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La tematica centrale di Kipling è l’obbedienza; ma verso chi o che cosa?

Da Kant in poi, un uomo che affermi di esser e al servizio dell’idea di dovere, di un dovere etico che s’impone con tutta chiarezza alla vita della coscienza e che non ammette incertezze né esitazioni, suscita istintivamente un sentimento di simpatia, oltre che di rispetto. L’imperativo categorico, infatti, è tale da destare in noi un moto di spontanea adesione, oltre che una piacevole sorpresa, in un mondo che sembra, essere, sempre più, dominato dall’edonismo e dal relativismo. D’altra parte, non possiamo fare a meno di domandarci se il senso del dovere sia un valore in se stesso, sempre e comunque, indipendentemente da ogni ulteriore determinazione; oppure se esso non sia che lo strumento per realizzare fini e valori, sui quali deve anzitutto pronunciarsi la voce della coscienza, prima di dar loro il proprio assenso e la propria adesione.

Il senso del dovere, a sua volta, diviene il veicolo per la pratica dell’obbedienza: una virtù certamente notevole, perché mortifica le pretese eccessive dell’ego, ma che, anch’essa, non può, o non dovrebbe, pretendere di apparire evidente di per se stessa, dal momento che l’obbedienza è una virtù solo se messa al servizio di una causa buona. L’obbedienza ad una legge malvagia, per esempio, evidentemente non rappresenta un valore: o, almeno, questo è ciò che sembra ad una coscienza bene educata e ad una intelligenza libera da pregiudizi. L’obbedienza cieca è una contraffazione della virtù, in quanto rischia di farsi strumento del male, o, in ogni modo, di forze realmente o potenzialmente distruttive, che se ne servono per i loro scopi e non si ritengono impegnate a rendere conto dei loro fini e dei loro scopi.

Uno scrittore che ha fatto del sentimento dell’obbedienza il tema centrale di gran parte della sua opera è il poeta e romanziere Rudyard Kipling, nato nel 1865 e morto nel 1936, vincitore di un premio Nobel nel 1907: scrittore un po’ maltrattato dalla critica del Novecento, dato che egli — a differenza di altri della sua generazione — non si è spinto lungo gl’impervi sentieri delle avanguardie, delle sperimentazioni, dell’inconscio, ma è rimasto, in buona sostanza, uno scrittore dell’Ottocento (ossia "il mondo di ieri", per dirla con Stefan Zweig), sempre tenendo conto che l’Ottocento, come insegna Eric Hobsbawm, si conclude definitivamente nel 1914, con lo scoppio della Prima guerra mondiale, e non con la data arbitraria e puramente esteriore del 1899.

Kipling è stato letto e amato da almeno quattro generazioni di giovani per merito di avvincenti romanzi, come «Il primo libro della giungla», «Il secondo libro della giungla», «Kim» e «Capitani coraggiosi», anche per merito delle loro successive trasposizioni cinematografiche, televisive e nel mondo dei cartoni animati e del fumetto; ed è stato letto e amato da non poche persone meno giovani, ma di animo romantico, per via del romanzo famoso, anche se non bellissimo, «La luce che si spense» (esso pure ripreso in ambito cinematografico). È anche assai conosciuto presso un vasto pubblico internazionale per aver formulato l’espressione «The White’s Man Burden» («Il fardello dell’uomo bianco»), che è il titolo di una sua poesia e che è assurto, a torto o a ragione, a simbolo dell’ipocrisia coloniale europea, fissando alla razza bianca il gravoso diritto-dovere di civilizzare popoli primitivi, portando loro i benefici del mondo moderno e addolcendo i loro costumi selvaggi, a costo di subire la loro ingratitudine: poesia che fu scritta in occasione della conquista statunitense delle Filippine, nel 1898, che il popolo filippino aveva mostrato di non gradire troppo.

Ha scritto il noto anglista Carlo Izzo a questo proposito (in: «I premi Nobel per la letteratura: Rudyard Kipling», Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1964, pp. 55-57):

«La tematica fondamentale del Kipling è quella dell’obbedienza. Non tanto la legge cui s’obbedisce — d’onore, sportiva, politica o della giungla — ha importanza, quanto l’obbedienza in sé e per sé, la devozione a una causa; così come per Henry James contava kl’obbedienza alla legge sociale della casta cui apparteneva, né sembrava preoccuparsi di soppesarne la validità di fronte all’assoluto e all’eterno. Vi sono tuttavia sconfinamenti nel patetico: per quanto legate a ricordi autentici e dolorosi, le parole conclusive del racconto "Baa Baa, Black Sheep" […], altro non sono che retorica sentimentale; segno evidente che, per quanto profondo e sofferto fosse il moto originario dell’animo, l’espressione di esso rimaneva, per così dire, esterna, un po’ vacua. All’estremo opposto, soprattutto nell’avanzata maturità, s’incontra invece il gusto dell’astruso, dell’oscuramente allusivo. In suo recentissimo studio, C. A. Bodelsen ("Aspects of Kipling’s Art", Manchester University Press, 1964) ha trattato l’argomento con grande acume, e mostrato di saper dipanare matasse tra le più intricate in modo straordinariamente ingegnoso. A conti fatti, ci si chiede, tuttavia, se opere come "Mrs Bathurst" (in "Traffics and Discoveries") e "The Bull that Thought" ("Il toro che pensava", in "Debits and Credits"), le quali richiedono un così laborioso lavoro di interpretazione, siano alla fin fine di quelle cui i posteri decretano l’immortalità. La coscienza collettiva s’è impadronita dei grandi poemi delle civiltà più disparate e remote nel tempo e nello spazio per quello che è in essi di supremamente semplice, non per quello che gli studiosi hanno, sì, analizzato, e commentato e chiarito, ma, nonostante i loro sforzi, senza riuscire a immettere vita poetica là dove essa non è percepibile in modo diretto e immediato. Così si dica per quella parte dell’opera del Kipling alla quale il Bodelsen ha dedicato tanta intelligente attenzione: il risultato va a merito del critico più che a vantaggio del materiale preso in esame.

Per il tramite di Hilton Brown s’è fatto il nome di Charles Dickens. Le analogie non sono certo vistose; pure, tra i due scrittori, non mancano punti in comune: l’esuberante vitalità, ad esempio, e il fatto di essere stati entrambi, più o meno, autodidatti. Ed entrambi errarono, quando errarono, nel senso di indulgere al gusto del proprio tempo e, più, e assai più gravemente il Kipling, nel senso di forzare la loro natura per dare, a se stessi, forse, prima che agli altri, l’illusione di essere padroni di sottigliezze e raffinatezze letterarie che non possedevano, sebbene Kipling sappia, quando vuole, fare sfoggio di eleganze stilistiche "fin de siècle", di cui nel Dickens non è traccia, mentre, in fatto di capacità creative, il Dickens lo sovrasta oltre ogni possibilità dui raffronto. Errò il Dickens quando tentò nel "Barnaby Rudge" il romanzo storico alla Walter Scott, e non sempre riesce convincente nelle parti più elaborate di quel pur eccellente romanzo che è "Bleak House"; ed errò il Kipling quando si pose a modello Henry James, di cui non è possibile immaginare scrittore più lontano da lui per sottigliezza d’intelletto e capillarità di linguaggio.

Il poeta ispirato di rado è buon giudice della sua opera. Da ottimo artigiano, il Kipling sembra invece aver prediletto, tra le tante migliaia di pagine che scrisse, quelle "Just So Stories", destinate alla piccola Josephine [la prima figlia dello scrittore: nota nostra], che mai poté leggerle, la lineare semplicità delle quali è quanto di più squisito sia uscito dalla sua penna, troppe altre volte sovrabbondante, tumultuosa, incapace di indugi calcolati e sapienti. In esse appare in tutta la sua elementare schiettezza il dono che solo, fuori dalla discutibile tematica e dall’involuzione stilistica della fase più tarda, venne al Kipling da natura: quello che nessuna critica, per quanto severa, gli può negare, di impareggiabile, più che novellatore, favoleggiatore.»

È interessante notare come uno dei critici più acuti dell’opera di Rudyard Kipling, il Sandison, abbia messo il dito su un punto centrale del mondo dello scrittore inglese: la mancanza autentica benevolenza nei confronti della natura umana; una certa tendenza egoistica e possessiva, che lo portava a riconoscere malvolentieri e con reticenza i meriti altrui; una tendenza, insomma, a trattenere gli slanci di generosità della propria anima, come se fosse stato troppo incerto di se stesso per potersi concedere una benevolenza completamente gratuita verso l’altro, come si vede assai bene in numerose pagine dello scrittore, mentre si nota assai meno, forse non a caso, in uno dei suoi romanzi al tempo stesso più riusciti e popolari: «Kim».

Kim, il piccolo orfano che percorre le polverose strade dell’India al seguito di un santo lama, alla ricerca delle sue radici e del senso della vita, e Mowgli, il piccolo protagonista dei due romanzi della giungla, altro orfano della gran madre India, cacciato dalla tigre Shere Khan e allevato da un gruppo di lupi: in questo due bambini sospesi fra due culture, l’asiatica e l’europea, e fra due mondi, quello della civiltà e quello della natura selvaggia, si respirano le pagine più ispirate, oltre che più celebri, dello scrittore, quelle in cui, nato egli stesso in India (a Bombay, nel 1865) esprime a pieno la sua nostalgia dell’Oriente e la sua ricerca di un equilibrio fra le due patrie ideali, fra le due dimensioni dello spirito: la pratica e la contemplativa. Sono anche le opere in cui più Kipling si lascia andare, si libera in parte della sua scorza britannica e vittoriana, borghese e politicamente corretta – cioè nazionalista e imperialista — e si abbandona al piacere della vita in sé e per sé, allo sguardo ammirato sul mondo della natura primordiale, popolata di piante e animali esotici, e più si avvicina ad una attitudine benevola e comprensiva, a una generosa indulgenza nei confronti della natura umana, con le sue ombre e le sue luci, con le sue grandezze e le sue miserie.

Eppure Kipling, non va dimenticato, è stato anche un poeta; e un poeta dei fasti imperiali. Oltre alla celeberrima poesia sul fardello dell’Uomo Bianco, ha cantato le glorie coloniali britanniche, in pace e in guerra; e, che, in occasione della battaglia navale dello Jutland (31 maggio 1916), in cui le dusi scontrarono le due formidabili flotte da guerra, l’inglese e la tedesca — era per quella rivalità navale, in fondo, che era scoppiata la Prima guerra mondiale — si faceva bardo delle glorie patrie e al tempo stesso testimone dell’evento da un punto di vista estetizzante, quasi in senso futurista: «Un inferno vertiginoso avvolto nel nero velo della notte calante».

Ma qual è il vero Kipling? E in che modo la sua personale filosofia dell’obbedienza si riflette nei suoi romanzi, nei suoi racconti e nei suoi versi? Si tratta, a ben guardare, di un senso dell’obbedienza che nasce da una concezione quasi fatalistica del destino: ad ogni individuo, così come ad ogni popolo, è affidata una missione: e a quella missione occorre rimanere fedeli, senza deflettere mai, senza scoraggiarsi e senza insuperbire. La vita dei singoli, così come quella dei popoli, non appartiene a loro soltanto: fa parte di un disegno universale che scende dall’alto, e al quale ciascuno deve sottomettersi, facendo passare in seconda linea desideri e aspirazioni di natura soggettiva. Gli Americani, ad esempio, dopo avere sconfitto gli Spagnoli, hanno il dovere di rimanere nelle Filippine, anche se quel popolo fiero e selvaggio non li ama e vorrebbe vederli ripartire: essi, invece, devono restare quanto sarà necessario per impiantare i semi della civiltà bianca nell’arcipelago, per addolcire i costumi di quelle genti rozze, per portare loro i benefici della civiltà e del cristianesimo.

Non sarebbe giusto, non sarebbe onesto negare ad un tale atteggiamento – che sarà etnocentrico e razzista quanto si vuole, ma non è privo di idealismo, né di sincerità — almeno il beneficio della buona fede: tale era la mentalità dominante, alla fine del XIX e al principio del XX secolo, in Europa e negli Stati Uniti: una sorta di paternalismo umanitario nei confronti degli altri popoli e delle altre civiltà; e così la pensavano non solo gli intellettuali e, naturalmente, i politici della classe borghese, ma praticamente tutti, ivi compresi i membri delle classi inferiori, i contadini, gli operai e perfino molti, moltissimi socialisti (sarebbe quanto mai istruttivo, in proposito, rileggersi certe pagine, oggi assai malvolentieri ricordate dagli storici di sinistra, di intellettuali – ad esempio – come il nostro Arturo Labriola). E chi non sa come, in anni ancora più recenti, socialisti "eccellenti" si accostarono al fascismo, quando Mussolini realizzò la conquista dell’Etiopia?

Ecco: il dovere dell’obbedienza che anima il pensiero di Rudyard Kipling nasce da questa spinta interiore alla fedeltà per la propria missione; e come le razze bianche, specialmente quelle anglo-sassoni, hanno il dovere di colonizzare e civilizzare il mondo, né a quel dovere possono sottrarsi, per quanto gravoso esso sia; così il singolo individuo ha un preciso dovere da assolvere nella propria vita, dovere religioso in senso lato, una specie d’imperativo categorico kantiano: sii quel che devi essere, fai quel che devi fare, non rinunciare mai perché saresti un disertore, un fuggiasco di fronte al compito che ti è stato assegnato. Kipling, figlio d’un ufficiale inglese e di una madre per metà irlandese e per metà scozzese, aveva in sé l’anelito verso l’unità, la completezza e l’armonia: sentiva il richiamo dell’Assoluto, ma anche della vita: e volle coniugarli nella religione del dovere…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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