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L’essere umano ha bisogno d’un senso, prima che di un semplice scopo

Si suole dire che l’essere umano, per condurre una vita piena e realizzata, ha bisogno di porsi degli obiettivi, ha bisogno di porsi degli scopi da raggiungere; meglio, che la ha bisogno di perseguire uno scopo. Non è vero; non è questa la cosa essenziale. La cosa essenziale non è porsi uno scopo, ma trovare un senso. Senso e scopo non sono affatto la medesima cosa. Lo scopo si trova fuori di noi, il senso dentro di noi: se non rendiamo un senso al nostro essere, qualunque scopo ci possiamo prefiggere sarà sempre illusorio.

Eppure la confusione esiste, ed è assai più frequente di quel che non si creda. La fa l’uomo della strada, ma la fanno anche alcuni pensatori. Né si tratta di una questione puramente astratta, di una questione nominale, buona per chi abbia del tempo da perdere cincischiandosi con le parole; al contrario, è una questione vitale. Confondere il senso con lo scopo vuol dire imprimere un movimento sbagliato a tutta la propria vita, invertire l’ordine dei valori, andare incontro a una serie di brucianti fallimenti — anche se essi potranno rimanere celati sotto alcuni strati di effimeri trionfi, di vittorie che solo dall’esterno potranno apparire tali.

Chi non ha compreso che la questione vitale, decisiva, è quella del senso — del senso da dare alla propria vita, del senso da dare a tutto ciò che entra a far parte della nostra dimensione esistenziale, sia al livello della conoscenza, sia a quello della volontà e, quindi, dell’azione — non ha compreso niente di ciò che veramente è necessario: continuerà ad aggirarsi intorno a problemi secondari, a nodi trascurabili, disperdendovi energie preziose, che ciascuno farebbe bene a tenere pronte per il cimento chiave, da cui dipende ogni altra cosa.

Perché la vita, contrariamente a quel che ci vorrebbero far credere tanti sdolcinati "maestri" spirituali in stile New Age, non è una passeggiata rilassante, ma una vera e propria guerra: una guerra dura, incessante, a volte perfino spietata; dalla quale non possiamo e non dobbiamo eliminare né la bellezza, né la compassione, né l’ostinata ricerca della verità; ma in cui dobbiamo essere consapevoli che non ci verranno fatti sconti, che dovremo pagare ogni errore, che ci verrà chiesto di rendere conto di ogni tradimento, e ingiustizia, e viltà. Una guerra che dobbiamo combattere su due fronti: verso l’esterno, contro il male che ci minaccia dal di fuori; e verso l’interno, contro il male che risale dal fondo oscuro del nostro egoismo. E il male non è semplice assenza di bene: è parte di un Male più grande, di un Male con la M maiuscola.

L’uomo non è buono per natura — o, almeno, non lo è più dopo aver gustato il frutto dell’Albero proibito, l’Albero della conoscenza del Bene e del Male; e cercare il Bene, per lui, non è cosa naturale, ma lotta e faticoso sforzo, perfino quando desidera farlo ardentemente; figuriamoci quando decide di voltargli le spalle e di abbandonarsi consciamente alla seduzione del Male. Dualismo, conflittualità interiore, schizofrenia? Certo: ma i fatti sono fatti, e coi fatti non si litiga, con buona pace sia degli illuministi alla Rousseau, che attribuiscono tutta la colpa del male alla Società, proclamando l’uomo buono in se stesso (ma in tal caso, come si genera codesto male?), sia dei monisti, che non ammettono divisioni, ma vorrebbero santificare l’unità indifferenziata, dunque la compresenza del bene e del male, come realtà originaria e inseparabile, che solo certe filosofie e religioni "rozze" e "primitive", come — secondo loro — il cristianesimo, pretendono di scindere in due differenti e opposte polarità, creando il conflitto e il malessere nell’anima umana.

Il fatto è che il conflitto e il malessere già vi sono, e fanno parte della natura umana. Negarlo, vuol dire chiudere gli occhi davanti alla realtà, per immaginare una natura umana idealizzata, fatta su misura per chi ama sognare ad occhi aperti, per chi non vuole arrendersi al principio di realtà. Certo, nell’anima umana non vi è solo il conflitto tra il bene e il male; vi è anche la profonda, insopprimibile nostalgia del bene, del Bene originario. Perché il Bene è l’Essere, e l’uomo, come ogni altro ente, viene dall’Essere, e all’Essere aspira a ritornare. Non bisogna, però, scambiare tale nostalgia per una realtà già realizzata: è solo un’aspirazione, un’aspirazione che tradisce l’origine divina dell’uomo, il suo incoercibile anelito verso un’esistenza più vera e più piena — vale a dire, il ritorno alla dimora dell’Essere.

Le filosofie moderne hanno soppresso tale anelito, perché hanno soppresso la nozione dell’Essere con la maiuscola: sono tutte, più o meno, filosofie dell’esistere; sono tutte, più o meno, filosofie esistenzialiste, che assolutizzano il relativo e che divinizzano il contingente. Sono tutte filosofie del caos, del disordine, dello smarrimento, dell’alienazione. E dell’impotenza, spacciate per filosofie della profondità. Non vi è profondità, né serietà, in una qualsiasi concezione del reale che prescinda dalla nozione dell’Essere, che recida il legame tra la cosa e il suo Fattore. Il Medioevo lo sapeva bene: per questo il tomismo è stato dichiarato "vecchio" e "superato", e si è preteso di sostituirlo con cento scuole e dottrine e indirizzi di pensiero che sbeffeggiano il fondamento dell’Essere e la necessità dell’Essere; per questo si è smesso di vedere il legame necessario fra le parti e il Tutto, fra il presente e l’Eterno, e ci si è dati a sacralizzare le parti e ad adorare l’esistente.

Questi concetti appaiono chiarissimi nel pensiero di uno degli ultimi filosofi dell’Essere dell’età contemporanea: Romano Guardini (1885-1968), il grande teologo tedesco di origine veronese, che ha visto per tempo i pericoli insiti nell’oblio dell’Essere e non si è stancato di richiamarne l’assoluta necessità agli uomini del nostro tempo. Si senta quanta linearità, quanta forza, quanta evidenza affiorano dal suo modo di ragionare, pacato e consequenziale (da R. Guardini, «Lo spirito della liturgia»; titolo originale: «Vom Geist Der Liturgie», Freiburg, Herder & C., 1922; traduzione dal tedesco di Mario Bendiscioli, Brescia, Morcelliana, 1935, pp. 117-120):

«Il concetto di scopo pione il centro di gravità d’una cosa al di fuori e al di là di essa; tale concetto la considera quale passaggio obbligato di un’azione che va oltre e precisamente si dirige alla meta. Ogni cosa, pertanto, è anche — e taluna lo è quasi del tutto — un "quid" a se stante, uno scopo a sé, per quel tanto che si può applicare ancora questo concetto in codesta più ampia significazione, alla quale si adatta meglio il concetto di "senso". Tali cose non hanno scopo nella stretta accezione della parola; hanno però un senso. E questo senso è mostrato, non dal fatto ch’esse producono fuori di sé un effetto, ovvero contribuiscono alla costituzione o alla modificazione di qualcosa d’altro, bensì il loro significato consiste nel loro essere quello che sono. Nella rigorosa accezione dei vocaboli, esse sono senza scopo, sena utilità, ma piene di senso.

"Scopo" e "senso" sono i due modi di presentarsi del fatto una cosa esistente ha fondato diritto ad essere quello che è. Dal punto di vista dello scopo una cosa si inserisce in un ordine che va oltre di essa; nei riguardi del senso essa sta a sé e riposa in se stessa.

Qual è ora il senso di ciò che è? D’esistere e con ciò di rappresentare un riflesso del Dio infinito. E qual è il senso di ciò che vive? Di vivere, esplicare l’intima essenza propria, di prosperare quale rivelazione naturale del Dio vivente.

Questo non vale solo per la natura, ma vale anche per la vita dello spirito. La scienza ha forse uno scopo nel senso proprio della parola? No. Il pragmatismo vuol attribuirgliene uno: quello di incitar gli uomini a migliorarsi moralmente. Ma questo significa misconoscere la dignità sovrana della conoscenza. Essa non ha alcuno scopo, ha però un senso e basta a se stessa: questo senso è la verità.

L’attività legislativa di un parlamento, ad esempio, ha uno scopo; essa intende far valere nella vita statale una direttiva nettamente determinata. La scienza del diritto invece non ne ha,m mirando solo a conoscere la verità nelle questioni giuridiche.

E così è di ogni scienza, che è, in base alla sua essenza, conoscenza della verità, servizio della verità oppure non è nulla.

Neppur l’arte ha uno scopo. Si dovrebbe altrimenti pensare che la sua ragione d’essere sia a necessità dell’artista di procurarsi con essa di che nutrirsi, e di che vestirsi. Oppure, come pensava l’illuminismo, che l’arte sia destinata d offrire esempi intuitivi delle verità di ragione e ad insegnare la virtù. Il che non è certamente! L’opera d’arte non ha scopo, bensì ha un senso, e precisamente quello "ut sit", d’essere concretamente, e che in essa l’essenza delle cose la vita interiore dell’uomo-artista ottenga un’espressione sincera e pura. L’opera d’arte deve essere soltanto "splendor veritatis".

Quando la vita si sottrae al rigido ordine dei fini, allora diventa un gioco di dilettanti. Minaccia, però, di soffocare anche quando la si vuol costringere nella rigida armatura di una dottrina puramente utilitaria. Ambedue i motivi si integrano reciprocamente. Lo scopo è il fine dello sforzo, del lavoro, dell’ordine; il senso è il contenuto dell’esistenza, della vita in fioritura e sviluppo. I due poi dell’essere pertanto sono: scopo e senso, sforzo e crescita, lavoro e produzione, ordinare e creare.»

Le filosofie moderne insistono non sul senso delle cose e delle azioni, ma sul loro scopo, perché sono tutte, quale più, quale meno, dominate da un indirizzo utilitaristico: per avere un valore, le cose e le azioni devono avere anche uno scopo, vale a dire produrre un risultato. Utilitarismo e bisogno compulsivo di manipolare la realtà, l’azione per l’azione, iol fare per il fare: non importa in funzione di quale senso, purché vi sia uno scopo, per quanto discutibile, per quanto sbagliato, per quanto aberrante. Sempre più spesso l’uomo moderno fa, agisce, manipola la realtà, persegue uno scopo o tutta una serie di scopi, ma non sa più il perché: non si è posto la domanda sul senso, non si è interrogato sul significato di sé e del proprio agire.

Eppure è solo allorché trovano un senso, che gli esseri umani divengono realmente se stessi, realizzano la propria singolarità, si ergono in tutta la loro dignità di persone. In quanto perseguono degli scopi, il loro valore intrinseco diventa relativo, rimane subordinato alla realizzazione di quegli scopi: l’uomo cessa di essere un valore in sé, diviene un semplice strumento per costruire certi fini. Se si sostituiscono gli scopi al senso, l’uomo decade e tutta la realtà si trasforma in un campo di battaglia per la realizzazione di quegli scopi, di cui l’uomo è solo una parte accessoria. Ma gli uomini, in se stessi, perdono d’importanza, diventano entità trascurabili. Non importa il loro destino individuale, importa la realizzazione degli scopi; non importa il prezzo di dolore e d’ingiustizia che si dovrà pagare, importano le magnifiche sorti e progressive dell’umanità astratta, del mondo considerato astrattamente.

Come fanno, ormai troppo spesso, per non dire sistematicamente, la scienza e la tecnica divenute schiave degli scopi, e l’uomo schiavo con esse. Si pensi alla "favola dei suoni" ne «Il Saggiatore» di Galilei, il padre del moderno paradigma scientifico: la cavalletta viene vivisezionata senza un minimo imbarazzo, senza un minimo rammarico, senza un minimo rimorso, secondo uno scopo ben preciso: spiegare l’origine del suo frinire. La tortura, la sofferenza e la morte di un essere vivente, meraviglioso in se stesso, avente in se stesso il senso del proprio esistere, e riflesso della magnificenza e della sapienza dell’Essere, sono i mezzi necessari per dare uno scopo alla ricerca scientifica: una ricerca necrofila, che persegue la morte e non la vita, che disprezza la vi che ignora la bellezza della cita, l’armonia, la perfezione organica del tutto vivente. Giustamente si dice che il paradigma della scienza moderna è il meccanicismo; nella sua prospettiva, ogni singolo essere vivente, non è che la rotella di una grande macchina. E l’orologiaio non si commuove certo se deve togliere o gettar via qualche rotella del meccanismo dell’orologio su cui sta lavorando: l’importante è che lo scopo sia raggiunto, che l’orologio funzioni, e che egli sia padrone di agire sul suo funzionamento, nel senso che riterrà opportuno — per costruire o per distruggere, ciò dipenderà da altri scopi ancora — sempre scopi, mai significati.

Certo, anche lo scopo è importante: esso indica la direzione da prendere. Il senso, infatti, deve esplicarsi in movimento, in azioni concrete, in scopi da raggiungere. Ma uno scopo senza un senso, è un assurdo. La società moderna viaggia verso l’assurdo, perché ha molti scopi, ma sta smarrendo il suo significato: dunque, essa sta correndo — apparentemente ignara – verso l’auto-distruzione…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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