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3 Agosto 2015Il male morale: perché? Che cosa spinge gli uomini a commettere il male, se la natura è buona? E d’altra parte, se la natura non è buona, che cosa spinge l’uomo a provare rimorso per il male compiuto? Da dove, dunque, è scaturito il male; da dove esso ha fatto irruzione nella creazione, devastandola e lacerandola fino alla radice?
Il male morale, dovunque provenga, non è semplicemente un errore, come pensava Socrate; e neppure una impotenza, una incapacità di fare il bene, come sostiene Paul Ricoeur. No, il male morale è un atto volontario, come affermava Sant’Agostino: è un atto libero, altrimenti non avrebbe senso giudicarlo "male"; ed è una miseria che consiste nello scegliere, all’interno della gerarchia di valori inscritta nell’anima umana, i beni inferiori, egoistici e brutali, piuttosto che quelli superiori. Il bene sommo è abbandonarsi all’amore perfetto verso Dio; il male sommo, o sommo peccato, è allontanarsi massimamente da Lui. L’errore appartiene a una categoria puramente razionale; ridurre il male ad un semplice errore significa privarlo della sua connotazione più specifica: la volontà maligna, l’intenzionalità rivolta verso il male anziché verso il bene e, dunque, il pervertimento della gerarchia dei valori dimoranti nell’anima umana.
Strano che la cultura moderna, tutta pervasa di ermeneutica demistificante e di critica esegetica, tutta attraversato dalla cultura del sospetto, che finisce per sovrastare e strangolare ogni disponibilità all’ascolto, in questo ambito, invece, e solo in questo ambito, sia stata in genere così blanda e ingenuamente ottimista: pessimista e nichilista in tutto il resto, a proposito del male e del peccato, ha sfoderato un ottimismo a prova di bomba. Il male non esiste; nessuno fa veramente il male; ciascuno segue la propria inclinazione, ciascuno esercita la propria libertà: e se, talvolta, ne risulta un male, non vi è stato nulla di intenzionale, nulla di perverso, perché tutto ciò che esiste nell’uomo è legittimo, naturale, ha tutto il diritto di venire alla luce e di cercare il proprio soddisfacimento. Ma forse non è poi così strano, se si riflette che questo ottimismo forzato non nasce da altro che dalla volontà di giustificare ogni forma di edonismo e ogni aberrazione narcisista, oltre che dalla necessità di eliminare quello scomodo grido della coscienza che testimonia, col suo non consentire facilmente al male, anche quando lo si sia compiuto, la presenza, nell’uomo, di un principio superiore che, tuttavia, è impossibile riconoscere, perché la sua ammissione metterebbe in crisi tutta l’impalcatura delle nostre materialistiche certezze.
Eppure, se si vuol guardare la realtà senza le lenti dell’ideologia, così come essa si presenta immediatamente al nostro sguardo, è evidente che il male morale esiste, eccome; e che gli uomini lo commettono in piena coscienza e con piena intenzionalità: è evidente, dunque, che il peccato non è un retaggio di una cultura religiosa appartenente al passato, ma una realtà inquietante e misteriosa, che non chiede il permesso ai nostri intellettuali laici e razionalisti per manifestarsi, ma che viene a turbare la festa del banchetto illuminista, tutto fondato sul presupposto della perfetta bontà della natura, proiettando su di esso delle ombre minacciose. Eppure, anche il cristianesimo afferma che la natura, in origine, è buona; ma che poi qualcosa l’ha ferita, qualcosa l’ha segnata in maniera pressoché irreparabile — irreparabile, quanto alle forze dell’uomo e non quanto alla disponibilità amorevole di Do, che rimane immutata e che, anzi, ha dato origine al mistero sommo dell’Incarnazione: un evento, un atto, una azione deliberata, quello che appunto i cristiani chiamano il Peccato originale.
Il filosofo moderno che ha esplorato con più acutezza questo mistero è stato Sören Kierkegaard, specialmente nel saggio «Il concetto dell’angoscia» (1844), la cui riflessione è stata così sintetizzata da Isabella Adinolfi Bettiolo («Kierkegaard: libertà e ragione», in: «La libertà del bene», a cura di Carmelo Vigna, Milano, Vita e Pensiero, 1998, pp. 347-49):
«Pertanto: ogni uomo, come Adamo, è libero. Ogni uomo, come Adamo, comincia con l’innocenza… eppure, ogni uomo, nessuno escluso, ripete il peccato di Adamo. Ed ecco riproporsi, allora, la consueta domanda: su quale fondamento affermo che Adamo, e con lui tutti i suoi discendenti, avrebbero potuto non peccare?
Invisibile alla vista, in quanto si annienta sia divenendo sia non divenendo reale; indefinibile per la ragione, che ne parla, contraddicendosi, come di ciò che è, eppure non è, il possibile non può essere che oggetto di fede. Torniamo così alle battute iniziali di questo saggio, dove, in polemica con Hegel, Kierkegaard contrapponeva la ragione alla libertà, il sapere all’esistenza. Coerentemente a questa contrapposizione, il filosofo affida ora alla fede anche quell’accadere che più di ogni altro manifesta la libertà nell’esistenza umana: quell’invisibile alla vista e quel’indefinibile per la ragione che è il passaggio dall’angoscia al peccato.
Tuttavia la fede, occorre precisarlo, benché creda l’invisibile, benché abbia per oggetto l’incomprensibile, non è priva di intelligenza. Anzi, è la ragione stessa a preparare il salto, individuando nei problemi che le risultano insolubili, delle aporie che la trattengono e in cui si dibatterebbe senza fine, se la fede non la soccorresse. È questo un aspetto della riflessione di Kierkegaard che non va trascurato e su cui, concludendo, vorrei richiamare brevemente l’attenzione.
Nel "Concetto dell’angoscia" il pensatore danese osserva che l’etica sembra essere la disciplina che più di ogni altra avrebbe il diritto ad ospitare il peccato. Essa, scrive, è la scienza che addita all’uomo il suo essere ideale, il suo dover essere, come un compito. Tuttavia, prosegue Kierkegaard, "con questa esigenza l’etica sviluppa una contraddizione, rendendo proprio manifesta la difficoltà e l’impossibilità di ciò che chiede". L’etica è come la legge (Gal., 3, 24) che mentre comanda, condanna, perché nel comandamento è implicito il contrasto esistente tra dover essere ed essere, tra l’ideale e la natura dell’uomo. Questo contrasto tra idealità e realtà, l’etica non lo può spiegare, né superare.
Ora, questa contraddizione, su cui l’etica naufraga, è, propriamente, il peccato. "Nella lotta, osserva il filosofo, "in cui si deve realizzare il compito dell’etica, il peccato non appare come qualcosa che si trovi per caso in qualche individuo, ma il peccato si ritira in sfere sempre più profonde, come un presupposto sempre più profondo, un presupposto che trascende l’individuo. Allora tutto è perduto per l’etica e l’etica stessa ha contribuito a far perdere tutto. Qui è sorta una categoria il cui posto sta assolutamente fuori del suo ambito". Il dogma del peccato originale getta una nuova luce sulla profonda corruzione dell’uomo, sul contrasto tra ideale e reale. Ma tale soluzione, chiarificatrice della contraddizione, non è acquisibile dall’intelligenza. Questa, infatti, può solo riconoscere la contraddizione come tale e non ignorarla o pretendere di trascenderla, come hanno tentato di fare rispettivamente l’etica classica, che non l’ha colta punto e partiva dal presupposto dell’attuabilità della virtù, e quella moderna, che pur riconoscendola, in Hegel riduce il peccato a mero momento dialettico e in Kant rinuncia a "determinare in modo preciso che l’inesplicabile, il ‘paradosso’, è una categoria".
In questi senso, dunque il pensiero, un pensiero rigoroso e modesto, capisce che "c’è qualcosa che non può capire", prepara, per così, dire, la fede, e questa, a sua volta, soccorre il pensiero. In altri termini: la ragione conosce il peccato nelle sue conseguenze come limite ed imperfezione della finitezza, come resistenza del reale a tradursi in ideale; ma il peccato stesso, come causa di queste conseguenze, come atto libero, è tale solo per la fede, e, se è principio di intelligibilità di ciò che appare, esso stesso non appare, resta inafferrabile, inintelligibile.»
Grandezza di Kierkegaard; piccolezza di Kant, di Hegel e di quasi tutti i filosofi moderni. Fra i moderni, quasi il solo Kierkegaard ha visto e indicato, con tale lucidità cristallina, e — diremmo — quasi dolorosa, nella sua stridente evidenza, la distanza abissale che separa il nostro orgoglioso "tu devi", su cui l’etica moderna — anzi, a ben guardare, qualsiasi etica — pretende di fondare il proprio progetto di perfettibilità dell’uomo, e la realtà stessa della fragilità umana, così come ci si svela continuamente, non in questo o in quell’individuo, ma in qualsiasi individuo, tutti, nessuno escluso (o meglio, esclusa Maria Vergine: altro mistero di profondità abissale).
Il paradosso è questo: che noi vediamo benissimo, almeno in molti casi, se non in tutti, quale sia il bene da compiere, e ci proponiamo, anche, talvolta, se non sempre, di compierlo (con buona pace sia di Socrate, il quale pensava che, se noi riconoscessimo il bene, non potremmo non farlo; sia del criticismo kantiano, il quale non poneva alcuna distanza tra la volontà buona e l’azione buona), e tuttavia non ne siamo capaci: non solo non facciamo il bene che vorremmo fare, ma facciamo il male che non vorremmo: facciamo esattamente il contrario di ciò che l’intelligenza ci indica e che la volontà si propone di attuare.
Tale è il paradosso dell’etica: che ci ordina di fare quel che non riusciamo a fare, che siamo impotenti a realizzare; e dunque essa si rivela come la nostra guida, ma anche come la nostra condanna (come, appunto, lo era la Legge mosaica, nel Giudaismo): in teoria, strumento per la nostra salvezza; in pratica, occasione della nostra caduta e della nostra condanna. L’etica ci dice quel che va fatto, ma non ci fornisce i mezzi atti a compierlo; al contrario, ci lascia soli e impotenti, pieni di amarezza e di rimorsi, davanti allo spettacolo della nostra debolezza: debolezza che non consiste solo nella difficoltà, anzi, nella impossibilità di fare il bene, ma nella disponibilità attiva e consenziente a fare il male: quel male che non vorremmo fare, secondo la ragione, e che ripugna alla nostra coscienza, ma che di fatto finiamo per volere, trascinati da una profonda, misteriosa, conturbante inclinazione.
È chiaro, a questo punto, che la nostra salvezza, la nostra redenzione, non possono venire dall’etica, che, al contrario, è la voce stessa della nostra condanna e la misura della nostra immensa, infinita, miserevole abiezione: come potremo mai salvarci, se non siamo capaci di volere non solo il bene che abbiamo rinunciato a fare, ma anche il bene che abbiamo deciso di fare, nello stesso tempo in cui siamo incapaci di resistere a quel male che avevamo deciso di evitare? Chi mai ci salverà, se, pur vedendo l’abisso spalancato davanti ai nostri piedi — l’abisso del male, del peccato — tutti, infallibilmente, tutti dal primo all’ultimo, ci spingiamo oltre l’orlo, come se una pazzia o una cecità radicale ci togliessero l’uso di noi stessi?
Eppure, non si può dire che, quando facciamo il male, noi non siamo liberi: questo lo si può dire solo dopo, a posteriori; ma prima, prima di oltrepassare il bordo dell’abisso, noi eravamo liberi: liberi, eppure ciecamente, follemente sospinti da una forza misteriosa, agente dal profondo di noi stessi; una forza che non ci toglie la nostra libertà, ma che, di fatto, la vanifica, perché fa sì che noi non ci lasciamo guidare dal richiamo del bene che vorremmo fare, ma dal male che non vorremmo, e del quale proviamo — talvolta — orrore, spavento e vergogna. È chiaro, allora, che la salvezza non potrà venirci né dalla ragione, né dalla volontà, rivelatesi impotenti l’una e l’altra: checché ne dicano i filosofi naturalisti e immanentisti, tutti protesi a "scagionare" anticipatamente la natura medesima, e dunque l’uomo, da qualsiasi colpa, da qualsiasi addebito e da qualsiasi conseguente rimprovero della coscienza.
Eppure, sedicenti psicologi e pretesi "esperti" di problemi esistenziali continuano a ripetere, come un ritornello, ai loro pazienti ed ai loro ascoltatori: «Vivi così, senza problemi, senza sensi di colpa: sei unico; sei speciale; sei meraviglioso; devi soltanto essere te stesso, sino in fondo, senza rinunciare a nulla, perché tutto ciò a cui rinunci, è perduto per sempre!». Messe così le cose, il problema del ben agire non si pone nemmeno: tutto è buono, perché tutta la natura lo è; agire e agire bene, sono una stessa ed unica cosa. E il male? In questo schema, non esiste: è il grande assente.
Eppure c’è. Lo vediamo, lo incontriamo ogni giorno: ne sentiamo il tremendo, oscuro richiamo; ne subiamo gli assalti, dentro e fuori di noi; ne annusiamo il fetore pestifero, che sparge intorno come un’aura di morte. C’è, ma è un mistero della fede: che il pensiero capisce solo di non poter capire…
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