si valuterà mai abbastanza seriamente il ruolo diabolico svolto da tali mezzi tecnologici nella contro-educazione delle ultimissime generazioni, esposte all’influsso aggressivo e maligno di programmi, situazioni e simulazioni di gioco che sono in grado di sovvertire, letteralmente, il senso del bene e del male, esercitando, nello stesso tempo, una pressione fortissima sulla fantasia, sull’immaginazione e sulla sensibilità, specialmente nei soggetti più predisposti a subire l’influenza di potenti modelli esterni.
La duplice circostanza dell’abdicazione del ruolo normativo dei genitori e della invadenza strapotente dei mezzi tecnologici ha fatto sì che il bambino, oggi, sia esposto all’irruzione di forze negative provenienti dalle zone infere della psiche individuale e collettiva — e, per coloro che vi credono, anche da più in basso ancora, dall’Inferno vero e proprio (e non, sia chiaro, come semplice e metaforico modo di dire).
Scriveva, sessant’anni or sono, Franca Magistretti, nel suo libro «Il mondo affettivo del fanciullo», che ebbe discreta risonanza e fu tradotto anche in Brasile (Brescia, La Scuola, 1954, 60-62):
«[…] il ragazzo deve […] gradualmente sostituire al concetto di una legge esterna, cui deve obbedire meccanicamente, un concetto di legge interiore a cui deve obbedire in modo molto più radicale e completo. E questo comincia a esser possibile perché egli stesso con l’introspezione sta imparando a riconoscere fino a che punto è responsabile della sua azione. Per esemplificare: un bambino di 6-7 anni sente la responsabilità legata unicamente all’infrazione della legge e prescinde dall’intenzione. Alcune prove hanno dimostrato che egli ritiene più colpevole chi rompe due tazze involontariamente di colui che ne rompe una involontariamente. Il male è uguale a "rompere la tazza": tante più tazze, tanto più male. E analogamente per altri casi. Un bambino di 11-12 anni, al contrario, saprà ben distinguere fra il fatto e l’intenzione, perché la legge esterna è diventata sua ed egli si rende conto del suo significato profondo.
Questa interiorizzazione della legge morale non vuol dire il passaggio ad un soggettivismo etico. Il bambino continua infatti ad adeguarsi ad una legge; soltanto, ne ritrova sempre più liberamente i motivi profondi, mentre la sua adesione diventa sempre più personale e quindi sempre più completa. Si realizza così un’evoluzione dall’"eteronomia" (legge esteriore) all’"autonomia" (legge interiore), la quale, tuttavia, sembra che non si possa compiere altro che a certe condizioni che vedremo tra breve.
Sottolineiamo intanto l’importanza del concetto di autonomia etica: quanti adulti nella nostra società vivono ancora dominati dall’eteronomia per cui il rispetto della legge è un obbligo imposto dall’esterno (che si può quindi infrangere tutte le volte che si ha una buona probabilità di evitare la sanzione) e non una necessità interiore?
Poiché credo nella libertà umana, non crederò mai che l’adesione al bene e l’autonomia morale possano poi essere complete e prive di rischi e di lotta: ma la lotta sarà spostata all’interno della persona, non fra l’uomo e la società, fra l’uomo e la legge.
Del resto, il precetto evangelico di sorvegliare i nostri pensieri prima ancora delle nostre azioni, e il precetto paolino di aderire allo spirito e non alla lettera della legge, non sono niente altro, in fondo, che un comando di arrivare all’autonomia morale, a quell’autonomia, cioè, che per noi si adegua continuamente alla norma divina, la quale non può non essere fondamentalmente accordata con le più profonde necessità della natura umana e con le sue più ardite possibilità di sviluppo.
Quali sono dunque le condizioni perché questa autonomia si sviluppi nel bambino e nel ragazzo?
Ho già detto che essa comincia a formarsi, o almeno, comincia ad avere la possibilità di formarsi, quando il ragazzo è sia in grado di allargare i suoi orizzonti intellettivi, sia di cooperare nella sua vita d’ogni giorno con gli altri coetanei e con gli adulti. Allora la legge morale si stacca dalla figura dei genitori e, mentre perde alcune particolarità forse secondarie che i genitori potevano aver sottolineate (può non sembrare più così grave, ad esempio, il dondolarsi sulla sedia!), assume un maggior carattere di oggettività.
Nello stesso tempo perde il suo carattere di assolutismo e di staticità, perché il ragazzo cominciando a viverla e a sperimentarne il valore in rapporto alla sua vita quotidiana, impara a valutarla, a fare delle distinzioni, a stabilire dei confronti, a ritenere alcune parti, a rifiutarne alcune altre:impara, in poche parole, a farla sua. E poiché, per farla sua, egli deve adattarsela, non c’è da meravigliarsi che la "sua" legge morale risulti forse non perfettamente "ortodossa" rispetto a quella degli adulti. Ma, da questo momento in avanti, la sua coscienza morale farà parte della sua personalità e, per così dire, crescerà con lei, in continuo rapporto con la sua esperienza, con l’esperienza altrui e con l’autorità, la quale mantiene ancora un suo prestigio, anche se meno assoluto e totalitario di quello che fosse nella prima infanzia.»
Viene da sorridere, se si pensa che una pedagogista come Franca Magistretti (in religione, suor Agnese: una devotissima seguace di Giuseppe Dossetti, che era stata maestra in una scuola popolare per ragazzi, creata in un albergo milanese per gli sfrattati, dove si lavorava la sera, a lume di candela, perché non c’era l’illuminazione elettrica) pensava ancora come certi genitori potessero dare troppa importanza alla proibizione di dondolarsi sulla sedia: erano altri tempi, certamente, visto che oggi molti genitori non fanno una piega nemmeno se i bambini siedono a tavola con il telefonino o il computer. Resta la validità del nocciolo del discorso da lei fatto: il senso del bene e del male deve maturare nel bambino in maniera autonoma; egli non può continuare a fondarsi indefinitamente sull’insegnamento altrui; bisogna che lo interiorizzi: solo così diventerà un adulto responsabile e capace di assumere decisioni scaturenti da un autentico senso etico.
D’altra parte, anche la Magistretti, di sfuggita, sembra domandarsi se ciò non possa condurre a una forma di relativismo etico; e risponde negativamente alla domanda, quasi prima di averla interamente formulata. Su questo aspetto del problema, invece, noi non saremmo affatto né così frettolosi, né altrettanto ottimisti. Si tratta di una questione molto delicata: da un lato, vi è la necessità di condurre il bambino alla interiorizzazione della legge morale, vale a dire alla conquista dell’autonomia etica; dall’altro, sussiste effettivamente il rischio che il bambino si costruisca una morale su misura, comoda, elastica, permissiva, ipocritamente tollerante, finalizzata a tacitare i rimproveri della coscienza, più che all’orientamento verso un bene positivo.
Il pericolo è tanto più forte, in quanto che la società contemporanea, nel suo complesso — e, come abbiamo visto, pedagogisti e genitori in prima fila — sembra avere rinunciato ad svolgere un ruolo educante; e, peggio ancora, sembra avere elaborato, in nome di una "libertà" astrattamente intesa, una tavola dei valori di nuovissimo conio, nella quale viene proclamato "bene" tutto ciò che piace, o che è utile, o che può assicurare dei vantaggi, dei godimenti, dei successi, mentre è "male" tutto ciò che implica la rinuncia, lo svantaggio e, al limite, la sconfitta (intesa nel senso puramente materiale e non, ovviamente, in quello spirituale).
Insomma: è vero, e giusto, l’enunciato che il bambino deve arrivare da sé alla comprensione del bene e del male; ma, per arrivarci in maniera adeguata e corretta, è necessario che vi sia una giusta preparazione da parte degli adulti: se abbandonato a se stesso, il bambino non vi giungerà mai; e, cosa ancora più grave, se traviato da una contro-educazione attiva e malefica, egli arriverà a capovolgere in se stesso la legge morale e a chiamare "male" il bene, e "bene" il male.
Arrivati a questo punto, i signori educatori progressisti, libertari e "democratici" possono risparmiarsi la fatica di rivolgerci le loro solite obiezioni, perché le conosciamo già in anticipo: «Chi o che cosa ci dà il diritto di parlare, in senso "forte", cioè in senso assoluto, del bene e del male? Non è forse vero che "bene" e "male" sono concetti relativi, che mutano con il mutare dei tempi e delle culture? Non è forse vero che quel che una cultura considera "bene", un’altra lo considera "male"? E, in tal caso, chi ci darà mai il "diritto" di parlare ancora del bene e del male? Non sarebbe, codesta, una pretesa arrogante e dispotica, degna di altri tempi, quando vigevano l’ottusità e il bigottismo, mentre ora noi abbiamo l’incommensurabile fortuna di vivere in una società aperta, multiculturale, pluralista, e — perciò — necessariamente, e giustamente, "relativista"?»
Nossignori: queste sono solamente chiacchiere; questi non sono altro che sofismi di bassa lega. Il fatto che vi sia un certo grado di diversità etica nelle diverse culture non equivale a negare che esista una legge morale naturale, valida e sentita presso tutti i popoli e nel mistero di ciascuna anima umana. Noi perciò osiamo affermare che, sì, presso una tribù di guerrieri e di cannibali, uccidere il nemico e poi divorare il suo corpo è considerato un valore, e quindi un "bene", mentre soccorrere i deboli e curare i malati sarà considerata una forma di debolezza, e, pertanto, di "male"; ma è sufficiente che un sia pur pallido raggio di luce giunga a rischiarare le tenebre dell’anima (e ciò è stato osservato innumerevoli volte: chi ha letto i diari dei padri missionari sa bene di che cosa stiamo parlando) perché anche nei "barbari" più crudeli e sanguinari si accenda una scintilla di quella legge morale che esiste nelle profondità di ogni anima umana, magari sepolta sotto pesanti strati d’ignoranza e diseducazione sociale. In altre parole: chi fa il male, sa di farlo; anche se gli altri lo approvano, egli sente un sia pur vago disagio interiore, o, quanto meno, è suscettibile di provarlo, non appena si diano le circostanze adatte. Ciò significa che la legge morale insegnata dall’esterno trova una corrispondenza nella legge morale che esiste già nell’uomo. Il che non equivale ad affermare – si badi – che l’uomo è buono in se stesso; niente affatto: lasciamo che a dire una simile sciocchezza siano i seguaci di Rousseau. Equivale ad affermare, invece, che in ciascun essere umano è inscritta, fin dall’inizio, la possibilità della scelta consapevole fra il bene e il male. Ed ecco perché l’esempio di genitori e adulti riveste tanta importanza nello sviluppo della coscienza etica…
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