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30 Luglio 2015L’uomo moderno, come «Il cacciatore» di Cassola, è un solitario che cerca invano la pace

Il protagonista del romanzo di Carlo Cassola «Il cacciatore» – considerato, generalmente, una delle sue cose "minori", mentre a noi pare che si tratti di una delle prove più felici dello scrittore forse meno compreso di tutto il Novecento — è un giovane uomo dal carattere scontroso e solitario, scartato dal servizio militare durante la prima guerra mondiale per un soffio al cuore, cui piacciono le ragazze, ma senza mai perdere la testa, senza mai farsi coinvolgere, e dominato da un’unica, vera passione: quella della caccia.
Alfredo Bientinesi non è un cacciatore attratto dal piacere di abbattere molte prede e di tornare a casa con il carniere pieno; disdegna, anzi, i colpi troppo facili, tanto più che è un tiratore piuttosto bravo: quel che lo attrae profondamente, intensamente, è il fatto di vagabondare per macchie e colline, di respirare l’aria aspra del primo mattino o di ammirare la luce rosseggiante dei tramonti: insomma non la caccia in se stessa, ma il senso di libertà e il fresco contatto con la natura, per mezzo dei quali si perde e si sottrae, per qualche ora, alla monotonia della vita quotidiana, al lavoro in negozio — è figlio unico di una piccola commerciante di paese, rimasta precocemente vedova -, alla monotonia del trovarsi, all’osteria, in mezzo alle solute persone, con nessuna delle quali ha legato un rapporto di vera amicizia.
È un introverso, un inquieto, uno scostante; dell’amore se ne infischia, nemmeno la dolce Nelly, che non è una delle solute ragazze banali, riesce a conquistarlo veramente; non c’è niente, in verità, che lo interessi a fondo, non la compagnia dei coetanei, non la politica, non la lettura; si può dire che non ha interessi, eppure non è un superficiale, né un abulico: è, piuttosto, un giovane stranamente privo di slanci, di affetti, di calore. Si direbbe che tutti gli sia indifferente, e che molte cose che lo annoiano, pur senza giungere a farlo arrabbiare; no, Alfredo non s’arrabbia quasi mai, più per freddezza emotiva che per saggezza. Ma è proprio vero che è un animale a sangue freddo? Non si capisce, non si può dire: al lettore rimane il sospetto che si sia, semplicemente, costruito una corazza per isolare se stesso dal mondo, per non permettere ad alcuno di raggiungerlo — ed, eventualmente, di ferirlo.
Così, lo vediamo continuamente — e sono le pagine più felici del romanzo — andare su e giù per boschi e colline, guadare torrenti, infilarsi fra la sterpaglia, sempre col fucile in braccio e il cane al seguito, in cerca di uccelli da abbattere, ma senza alcuna avidità di preda; pur senza essere un poeta, né un contemplativo, ama la solitudine di quel vagabondare in mezzo alla natura, ama il silenzio, ama il senso d’indipendenza di quelle ore rubate al tran-tran della settimana, nelle quali il tempo e lo spazio si deformano, non sono più quelli, son diventati altri, come se egli fosse sbucato in un’altra dimensione.
Ecco: forse è come una Alice che passa attraverso lo specchio, alla ricerca del Paese delle meraviglie; o forse è come un Peter Pan che non vuole crescere, che non vuole uscire dai Giardini di Kensington: forse è un immaturo, che detesta le responsabilità e che ha in uggia le regole e i doveri della vita in mezzo ai suoi simili, e che per questo evade nella campagna selvaggia della maremma, fiutando un altrove che non esiste, ma che, a momenti, gli sembra quasi di poter toccare solo allungando la mano. Quei cieli stellati prima dell’alba, quelle nuvole che vagano nell’immensità dell’azzurro, quel venticello che soffia nel canneto, e quell’odore di salmastro che viene dal mare non lontano: son tutte fonti di emozioni e sensazioni irripetibili, che hanno qualcosa di elusivo e di vagamente proibito, quasi come le scorribande d’un bracconiere cui la coscienza del pericolo raddoppia e moltiplica il senso inebriante di libertà e di avventura.
C’è qualcosa in ognuno di noi, che assomiglia ad Alfredo Bernesi: una inquietudine sottile, non esplicita, trattenuta; una ricerca di solitudine che p come una domanda, uno scavo interiore, forse, alla ricerca di noi stessi; ma uno scavo che rimane sempre a metà, o che, forse, non incomincia nemmeno: sicché si risolve in un vagare di qui e di là, senza meta, senza pace, senza mai un’intima soddisfazione che giunga sino in fondo all’anima. È anche un po’ una fuga, un voltare le spalle a ciò che non vorremmo, a ciò che ci lega, che ci ricorda i mille fili cui siamo legati, alla rete impalpabile, ma saldissima, che ci trattiene e ci riporta verso gli altri, verso mille doveri, verso mille aspetti della vita che ci condizionano, ci limitano, ma che ci offrono, anche, il mondo di esplicitare la nostra piena umanità.
Perché c’è qualcosa di stranamente disumano, in Alfredo Bientinesi: una incapacità di lasciarsi andare alla vita sociale, una paura di scoprirsi, una riluttanza a consentire che le cose e le persone esercitino su di lui il loro naturale potere di attrazione. Egli è come un meteorite, come un masso erratico: va per conto suo, non risponde alle logiche del gruppo, non si lascia prevedere, come Nelly è costretta a scoprire a sua spese (Nelly che sia detto fra parentesi, e come sempre in Cassola per i personaggi femminili) è la vera protagonista del romanzo, molto più matura e profonda di Alfredo, sul quale, tuttavia, abbiamo deciso di soffermarci in questa sede).
Alcune pagine di questo romanzo di Cassola, apparso nel 1964, hanno l’andatura limpida e solenne di un piccolo classico, una leggerezza di tocco e, nello stesso tempo, una densità stilistica che ne fanno quasi un "unicum" nella narrativa italiana di quegli anni, tutti presi dalle sirene e dai miraggi, oltre che dagli equivoci, d’un neorealismo ideologico e quasi obbligato, al quale solo pochi scrittori, fedeli alla loro genuina e profonda ispirazione poetica, seppero resistere.
Ci piace riportare una pagina, a titolo di esempio e come invito alla lettura dell’intero romanzo (da: C. Cassola, «Il cacciatore», Torino, Einaudi, 1964: Milano, Mondadori, 1970, pp. 37-39):
«La volta del cielo era disseminata di nuvolette bianche,. Negli spazi liberi, le stelle erano ancora visibili: ma non brillavano più. In basso il cielo era già chiaro. Subito sopra l’orizzonte, le nuvole erano grigie; e parevano una seconda catena di monti, dal contorno appena più frastagliato e bizzarro.
Poi il turchino del cielo si cambiò in un azzurro chiaro. La stella di Venere, la sola che ancora si vedesse, era impallidita. Parecchie nuvole s’erano ammassate all’orizzonte, comprimendo la striscia luminosa che orlavano il profilo delle colline. Queste erano dello stesso colore delle nuvole. Ma via via che il fulgore aumentava, incupivano. Anche le nuvole scurirono: come sempre accade quando la luce incontra un corpo consistente, che non lo può attraversare e allora lo oscura.
Finché il sole emerse dietro una gobba. Per un momento apparve al di qua dell’orizzonte, come se l’avesse scavalcato. Sopra, la grossa nuvola era investita dai raggi: che la tingevano di un rosa vivido e delicato insieme.
Alfredo imbracciò il fucile e uscì di strada. Ras non aveva avuto bisogno di incitamento per mettersi alla ricerca della selvaggina: scodinzolando pe rl’inquietudine, frugava col muso tra gli sterpi di cui era popolato il pendio.
Alfredo scendeva cautamente lungo una spaccatura. La tensione della caccia s’era impadronita di lui, rendendolo impenetrabile a ogni altro pensiero, a ogni altra impressione.
Era a metà della discesa quando vide il cane fermarsi. Si fermò anche lui. Ben presto non ebbe più dubbi, il cane stava puntando. Cercò di avanzare un altro po’, ma il pietrisco smosso faceva troppo rumore.
Uno sbattimento d’ali lo avvertì che le starne s’erano alzate.. Subito dopo le vide, o meglio, vide le loro due ombre in fuga per il pendio. Mirò alla prima: una macchia chiara balenò sullo sfondo opaco della pendice in faccia. Alfredo premé il grilletto, e rivolse fulmineo il fucile verso l’altra starna: ma il sole lo abbagliava, e non fece a tempo a prendere la mira. Sempre rasentando il terreno, l’animale sparì nell’ombra del valloncello.
Anche il cane era rimasto proteso verso il fondovalle. Poi si rilassò, e corse a riportare la preda. Alfredo la infilò nel carniere senza degnarla di un’occhiata: tanto vivo era il rammarico di non aver potuto tirare all’altra starna. Il cane, che s’aspettava una manata sui fianchi, ci restò male: e riprese a scendere di malavoglia.
Il fondovalle era costituito da un fraticello e da un torrente accostato all’altra pendice. Alfredo si aprì un assaggio nel folto della macchia; scavalcò con un salto il rigagnolo, e affrontò la salita. Il cane s’era fermato a bere: lo richiamò con un fischio.
Una volta in cima, riprese fiato. La piana sottostante s’incuneava fin sotto lo sperone di Bolgheri. Sarebbe sembrato un unico campo, se la striatura dei solchi fosse stata disposta nello stesso senso. Invece, in un tratto andavano dritti, accanto, di traverso: e così si poteva distinguere un campo dall’altro. Dappertutto la terra bruna luccicava: per le pozzanghere; e perché le facce delle zolle tagliate dal vomere facevano da specchio ai raggi. Lo sperone di Bolgheri era scuro e annebbiato:, ma il profilo si disegnava nettamente contro lo sfondo delle colline lontane, che erano ridotte a ombre. Al di là dei campi, un nastro di nebbia sovrastava il corso di un torrente, cancellando quasi il filare di pioppi. Anche verso la costa l’aria era nebbiosa: e il mare non si vedeva.»
Cassola è riuscito a rendere perfettamente l’atmosfera rarefatta, imperscrutabile, quasi "metafisica" (nel senso di De Chirico) di queste solitarie battute di caccia, dietro il velo quasi trasparente di un iper-realismo che si sofferma su ogni oggetto, su ogni gesto, dell’uomo e dell’animale, su ogni sfumatura del paesaggio, su ogni tonalità del cielo.
Leggendo queste pagine, ci si sente in profonda comunanza con Alfredo Bientinesi: ci si accorge di essere, un po’, come lui: introversi, isolati, chiusi in una autosufficienza emotiva che, forse, è solamente apparenza, solamente una maschera indossata davanti a tutti gli altri, e anche a se stessi, per nascondere la verità profonda, il bisogno di calore, di comunicazione, di amore, che è il contrassegno fondamentale della condizione umana.
Come uno Zarathustra maremmano, privo di orpelli e di qualunque enfasi, Alfredo cerca di farsi smile a Dio: senza saperlo, senza pensarci: perché solo Dio — forse -, o almeno il Dio di Aristotele, gode di se stesso e di nessun altro, non cerca nessuno, non ha bisogno di nessuno: muove senza essere mosso, attrae senza essere attratto, fa innamorare senza innamorarsi. Non si aspetta niente da alcuno, né dagli uomini, né dal cielo; conta unicamente su se stesso; con sua madre non parla, o parla poco; non condivide con i conoscenti dell’osteria — impossibile chiamarli amici – che poche frasi di circostanza, pochi gesti abitudinari. Niente e nessuno è importante per lui, tranne uscire prima dell’alba e andare a caccia, col cane, e, tutt’al più, fermarsi ogni tanto sa scambiare qualche parola con un contadino, o con un ragazzo, o con chiunque altro gli capiti d’incontrare; per poi rimettersi subito in cammino.
Alfredo è un solitario e un inquieto, perché il suo cuore non è in pace, anche se crede di averlo blindato e premunito contro qualunque assalto, contro qualsiasi imprevisto: ma intanto sente che qualcosa gli sta sfuggendo, lo sente oscuramente – forse -, ma non al punto di poterlo del tutto ignorare, non al punto da potersi ritenere pago e soddisfatto della vita che conduce, dell’orizzonte entro cui si muove. In fondo, sa di essere come una mosca che continua a sbatter contro il vetro della finestra, senza riuscire mai a trovare un varco per uscire, verso la vita vera.
Nel minimalismo di Cassola, nei silenzi dei suoi personaggi, nelle atmosfere ovattate in cui si muovono, è il segreto di uno scrittore che aveva capito molte cose, troppo in contrasto con la cultura dominante del suo tempo per essere davvero capito: una cultura ideologizzata e rumorosa, tutta protesa a suonare la fanfara per le magnifiche sorti e progressive, tutta lanciata nella nobile impresa di rifare il mondo e, per cominciare, di spazzar via l’antico: tant’è che Franco Fortini non seppe dare miglior definizione di Cassola (accomunato, ingiustamente, a Bassani) che quella, sprezzante, di "Liala". Eppure, Cassola aveva saputo scendere nel mistero del cuore umano più a fondo di tanti Fortini che celebravano lotta di classe e sognavano palingenesi rivoluzionarie, come un Cechov di casa nostra, che cammina in punta di piedi, quasi trattenendo il fiato per non farsi udire — ma, soprattutto, per poter udire, lui (e noi con lui), l’arcano sussurro della vita…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels