
«Cosa, dunque, è andato smarrito?»
13 Agosto 2015
Come la filosofia greca dell’essere è stata tramite fra il pensiero induista e buddista
14 Agosto 2015Demostene, nato ad Atene nel 384 a. C., da famiglia assai facoltosa (suo padre era un ricco fabbricante di armi), morto suicida nel 322, nell’isoletta di Caluria, per non cadere nelle mani di Antipatro, vittorioso generale di Alessandro il Macedone (bevve il veleno, come già aveva fatto Socrate e come avrebbe fatto Seneca), ha legato il proprio nome non solo alla storia dell’oratoria, ma anche a quella delle idee politiche, come strenuo assertore della democrazia ateniese.
Come cittadino ateniese, egli era innanzitutto un nazionalista; come greco, uno spregiatore dei "barbari", a cominciare da quelli più vicini e minacciosi di tutti, i Macedoni; come sommo oratore, era un inesauribile persuasore dei suoi concittadini, che spinse a seguire una politica velleitaria, irrealistica e anacronistica; come campione della democrazia, pur toccato e coinvolto da un grave scandalo finanziario, quello dell’oro di Arpalo) non si stancò mai di vedere in essa la sola forma possibile di governo realmente degna di un popolo civile e, in ogni caso, la sola che si addicesse al ruolo egemonico che il destino, a suo avviso, aveva assegnato alla sua patria ateniese.
Fu il principale animatore della resistenza ateniese, e panellenica, contro le mire di Filippo, contro il quale si scagliò nelle sue tre celebri orazioni "Filippiche" (modello per le future, omonime orazioni di Cicerone contro Marco Antonio), tanto da partecipare personalmente alla sventrata battaglia di Cheronea (338 a. C.), nella quale cadde il fiore della gioventù greca, e specialmente tebana, senza esser riuscita a fermare il vittorioso espansionismo del re macedone. Ma, in effetti, Demostene non sognava la libertà della Grecia, bensì il ripristino della supremazia ateniese e la rinascita del suo impero, come ai bei tempi di Pericle: se, per mero gusto di ipotesi, a Cheronea i Macedoni fossero stati sconfitti, il disegno di Demostene non era quello di restituire la libertà alle "poleis" greche, ma di ricondurle, in una forma o nell’altra, sotto il controllo imperiale ateniese.
In questo senso, si può dire che la guerra del Peloponneso non aveva insegnato nulla a quest’uomo imbevuto di retorica parolaia e vanagloriosa; non si era affatto domandato come mai, se i magnifici destini della democrazia ateniese erano scritti nel Fato, il sogno dell’imperialismo ateniese si fosse infranto già ai tempi di Pericle; né si era posto il problema come avrebbe potuto la Atene dei suoi tempi, che era ridotta all’ombra della fiorente città di un tempo, riuscire in quella impresa ove avevano fallito Pericle, Nicia, Alcibiade; dove avrebbe trovato le risorse, finanziarie e militari, e con quali prospettive avrebbe convinto le altre "poleis" ad affrontare una prova tremenda, dalla quale sarebbe derivata loro non la libertà, ma una diversa sudditanza politica.
La sua carriera nell’oratoria giudiziaria si riflette nella sua ideologia politica: se si potesse governare uno stato e ispirarne l’azione con gli stessi criteri con i quali si può affrontare e vincere una vertenza processuale fra soggetti privati, certamente egli era l’uomo giusto per guidare, o ispirare, la linea politica di Atene al tempo della minaccia macedone; ma la realtà è ben diversa, e la politica vera non si fa coi bei discorsi, né si guida un popolo alla vittoria, in una lotta per la vita e per la morte, semplicemente accompagnandolo e rincuorandolo con le frasi brillanti, con l’ironia, con i paradossi e le domande retoriche. Ci vuol ben altro. E, se è vero che un certo grado di utopia è necessario affinché la politica non degeneri nel cinismo, è pur vero che la politica è, e rimane, l’arte del possibile: essa deve partire da una analisi realistica delle situazioni e deve saper individuare, con realismo, prudenza e lungimiranza, i mezzi atti a realizzare i propri obiettivi; per cui, se una politica priva di slancio ideale è squallida, diventa pericolosa qualora perda il contatto con la realtà.
Un sintetico ritratto di Demostene è tracciato da Pier Luigi Amisano nel testo: «Άσκησις. Versioni greche per il triennio», Milano, Paravia, 2004, pp. 386-387):
«Campione dell’indipendenza greca e strenuo difensore sulla tribuna della Pnice, così come sul campo di battaglia, della democrazia, egli sognò fin da giovane di far ripetere ai suoi concittadini le gesta dei loro antenati e di trasformare l’Atene del suo tempo in quella di Pericle, rivendicando per la sua città quel ruolo egemone che la storia le aveva assegnato.
Ma l’Atene del suo tempo, ancor prima che Filippo si affacciasse sulla scena della Grecia, era andata lentamente trasformandosi: già nel 355 al gruppo dei democratici al potere travolto dalla crisi finanziaria e dagli scandali era subentrato un governo capitanato da Eubulo, espressione dei ceti possidenti, che predicava un certo disimpegno nei confronti degli alleati e lo sviluppo delle attività economiche e commerciali volto al risanamento delle finanze; il che significava una rinuncia di Atene a un ruolo egemonico impegnativo e soprattutto costoso.
Demostene dopo un iniziale e breve appoggio alla politica di non ingerenza di Eubulo, se ne distacca rincorrendo per tutta la vita il sogno di un’Atene libera, grande e ancora egemone su tutta la Grecia.
Per questo motivo egli attribuisce ad Atene il compito di ergersi a difesa della Grecia bloccando sul nascere l’espansione di Filippo; quando poi, dopo la caduta di Olinto e la successiva pace di Filocrate, divennero sempre più chiare le mire del sovrano, analizzato l’effettivo rapporto di forze in campo e il momento di debolezza per Atene, Demostene si impegnò a ritessere un nuovo sistema di alleanze tra le città greche con l’obiettivo di allargare il fronte dell’opposizione a Filippo; sperava così di poter ricreare "un’alleanza di mutua assistenza e amicizia", una forza panellenica da opporre a un "barbaro" che voleva dominare la Grecia e la sua città.»Nessuna πόλις infatti poteva sperare di salvarsi con le sole proprie forze, perché Filippo era troppo potente, né ritenersi "troppo lontana da lui" e quindi non coinvolta nelle operazioni, perché l’obiettivo finale di Filippo era il dominio su tutti e su tutto.
Egli si rese ben conto della grandezza e della pericolosità del nemico contro il quale combatté egli stesso, assieme alle forze di gran parte delle città greche, nella sfortunata battaglia di Cheronea, che segnò la fine dell’ideale politico della πόλις e della libertà della Grecia.
Comunque si voglia giudicare la sua opera politica, Demostene ebbe coscienza dei valori di civiltà insiti nella struttura democratica e cercò di salvaguardarli con coerenza. […]
Uomo di grande cultura, conoscitore non superficiale del diritto, della filosofia e della storia, Demostene possiede uno stile tutto suo; nelle sue orazioni, scritte non per essere lette ma per esser pronunciate davanti alle vivaci e turbolente assemblee della Pnice, egli riesce a penetrare l’animo degli uditori, a coglierne sentimenti e passioni e, con un linguaggio colorito e impetuoso, a impressionarlo fino a travolgerlo. La sua espressione, ardita, fitta di metafore e di iperboli, di apostrofi e di domande retoriche, di ironia e di paradossi, si adatta alle esigenze del momento; non p quindi strano ritrovarvi anche pesanti insulti all’indirizzo degli avversari, nonché frasi intrise di amaro sarcasmo nei confronti dei suoi concittadini, negligenti e passivi o forse solo rassegnati. …»
Ecco: Demostene, il campione della democrazia ateniese, è tutto qui; ed, invero, ricorda in modo impressionante altri campioni della democrazia, vissuti in altri tempi e sotto altri cieli, anche molto vicini a noi.
Innanzitutto, egli parte da un pregiudizio ideologico: che solo la democrazia possa salvare il mondo (o meglio, Atene: ma Atene, per lui, è il mondo). I problemi materiali, e specialmente quelli di bilancio; le questioni industriali e commerciali; le necessità finanziarie dello stato, per lui sono quisquilie, entità del tutto trascurabili. Quello che conta realmente è lo spirito: atteggiamento che si addice a un filosofo o a un sacerdote, molto meno a un uomo politico cosciente e responsabile, dalla cui capacità, quasi sovrumana, di persuadere i suoi concittadini, facendo leva sulle loro passioni più che sul ragionamento, dipendono le loro vite, i loro beni, il loro destino e quello dei loro figli.
Si dirà che questo ritratto di Demostene è troppo duro e ingeneroso; che i suoi stessi concittadini, pur dopo la sconfitta di Cheronea e lo scandalo di Arpalo, non gli tolsero mai del tutto la loro simpatia e la loro riconoscenza; che egli seppe interpretare, in ultima analisi, una politica impregnata di valori. E tuttavia, considerando la biografia di questo ateniese chiacchierone, testardo e vanitoso, che vede se stesso nella parte di ultimo e supremo baluardo della libertà greca, nonché di una saggia e inascoltata Cassandra davanti al pericolo imminente, non è difficile rendersi conto che il principale, se non l’unico, titolo di merito che ancora oggi gli riconoscono quasi tutti gli storici, è quello di avere strenuamente difeso una ideologia, quella democratica, che, ai nostri giorni, si sta imponendo, con le buone o con le cattive, come l’ideologia mondiale al tempo della globalizzazione. Insomma: averne fatto un precursore di Franklin e del "mondo libero" occidentale, ha praticamente imposto la necessità di esaltarne i meriti — il patriottismo, il disinteresse, il suo stesso donchisciottismo — e di mettere in ombra i suoi (molti) demeriti.
È accaduto, nei suoi confronti, qualche cosa di simile a quel che è stato fatto per altri personaggi che il paradigma culturale moderno ha eletto a propri antesignani, profeti e precursori, anche in ambiti diversi dalla politica. Così, Galilei è stato elevato agli altari di una scienza laica, ma infallibile come lo erano le vecchie religioni: minimizzando o tacendo i suoi errori scientifici e i suoi gravi difetti personali, si è voluto fare di lui il campione di una scienza moderna e perseguitata dall’oscurantismo ecclesiastico; il che è lontanissimo dalla verità, ma è talmente entrato nelle idee del pubblico, a forza di dirlo e di ripeterlo, da averne usurpato il posto. Allo stesso modo, di Giordano Bruno si è voluto fare il campione del libero pensiero (ma anche di altri personaggi, sempre più improbabili: fino al "divino" marchese De Sade); di un Joyce, un Brecht, un Beckett, un Dario Fo, si è voluto fare i geniali scrittori e commediografi, che hanno svelatole le tare nascoste della nostra società; di un Churchill, di un Roosevelt e persino di uno Stalin, i campioni della libertà europea e mondiale; di un Sartre, il più grande filosofo del XX secolo; di un Freud, il geniale scienziato dell’inconscio, che vedeva chiaro, là dove tutti gli altri brancolavano nelle tenebre; di un Basaglia e di un Foucault, i campioni della libertà e della dignità umana, contro l’universo concentrazionario della psichiatria, brutto e cattivo; del Concilio Vaticano II, o meglio, di una certa linea post-conciliare, il simbolo del "risveglio" della Chiesa cattolica, dopo quasi duemila anni di immobilismo, chiusura e spirito meschinamente reazionario; e così via.
L’elenco sarebbe lungo, lunghissimo. Basta vedere con quali criteri sono stati assegnato certi premi Nobel — per la letteratura, per la scienza, persino per la pace — per rendesi conto fino a che punto il gioco della democrazia contemporanea sia stato autoreferenziale. Se le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki fossero state sganciate su due città inermi da Hitler, il mondo avrebbe aggiunto questa infamia alle altre da lui perpetrate, e, probabilmente, sarebbe stata considerata la più grave di tutte; ma poiché a decidere quella operazione è stato un presidente statunitense democraticamente eletto, e che si sentiva investito della sacra missione di liberare il mondo dalle dittature, allora la cosa è stata attribuita a una sorta di fatalità, di cui nessuno, personalmente, è da ritenersi responsabile.
Occorre dunque riportare la figura e l’opera di Demostene alle loro vere proporzioni, spogliandole di tutta quella sovrastruttura ideologica che lo ha trasformato da un certo uomo politico, vissuto in un contesto storico ben preciso, in una specie di simbolo perenne e a-temporale della libertà e della democrazia. È impossibile valutare serenamente la vita e l’azione politica di Demostene fino a che non si rinuncia al suo fantasma ideologico e non si ritorna all’uomo concreto che egli è stato, in una situazione politica, economica e culturale ben precisa. Anche perché la mistificazione è stata più sottintesa, che esplicitamente affermata: ed è sempre più difficile liberarsi da uno schema mentale che le persone hanno introiettato, senza però esserne pienamente consapevoli.
Chi è stato, dunque, Demostene, nella realtà effettiva del suo tempo; e quale significato possiamo ricavare dalla sua ideologia e dalla sua azione politica, evitando l’errore di prospettiva di farne una figura "esemplare" ed eterna? A ben guardare, è stato un patriota sincero, ma miope; un sognatore fuori tempo massimo; uno di quegli uomini che vorrebbero trascinare tutti in un mondo ideale, spronando gli esitanti e, se necessario, falsificando la realtà, tanto son convinti di essere nel giusto…
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