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Le filosofie illuministe vogliono annientare l’uomo, dichiarandolo buono e perfetto così com’è

Augustin Cochin (nato a Parigi nel 1876 e caduto al fronte nel 1916) è stato un grande storico francese; così grande e così anticonformista che la sua Patria, punto di riferimento ideale di tutte le libertà possibili e di tutti i diritti più spinti, ha pensato bene di ripagarlo con il silenzio dell’oblio; mentre negli altri Paesi è ancora, se possibile, meno conosciuto e meno ricordato.

La sua grandezza consiste nell’aver studiato i meccanismi della rivoluzione, a cominciare da quella del 1789, svelandone i risvolti più interni e inconfessabili e, pur senza arrivare alle tesi complottiste di Augustin Barruel, che vedeva nella Massoneria la vera artefice di esse, sostenendo che le rivoluzioni moderne sono il risultato dell’azione di nuovi meccanismi di potere, alla base dei quali c’è una insopprimibile distanza fra la realtà delle forze politiche e la proiezione sociale, in gran parte illusoria e allucinatoria, che di esse viene recepita.

Nelle sue opere dedicate alla Rivoluzione francese e allo spirito del giacobinismo, Cochin dà prova di una autonomia di giudizio veramente eccezionale, tanto più che le sue posizioni non si riducono, puramente e semplicemente,m a quelle di altri storici "reazionari" della Rivoluzione, come Pierre Gaxotte, ma si basano sopra una lettura di quegli eventi e soprattutto dei quel particolare clima psicologico e culturale che scaturisce da categorie storiografiche e intellettuali "nuove", nel senso di originali e, per certi aspetti, sorprendenti. La Rivoluzione del 1789 diventa, così, il caso paradigmatico della "rivoluzione" in quanto tale: qualcosa di simile a ciò che il sociologo Francesco Alberoni definisce come lo "stato nascente", quella particolare aspettativa del nuovo che s’impadronisce di una società mentre i vecchi valori stanno franando e si avverte il bisogno confuso e indistinto di un radicale rinnovamento e di una totale palingenesi.

La Massoneria, per Cochin, è solo una parte di questo meccanismo e, soprattutto, una soerta di effetto, non già la causa: con i suoi rituali segreti, con la sua disciplina gerarchica, con la sua narrazione fantastica della realtà e le sue attese soteriologiche e millenariste, essa rispecchia quella che potremmo definire la nevrosi dell’uomo moderno: l’insaziabile, compulsiva tendenza ad agire sul mondo, a manipolarlo, a trasformarlo, illudendosi ogni volta che esso rinascerà più buono e perfetto, che tutti i problemi sociali saranno risolti e che l’umanità ritroverà il suo stato originario di purezza e di bontà, offuscato, appunto, come insegnano le filosofie illuministe, dall’azione fuorviante e dannosa della società stessa.

Che si tratti, poi, di un evidente circolo vizioso; che l’uomo, se originariamente buono e felice, non si vede perché debba così facilmente diventare cattivo e infelice ad opera di una società che è fatta pur sempre di uomini; e che, soprattutto,

Ci piace riportare qui una pagina memorabile di questo autore oggi quasi dimenticato, «poiché troppo increbbe all’età sua» (e alla nostra), vera e propria «vox clamantis in deserto» (da: A. Cochin, «Meccanica della rivoluzione» (titolo originale: «La Révolution et la libre-pesnsée», Paris, Plon, 1924; traduzione dal francese di Mario Marcolla, Milano, Rusconi, 1971, pp. 150-7):

«Dio è; noi diveniamo. È esattamente il contrario di quello che pensava Renan, che fu l’ultimo dei filosofi nel senso che il XVIUII secolo attribuiva a questo nome. Questi filosofi si sono chiesti: perché l’uomo non potrebbe essere come Dio? Possiede un a natura buona, una scienza assoluta, una scienza generale: è dunque libero; potrebbe chiedere la forza alla natura, l’obbligo alla coscienza, la legge alla ragione. Ora, se è vero che la coscienza ci dà l’obbligo assoluto, è vero anche che né la natura ci dà una forza infinita, né la ragione una legge certa e perfetta. E perché non identificare la spinta della coscienza con l’oggetto dell’esperienza, il mondo? Perché non collegare l’obbligo della coscienza alla legge generale della scienza? La spinta della coscienza non è forse assoluta? Certamente; ma il mondo non è infinito; è soltanto la cosa più grande che io conosca. Il dovere è assoluto; il diritto è relativo, giacché l’essere che conosco e al quale l’applicherò è relativo. Abbiamo dunque di fronte un dovere assoluto ma una legge imperfetta; sentiamo la necessità di obbedire, e la nostra conoscenza non ci dà una regola sicura. Da ciò il carattere della morale e delle leggi umane, assolute e universali quanto all’obbligo che impongono, relative e variabili quanto alla forma che assumono; una coscienza e mille morali. Affinché possa essere stabilita la legge morale assoluta, occorre che un’intelligenza adeguata all’Essere ci consenta di fondarla: questo è il cardine della legge della Chiesa, sulla quale il mondo vive da duemila anni, cioè più o meno da quando ha incominciato a pensare. Su questo punto i filosofi divergono dalla pratica generale e dall’opinione comune. Non cambiano nulla alla forma del principio, ma pretendono di trarre da esso una legge ad un tempo generale e assoluta, di fondare un diritto alla libertà, determinabile, immediato e applicabile. Non pretendono certamente di possedere ogni verità; ma credono che questo possesso, essendo le cose quelle che sono, non sia altro che questione di fatica e di tempo; che il mondo sia fatto per bastare a se stesso e che possieda in sé gli elementi necessari per essere autosufficiente; la verità, cioè l’intelligibile, e la ragione. Si tratta soltanto di mettere d’accordo la ragione inconsapevole delle cose e la ragione cosciente dell’uomo. Nasce così una nuova interpretazione delle leggi scientifiche: esse sono NECESSARIE, in senso assoluta. Ma questa non è altro che un’ipotesi metafisica; ed è un’idea grossolana. Il punto di partenza della scuola filosofica del diciottesimo secolo è dunque un atto e non una scoperta nuova; è un partito preso intellettuale e non una realtà di fatto. Nell’ordine intellettuale non aggiunge nulla alle idee comuni: la sua ultima parola è un rifiuto. Ogni sistema filosofico può vantarsi di alcuni meriti. I panteisti fanno astrazione dal relativo, ma almeno prendono in esame Dio. I sensisti negano la ragione e la volontà, ma analizzano l’esperienza. Dalla "filosofia" senza attributi, la ragione non ha nulla da guadagnare: essa infatti consiste nell’applicare le leggi dell’oggetto della conoscenza al solo oggetto che sia interamente al di fuori del dominio di queste leggi, l’obbligo morale; nell’unire il generale e l’assoluto nel relativo. Ora, attribuire un valore assoluto a certe leggi, ed erigere questo valore a metafisica, non significa affatto far progredire la scienza. In questo senso si può dire che la filosofia abbia divinizzato l’uomo. Si potrebbe altrettanto giustamente dire che i filosofi hanno annientato l’uomo. Lo dichiarano completo, perfetto così com’è; il male è solo un malinteso. Tutti gli elementi del bene, la forza per raggiungerlo, la ragione per mostrarlo, sono "in proximo", sottomano. Di tratta ormai soltanto di conciliare , di intendersi, di arrangiarsi. È una dottrina che segna una pausa, è una dottrina di rifinitura: di perfezione, sostiene l’intelligenza, di morte, risponde l’esperienza. È una dottrina adatta a un tempo di benessere materiale ma anche di corruzione, di miseria morale:le sorgenti profonde della fede e della vita si inaridiscono; lo slancio cessa. È una dottrina non vecchia ma debole. Soltanto l’atto divino è insieme buono secondo il bene naturale, la felicità, e buono secondo il bene morale, il dovere; perfettamente libero, nel senso oggettivo, e perfettamente cosciente e intelligibile. In Dio solo, intelligenza e volontà, verità e bene procedono affiancati e di pari passo. Viene dato il nome di "filosofi" non solo ai fondatori, ma anche ai più umili seguaci della filosofia dei lumi: non perché costoro siano i filosofi per eccellenza, ma perché fanno della filosofia là dove la filosofia non c’entra. Infatti l’applicano al di fuori della sua sfera specifica, alla morale. Impresa estremamente audace, e tentata soltanto da loro. […] Inversamente, è chiaro in quale venissero chiamati "sensibili" e "generosi" gli uomini e le idee del 1789. Non perché Talleyrand avesse il cuore più generoso o Mirabeau l’animo più sensibile di monsignor de Juigné o di monsignor de Beaumont, dell’abate Maury o di Cazalès, ma per il fatto che erano contemporaneamente razionali e morali; alleanza di parole e di idee sconosciuta fino ad allora. Essi avevano infatti stabilito dei principi generali:si trattava di sistemi speculativi che dovevano avere una portata pratica assoluta; erano sistemi generali come le leggi scientifiche, assoluti come la legge morale. […] Il pensiero del diciottesimo secolo afferma il concetto che le due necessità, morale e meccanica, coesistano e si confondano nella natura, e che, invece di essere due leggi limite, contrarie l’una all’altra, esse si realizzino contemporaneamente nel mondo sensibile. Se noi non cogliamo tale identità è perché la nostra coscienza morale è accecata dalla superstizione la quale ci fa considerare il bene opposto alla natura e perché la nostra coscienza intellettuale è oscurata dall’ignoranza, che ci impedisce di scoprire le vere cause.»

Dicevamo che per i rivoluzionari, secondo la definizione di Alberoni, quel che conta è sentirsi i veri interpreti dello "stato nascente": l’orgoglio di essere i traghettatori verso il nuovo paradigma — e, naturalmente, gli affossatori del vecchio. Ebbene, i filosofi del XVIII secolo, specialmente gli illuministi francesi, hanno svolto tale ruolo (filosofi nel senso che essi medesimi attribuivano alla parola, che vale,m genericamente, "intellettuali", e non nel senso stretto del termine; filosofi in senso generico, indipendentemente dalla profondità e originalità speculativa). Per gente siffatta, convinta di portare i "lumi" della ragione nelle tenebre dell’oscurantismo, quello che conta non è il principio di realtà, ma l’aspettativa di una palingenesi universale: non i fatti, ma le credenze; non il pensiero, ma il preconcetto. Il mondo deve essere così come credono loro che debba essere e non come è "giusto" che sia: logico; non essendovi più il principio dell’Essere, di cui il mondo è espressione e manifestazione, le cose non sono ordinate secondo un ordine logico, ma esclusiva mentre secondo una gerarchia naturale. E la natura, per costoro, è sempre buona: la natura ha fatto bene ogni cosa, vale a dire che l’ha fatta razionalmente. Ragione e natura sono le due facce della stessa medaglia. Essere ragionevoli significa saper cogliere l’ordine intrinseco della natura, che, essendo buono in se stesso, coincide con l’etica. Conoscere è essere buoni, perché le cose che ci si rivelano sono ordinate al bene, anzi, sono bene in se stesse: nulla è male, se non l’ignoranza e l’assenza di ragione. La natura è secondo ragione e la ragione è secondo natura: le premesse di questo principio dogmatico erano già state messe dal giusnaturalismo, nel corso del XVII secolo; gli illuministi non fanno altro che riprendere e sviluppare ulteriormente il concetto, magari rendendolo più appetibile ai palati delicati e sensibili con dosi abbondanti di zucchero. Così, per esempio, Bernardin de Sain Pierre, nel suo stucchevole romanzo «Paul et Virginie», che fa versare fiumi di lacrime a stuoli di nobildonne virtuose e bene intenzionate, porta avanti la tesi di Rousseau, secondo cui l’uomo è buono in origine, e pertanto felice, e ciò che lo rende non buono e infelice è la società: la pura Virginia incontra la morte dopo essere stata strappata alla sua amata isola tropicale (Mauritius, nell’Oceano Indiano) per ricevere, in Francia, una educazione secondo il concetto della civiltà europea: educata nel seno della natura benigna, viene rapita e spiritualmente violentata dai volonterosi custodi del vivere civile, e ciò segna l’inizio della sua disgrazia. Al povero Paolo non resteranno che i ricordi della sua dolcissima amica e tanti fazzoletti da riempire di lacrime, prima di andare a raggiungere egli stesso la fanciulla amata, là dove la perfidia della civiltà non è capace di arrivare. Strano, ma vero: gli araldi del progresso non fanno altro che scaricare le loro batterie contro la testa di turco della civiltà; eppure, ciò che hanno in mente è un mondo reso migliore proprio dalla ragione, dunque, dalla civiltà. Non resta che dichiarare francamente che il Progresso è bene solo se avviene secondo natura, che fa bene ogni cosa; se no, è male.

Ora, i rivoluzionari sono appunto coloro i quali, imitando l’opera della natura, si incaricano di sradicare le erbacce cresciute all’ombra della civiltà artificiale, nei giardini dell’anti-natura. E i "filosofi" del XVIII secolo, o coloro che si proclamano tali, altro non sono che gli araldi della rivoluzione. La loro rivoluzione, umanitaria e spirituale, infarcita di buoni sentimenti e di tanti sospiri pre-romantici, di tanta ingenua, candida fede nel mito del Buon Selvaggio, non è che il preludio a quell’altra rivoluzione, quella giacobina, che esige il suo tributo di sangue e di teste ghigliottinate, perché i suoi dei — il Progresso, la Ragione e la stessa Natura -, per dirla con Anatole France, "hanno sete". Eppure, sono i medesimi dei della prima, la rivoluzione dei filosofi, dei poeti, dei romanzieri alla Bernardin de Saint Pierre: così dolci e sensibili, così filantropi e umanitari. Anche l’ordigno del signor de Gullotin, del resto, è umanitari: l’hanno inventato per non far soffrire.

Non l’avevamo detto che si tratta di persone altamente sensibili, facili alla commozione e al pianto?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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