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La trasgressione è frutto della noia e partorisce l’abbrutimento dell’anima

Perché la trasgressione esercita un richiamo così forte su moltissime persone, e specialmente sui ragazzi e sui giovani? Perché li si vede così spesso abbandonarsi a comportamenti trasgressivi, anche se, in realtà, essi non sanno affatto quello che vogliono e anche se, in definitiva, non provano affatto chissà quale piacere nel trasgredire, anzi, non sono certo rari i casi nei quali provano un profondo disgusto? Lo fanno solo per apparire sicuri, disinvolti ed emancipati; lo fanno solo per non sfigurare davanti agli altri, agli amici, ai coetanei; e, soprattutto, lo fanno solo, o principalmente, per reagire ad una educazione, ad un ambiente, ad una società che li hanno repressi, che li hanno sommersi di proibizioni e divieti?

Via, è evidente che non si tratta di questo; o, almeno, che non si tratta soltanto di questo. Quando i sostenitori della cultura "progressista", buonista e permissiva, affermano simili cose, non si prendono, in effetti, neppure la briga di dimostrarle: le danno per scontate; e, quel che più conta, come cose assolutamente ovvie. Eppure, chiunque possieda un minimo di familiarità con l’ambiente dei giovani, chiunque abbia un sia pur minimo spirito di osservazione circa i comportamenti umani, e, infine, chiunque abbia l’abito mentale di una rigorosa onestà intellettuale, sa benissimo che le cose non stanno così. Escludiamo in partenza, dunque, quelle persone in malafede — intellettuali veri o presunti, la più parte — le quali non cercano la verità delle cose, ma cercano, ad ogni costo, nelle cose, una conferma alla loro verità di parte: piccole, faziose verità ideologizzate, meschine mezze verità, che però essi sbandierano fieramente, come se fossero la verità tutta intera, senza forse neanche rendersi conto d’averla tradita.

Le persone in buona fede, purché siano discrete osservatrici della realtà ed abbiano una qualche esperienza di familiarità con i propri simili, e specialmente con i giovani, sanno che la trasgressione non è affatto, necessariamente, la "risposta" ad un divieto o ad una repressione, bensì un piacere in se stessa; e rimandiamo alle osservazioni che svolge in proposito una delle menti filosofiche più profonde d’ogni tempo, Sant’Agostino, il quale, nelle «Confessiones», si sofferma a descrivere i meccanismi psicologici che lo spinsero, da bambino, a rubare della frutta, non perché ne avesse bisogno e neppure desiderio, ma proprio per il piacere di gustare della frutta rubata. Il solito Bertrand Russell, mente libera ed emancipata, spirito pragmatico e moderno, si fa beffe degli scrupoli di Agostino, suggerisce che essi siano di natura patologica, e ad essi fa risalire, niente di meno, la cappa di moralismo cupo e intollerante che, con la vittoria del cristianesimo, secondo lui sarebbe calata sul mondo tardo-antico e medievale: guarda un po’ quali colossali conseguenze da una causa tanto insignificante: il rimorso di un bambino per aver rubato due o tre pere mature, pendenti dal ramo di un albero!… Lasciamo a Bertrand Russell la responsabilità di una simile deduzione, che ha del grottesco; da parte nostra, siamo convinti che quanto scritto da Sant’Agostino circa il furto delle pere sia fra le cose più acute e penetranti che siano mai state dette a proposito della trasgressione.

Trasgredire è un piacere in se stesso; un piacere così grande che, non di rado, ammortizza il lato sgradevole di essa, ossia il dover fare delle cose che non recano — contrariamente a quanto gli altri potrebbero immaginare -, il benché minimo piacere, e che, anzi danno noia o provocano dolore: tale il caso del ragazzo che fuma accanitamente, pur non provando alcun piacere nell’atto del fumare, ma così, solo perché la cosa è proibita ed egli deve farla di nascosto. Valgano, in proposito, le memorabili osservazioni svolte da Italo Svevo ne «La coscienza di Zeno», a mo’ di situazione esemplare.

L’alcool e le sostanze stupefacenti, nella società contemporanea, sono altri strumenti caratteristici della trasgressione, sia giovanile che adulta; ma quella che va per la maggiore, ovviamente, è la trasgressione sessuale — la quale, beninteso, si modifica e si aggiorna col continuo variare (e degenerare) della sensibilità etica e culturale della società. Fino a qualche anno fa, la trasgressione sessuale si esercitava, comunque, nell’ambito dei rapporti eterosessuali; oggi la trasgressione per eccellenza sembra essere diventata quella omosessuale (salvo, poi, volerla "normalizzare", paradossalmente, con l’istituzione del cosiddetto "matrimonio gay"). Nel particolare clima politico e sociale degli anni ’60 e ’70 del Novecento, culminato nell’esplosione pseudo-rivoluzionaria del 1968 e sintetizzabile nella famigerata formula «Vietato vietare» – concentrato demenziale di tutti gli esistenzialismi e di tutti i relativismi da strapazzo, spacciati per grandi scoperte filosofiche ed esistenziali, la pratica dei rapporti omosessuali, più o meno promiscui, più o meno "sinceri", preferibilmente esibiti, e ciò specialmente in certi ambienti radical-chic, era guardata con particolare benevolenza, se non con aperta ammirazione, poiché sembrava rappresentare il massimo della trasgressione e della protesta contro l’ordine culturale e morale costituito, vale a dire quello ricevuto dai genitori, dalla scuola, dalla Chiesa.

Oggi anche queste forme di trasgressione sono diventate blande, anzi, non sono più nemmeno considerate tali, perché le frontiere della provocazione hanno macinato parecchia altra strada; i rapporti omosessuali sono praticati alla luce del sole, sono accettati e difesi dall’intellighenzia, sono approvati perfino da molte confessioni religiose, sono legalizzati dal codice e tendono ad assestarsi nella forma tranquilla e "normale" del ménage di coppia, con tanto di matrimonio, vestito bianco per le spose (lesbiche), pranzo e viaggio di nozze, adozione di bambini (o, nel caso delle donne, fecondazione eterologa), e così via.

Negli anni della contestazione giovanile, comunque, i rapporto omosessuali — i rapporti, non le relazioni più o meno durature — godevano dello status di veri e propri modelli di comportamento trasgressivo e, dunque, "liberato", contrapposti al grigio e piatto perbenismo degli odiati padri borghesi, delle maestre e dei preti; e moltissimi pseudo-intellettuali progressisti, uomini e donne — scrittori, artisti, registi, attori, stilisti, eccetera — ne fecero addirittura una bandiera da sventolare in faccia ai "reazionari" e ai bacchettoni. Fra questi cattivi maestri, un posto eminente — si fa per dire — spetta certamente alla scrittrice ebrea americana Erica Jong, divenuta celebre per una serie di fortunati romanzi dalla vena facile e di nessun pregio letterario, tutti incentrati sulle sue varie e multiformi esperienze sessuali; una autrice che, spacciando per cultura femminista la sua disinvoltura nel passare da un amante all’altro, da uno letto maschile ad un letto femminile, con una speciale predilezione per quelli di personaggi noti e facoltosi, che avrebbero potuto favorire o valorizzare la sua carriera letteraria, ha cercato di accreditarsi come la versione contemporanea della nipotina di Rimbaud e come la versione femminile, in sedicesimo, di Henry Miller, del quale, ahimè, possedeva bensì il narcisismo impudico, la sfrontatezza e l’estrema monotonia erotica, ma non quel poco o tanto di genio e di talento che quegli, ad ogni modo, aveva, pur mescolandolo a parecchia pornografia, più o meno pura.

Vale la pena di riportare, a titolo di esempio, come la frizzante Erica, scherzando continuamente, si badi, sulle sue radici ebraiche — ma chi sa quali strilli contro l’odioso pregiudizio antisemita, se la metà di quelle battute fossero state fatte su di lei da un non ebreo — ci racconta (che la cosa ci interessi o no), in che modo coltivò a freddo, per puro piacere della trasgressione – e tuttavia una trasgressione alquanto politicamente corretta, che allora, per sua stessa ammissione, andava di gran moda -, una relazione omosessuale con la sua bella e ricchissima allieva di scrittura Rosanna Howard, a sua volta tormentata da una insaziabile ambizione letteraria, oltre che da una non meno insaziabile, ma eternamente frustrata, bramosia di raggiungere l’orgasmo (da: E. Jong, «Come salvarsi la vita»; titolo originale: «How to Save your own Life», 1977; traduzione dall’inglese di Marisa caramella, Milano, Bompiani, 1977, pp. 174-5):

«Andai a letto con Rosanna per pura curiosità, la prima volta, la seconda perché avevo voglia di scopare e mi sembrava "chic" essere bisessuali, per obbligo tutte le altre volte. Quell’anno era molto di moda avere una relazione omosessuale, pensavo che avrei potuto scriverci sopra, dopo, e Bennet [il marito] mi rendeva molto infelice. Se gli uomini erano il problema forse le donne erano la soluzione. Avevo fantasie in cui mettevo su salotto, se non casa, con Rosanna… tutto molto Vita Sackville-West o Colette-ama-Missy o Stein-ama-Toklas. Ci saremmo prese cura l’una dell’altra, saremmo state fedeli e ogni tanto ci saremmo divise equamente qualche maschio.

La prima volta che facemmo l’amore io ero esilarata soprattutto perché stavo facendo qualcosa di proibito. Senza che la terra si aprisse sotto di me per ingoiarmi. C’era qualcosa di particolarmente liberatorio nel fatto di rompere quel tabù. Non era come perdere la verginità… lacrime e sangue e sensi di colpa. E non era come il primo adulterio… un’altalena di piacere e di panico. Come posso descriverlo? Mi viene in mente la parola soddisfacente, o meglio SUPERIORE. La parola superiore e quel profumo di muschio [cioè l’olio profumato adoperato dalla sua amica]. Mi sentivo al di sopra di tutta quella gente che non avrebbe mai osato farlo, mi sentivo come se avessi leccato la fica a mia madre.

Ah, il sesso. Una forza misteriosa, molto misteriosa. È stato Lawrence a dire "più ci si pensa meno lo si conosce"? Credo di sì. Cercate di immaginare i rapporti oro-genitali (come li chiamano graziosamente i manuali specializzati) dal punto di vista di un marziano o del pilota di un UFO che voli basso sulla terra, in arrivo da un altro sistema solare. Sembrerebbe una cosa molto stupida! Una forma di cannibalismo, forse. E forse lo è.

Quello che Rosanna cercava di mangiarsi leccandomi la fica era in realtà la mia poesia, la mia vulnerabilità, il mio calore tipicamente ebraico. Quello che io cercavo di mangiarmi leccando la sua era la sua compostezza yankee, i suoi milioni, o forse la libertà che immaginavo andasse pari passo con queste cose. Non mi ero mai sentita prigioniera e disperata come quell’estate. Avevo provato tutto: fama, fortuna, adulteri, non alzare mai gli occhi dai libri, vivere solo per scrivere, scappare, tornare, star seduta sulla lama del rasoio. Forse Rosanna possedeva la risposta. Ci doveva essere una risposta da QUALCHE parte.

Prima d’allora non avevo mai fatto l’amore con uno dei miei studenti. Era contro i miei principi. Se mi sentivo in colpa per qualche cosa, era per quello… non perché toccavo la fica cremosa, che sapeva leggermente di rancido, di un’altra donna. Eppure ero affascinata dall’atto in sé, dal fatto di vedere l’immagine speculare del mio corpo in un altro corpo, non lo scontro cosmico cazzo-fica, ma il leggero, sicuro, ritmato cullarsi di due corpi di donna. SICURO. Ecco la parola che stavo cercando. Gli uomini erano letali: questa era una cosa SICURA.

Rosanna doveva aver percepito il mio bisogno di sicurezza quella mattina in cui era arrivata da me. Doveva aver percepito la mia vulnerabilità. Era un anno che le piacevo, che mi guardava dall’altra parte del tavolo del seminario (che era anche il mio tavolo da pranzo), che mi voleva, che si stava innamorando di me. Per me lei era semplicemente fonte di curiosità: quei capelli tagliati alla maschio, quel corpo alto e magrissimo, i vestiti alla Mick Jagger, i gioielli di Cartier e il profumo di muschio. Quell’anno non avevo proprio bisogno di un’altra storia. Ero intrappolata in quel matrimonio moribondo; non speravo in nessun cambiamento; ero cinica nei confronti dell’amore, della libertà, della rottura. Rosanna fu costretta a farsi largo a picconate attraverso il mio cinismo per farsi sentire…»

Il nocciolo del discorso sta in quella considerazione: «La prima volta che facemmo l’amore io ero esilarata soprattutto perché stavo facendo qualcosa di proibito. Senza che la terra si aprisse sotto di me per ingoiarmi». Questa è la vera filosofia della trasgressione: un piacere diabolico, perché assolutamente fine a se stesso (e magari un po’ ripugnante, come la stessa Jong suggerisce, parlando di certi aspetti fisiologici non proprio esaltanti), mirante ad affermare l’illimitata libertà dell’io inferiore: un io bramoso di qualsiasi esperienza, bella o no, purché insolita e tale da suscitare scandalo, ma anche una segreta ammirazione. Perché chi è dominato dal piccolo io, è schiavo del voler fare colpo sugli altri, ad ogni costo; chi ha realizzato il Sé, è impaziente di fare ben altri voli…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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