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Lo sciamano dei Tlingit, la stregoneria e la magia

I popoli amerindi della costa nordoccidentale americana, fra l’odierno Stato di Washington, la Columbia Britannica (canadese) e la propaggine sud-orientale dell’Alaska, a causa del loro relativo isolamenti geografico rispetto alle altre popolazioni indigene (dalle quali erano separati dalla Catena delle Cascate) e del contatto piuttosto tardivo con gli uomini bianchi — Russi cacciatori di pellicce, poi Inglesi e Americani — hanno sviluppato e conservato piuttosto a lungo una fitta rete di usi, costumi e tradizioni assolutamente peculiari.

Quello che accomunava le tribù (procedendo da Sud a Nord) dei Coast Salish, dei Nootka, dei Kwakiutl, dei Bella Coola, dei Tsimshian, degli Haida e, infine dei Tlingit, era, oltre all’economia basata sulla pesca del salmone e sulla navigazione costiera fra lo Stretto di Georgia, l’isola di Vancouver, l’Arcipelago della Regina Carlotta e la Baia di Yakutar, e oltre alla rigida stratificazione sociale (comprendente il ricorso abbastanza frequente alla guerra e l’istituto della schiavitù), una religione di tipo sciamanico, basata su uno spirito protettore di qualche animale totemico, o anche, a volte, sullo spirito di una particolare forza della natura, ad esempio il tuono.

Un altro elemento caratterizzante delle civiltà amerindie della costa nordoccidentale era la solenne cerimonia annuale del "potlach", nella quale, in occasione di un grande banchetto, alcuni uomini distruggevano i propri beni in misura considerevole, al fine di conquistarsi la fama di spregiatori della ricchezza materiale e rafforzando considerevolmente il proprio prestigio sociale (ma non, tuttavia, in una prospettiva di tipo ascetico). È da notare che i Kwakiutl, oggetto di studio da parte dell’antropologa Ruth Benedict, sono stati da lei catalogati fra i popoli dominati da una smodata ambizione e dalla mania di grandezza, ciò che rendeva molto conflittuali i loro rapporti con le tribù vicine, ma anche al proprio interno.

Lo sciamanismo, imparentato con quello dei popoli della Siberia e dell’Asia centro-orientale, Manciuria e Mongolia comprese (ed egregiamente studiato da antropologi e storici delle religioni, come Mircea Eliade), faceva perno sulla figura dello sciamano, che era, nel medesimo tempo, lo stregone, il guaritore, l’indovino, il messaggero della volontà degli dei, e che poteva anche essere una donna; lo sciamano diveniva tale, il più delle volte, in seguito ad una grave malattia, che gli permetteva di affacciarsi sulla soglia della dimensione "altra" e di trovare piena conferma alla propria vocazione. Generalmente, quella dello sciamano era una vocazione ed una chiamata soprannaturale, ma, nello stesso tempo, sovente ereditaria, e non era consentito opporvi un rifiuto, dato che l’individuo viveva al servizio del gruppo, e non viceversa.

Esso era diffuso anche fra gli Indiani stanziati più a sud, nell’area degli attuali Stati Uniti, sia nel Grande Bacino, sia nelle Pianure ad ovest del Mississippi-Missouri; il profeta paiute Wovoka, per esempio che fu il fondatore della danza degli Spettri sul finire del XIX secolo, ebbe la sua personale rivelazione nel corso di una grave malattia, che lo tenne sospeso fra la vita e la morte e che gli dischiuse l’accesso alla visione dei cieli nuovi e della terra nuova, che sarebbero sorti entro brevissimo tempo (cfr. il nostro saggio: «I Paiute del Nevada», parzialmente pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 22/09/2007).

Fra gli Haida, i Kwakiutl, i Tlingit e gli altri popoli della costa nord-occidentale erano assai diffuse la magia e la stregoneria: pratiche difficilmente separabili dallo sciamanismo in quanto tale, anche se, a rigore, una distinzione esiste. A prescindere dalle forze o dalle entità soprannaturali chiamate in causa, lo sciamanismo consiste pur sempre, essenzialmente, in una serie di riti utili alla vita della tribù, mentre la magia e la stregoneria sono praticate nell’interesse egoistico di un solo individuo, e hanno finalità deliberatamente maligne.

Ha scritto l’etnologo svizzero Peter R. Gerber nel suo libro, scritto insieme al fotografo Maximilien Bruggman, «Indiani della costa nordoccidentale»; edizione originale: Zürich, U. Bär Verlag, 1987; edizione italiana: Milano, Jaca Book, 1987; pp. 138-141):

«Sciamani si diveniva nella maggior parte dei casi per vocazione, questa si manifestava spesso con una grave malattia. Anche allucinazioni, visioni o frequenti sogni erano spesso segni di una vocazione, alla quale non era possibile sottrarsi. Questo ruolo sociale veniva però anche cercato, soprattutto quando faceva parte della tradizione familiare. Per esempio uno sciamano lasciava in eredità i suoi poteri ad un nipote che vi era predestinato. Durante un periodo di apprendistato, solitamente lungo, il novizio doveva adattarsi alle capacità del suo maestro, soprattutto doveva imparare a conoscere e doveva impadronirsi del suo del suo aiutante spirituale, al quale sarebbe rimasto debitore per i poteri soprannaturali. Trattare con questi spiriti ausiliari non era completamente privo di pericoli, se uno sciamano si comportava in modo non corretto verso di loro, essi potevano dirigere contro di lui la propria forza per castigo.

La nomina ufficiale a sciamano avveniva quasi sempre dopo la morte del maestro ed era un avvenimento pubblico. Il successore otteneva la legittimazione quando, dopo essere caduto in trance, emetteva i medesimi suoni particolari ed eseguiva i medesimi movimenti del corpo dl suo predecessore. In questo modo gli spiriti ausiliari mostravano ed annunciavano di accettare il successore. Gli spiriti ausiliari potevano essere animali terrestri o acquatici, uccelli, insetti, costellazioni, elementi naturali come il vento o il tuono, oppure un utensile usato per le guarigioni come il cattura-anime.

Dato che esistevano spiriti ausiliari potenti ed altri di minor importanza, gli sciamani erano ordinati gerarchicamente secondo i loro spiriti ausiliari da potenti a meno importanti. Durante l’inverno gareggiavano spesso con le loro capacità e intrattenevano spesso la popolazione con la dimostrazione di "pezzi di bravura" come inghiottire coltelli, passare nel fuoco e lottare con sciamani cattivi invisibili.

Gli sciamani, sia uomini che donne, erano oggetto di rispetto, ma anche di timore, poiché si attribuiva loro la capacità di portare danno agli altri mediante magie. Tuttavia in generale servivano alla comunità come veggenti, come nella storia di Wideltal, ed era uno dei loro compiti più importanti, oppure come guaritori. Ovviamente questa funzione era in stretta connessione con la medicina delle culture della costa nordoccidentale. Si distinguevano tre tipi di malattie principali: perdita dell’anima, corpo estraneo nel paziente e malattia mentale. Nel caso della perdita del’anima si trattava di una grave malattia nella quale potevano intervenire solo gli sciamani più potenti. Con una drammatica cerimonia, lo sciamano cadeva in trance e con i suoi potenti spiriti ausiliari si metteva ala ricerca dell’anima persa. Una volta ritrovata, cercava di convincerla a ritornare nel paziente; qualche volta doveva anche liberarla dal potere di uno sciamano maligno. Uno sciamano o uno spirito cattivo poteva anche, con la magia, introdurre nella sua vittima un corpo estraneo, causa di male. Lo sciamano, per guarire, lo allontanava dal corpo del suo paziente, per esempio richiamandolo e poi distruggendolo. Nel caso di una malattia mentale si ricercava il motivo in una infrazione di tabù o nel possedimento da parte di uno spirito cattivo. Per mezzo di una particolare cerimonia di guarigione, lo sciamano tentava di rimediare all’infrazione del tabù o a convincere lo spirito a lasciare il paziente.

Queste cerimonie di guarigione avvenivano pubblicamente e, in caso di successo, procuravano molta stima allo sciamano. Se il paziente non guariva o moriva, lo sciamano doveva ripagare o addirittura sopportare ostilità. Se la morte sopravveniva in molti suoi pazienti, si poteva giungere al decreto di morte dello sciamano incapace. La professione di sciamano non era quindi esente da rischio e solo pochi, grazie ai loro successi, ottenevano un riconoscimento sociale come i guerrieri o gli artisti famosi. Presso i Tlingit gli sciamani potevano raggiungere posizioni di capi o per lo meno insegnare ai capi ad incutere paura; per questa ragione gli sciamani dei Tlingit erano considerati i più potenti della costa nordoccidentale.

Quando la malattia veniva fatta risalire a un influsso malefico, quando degli spiriti potenti commettevano le loro malvagità o quando l’ordine sociale gerarchico non era privo di tensioni, doveva esistere un colpevole. Come meravigliarsi se i sospetti e le colpe venissero fatte ricadere su stregonerie e magie? In modo particolare le donne, ma anche i bambini e gli schiavi, sebbene questi ultimi non venissero considerati persone, ma oggetti, venivano spesso incolpati di queste azioni malvagie; con la tortura li si obbliga a alla confessione e la pena di morte era usuale. Da ricerche svolte in altri paesi, sappiamo che la stregoneria e la magia erano soprattutto fenomeni riscontrabili in situazione coloniale. In quale misura questo fosse vero anche per la costa nordoccidentale non possiamo affermarlo a causa della scarsità delle informazioni del periodo precedente al contatto con i bianchi.»

La domanda che gli etnologi europei e americani si pongono, in buona sostanza, è se la magia e la stregoneria, presso i popoli della costa americana nordoccidentale, siano state, in qualche maniera, importate dalla civiltà dei bianchi, o se si possano considerare come elementi autoctoni. È difficile non vedere che la posta in gioco di un tale interrogativo travalica il semplice interesse etnografico e investe questioni ideologiche afferenti il colonialismo, l’acculturazione e, più in generale, la "vexata quaestio" dell’incontro ineguale fra i bianchi e i popoli indigeni. Ai nipotini di Rousseau, tutti presi dal loro mito del "buon selvaggio", piacerebbe addossare ai bianchi tutta la responsabilità per quanto di aberrante può esserci stato, non tanto nella magia e nella stregoneria in se stesse, ma nella caccia alle streghe e alle maghe (nonché agli stregoni ed ai maghi di sesso maschile), che tanto ricorda loro gli orrori dell’Inquisizione cattolica e che, pertanto così bene si accorda con la loro base culturale illuminista, positivista e materialista, implicitamente o esplicitamente irreligiosa.

Allorché gli antropologi si trovano in presenza di fatti relativi alla magia e alla stregoneria presso i popoli nativi, e sentono parlare del Diavolo, subito si mettono in sospetto: pensano che tale credenza sia giunta per il tramite dei missionari cattolici, e ne deducono che anche i processi e le esecuzioni per stregoneria siano una specie di replica, più o meno consapevole, di quanto accadde in Europa nei secoli passati. Le cose, però, non sono affatto così semplici. La magia e la stregoneria vengono praticate con l’aiuto degli spiriti malvagi; il fatto che, sotto l’influsso del cristianesimo, i popoli nativi abbiano fatto propria la credenza nel Diavolo, è, a ben guardare, poco più che una questione di termini: prima gli stregoni si rivolgevano agli spiriti malvagi, poi hanno imparato a rivolgersi al Diavolo, l’antagonista del Dio cristiano, oppure a dei diavoli di secondo ordine. La loro credenza di fondo non è cambiata, ha solo mutato forma.

La questione centrale, pertanto, non è sapere se la stregoneria sia stata "importata" dal contatto con i bianchi — cosa che, per i popoli amerindi della costa nordoccidentale, avvenne dopo il 1846, quando Gran Bretagna e Stati Uniti si spartirono il Territorio dell’Oregon -, perché essa esisteva già prima, così come esisteva nell’Egitto dei Faraoni, a Babilonia, nell’antica Grecia, a Roma e in tutte le culture a livello etnologico; bensì ammettere, oppure no, che essa si fondava sulle potenze maligne soprannaturali e che, indipendentemente dalla questione circa l’esistenza reale di tali potenze, i popoli presso cui era praticata vi credevano e si regolavano di conseguenza — con il logico corollario dei procedimenti e delle esecuzioni capitali nei confronti di streghe e stregoni.

In fondo, non si tratta di un problema etnologico, ma culturale, che riguarda non già i popoli a cultura etnologica, ma coloro che li studiano: gli antropologi. Si tratta, cioè, di vedere se questi ultimi sono disposti a rinunciare al mito russoviano e a riconoscere che i popoli primitivi non avevano bisogno dell’imbeccata del cristianesimo, o della Chiesa cattolica, né per invocare e adorare le forze del male, né per agire contro le persone che facevano simili cose. Quanto a noi, abbiamo già trattato questo problema in svariati lavori, fra i quali: «André Dupeyrat: un missionario contro gli stregoni (prima parte)», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 12/05/2008; «André Dupeyrat: un intervento miracoloso nella foresta (seconda parte)», il 13/05/2008; «L’angelo custode attende André Dupeyrat al bivio della foresta (terza parte)», il 14/05/2008; «Dobu: l’isola paradisiaca dove il Diavolo cammina ancora su piedi umani», il 10/08/2010. Al Male non importa che gli studiosi credano alla sua esistenza o che nome gli diano: c’e sempre chi è disposto a servirlo.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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