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30 Luglio 2015Occorre dirlo e ripeterlo, se necessario, fino alla noia: la democrazia non è l’unico sistema politico degno di esistere al mondo, davanti al quale, prima o dopo, con le buone o con le cattive, tutti gli altri devono inchinarsi e cedere le armi: chi pensa questo, fa della democrazia una religione, e, quel che è peggio, una religione totalitaria.
Sappiamo quali immensi danni possa causare una religione totalitaria, cioè fondamentalista, la quale prenda se stessa terribilmente sul serio: di fatto, costituisce un pericolo incombente per le nazioni e le società del mondo intero, destabilizzando qualsiasi equilibrio, dentro e fuori la vita di ciascun singolo Stato, e tenta d’imporre al mondo intero un giogo spietato.
La democrazia, di per sé, non un male, almeno nelle condizioni date del mondo moderno, nel quale prevale la cultura dell’individualismo e la filosofia dell’utilitarismo: lo Stato, in questa concezione, è al servizio dell’individuo, e quest’ultimo è mosso fondamentalmente dalla ricerca, privata ben s’intende, del massimo del benessere e, se possibile, della felicità. La società è in funzione della garanzia di tali diritto; la morale, il risultato di questa ricerca.
La democrazia richiede un altissimo livello di consapevolezza civile; oltre a questo, essa esprime la visione del mondo di una società secolarizzata, che non guarda al Cielo, ma alla terra, per stabilire le norme e le regole della convivenza sociale; e nutre la profonda convinzione che la storia sia il prodotto di un complesso di azioni puramente umane, le quali dovrebbero essere ispirate — se governassero, appunto, i democratici — dal criterio di realizzare qui, in questa vita, il migliore dei mondi possibili (o, se non altro, il meno peggiore).
La democrazia, dunque, scaturisce dall’idea della sovranità popolare: una idea relativamente recente, visto che è stata formulata con chiarezza, per la prima volta, da Rousseau, verso la metà del XVIII secolo. È un’idea che può piacere o non piacere, ma che porta con sé inesorabilmente, tutta una serie di ferree conseguenze, una volta accettato l’assunto iniziale. Se la sovranità appartiene al popolo, bisogna che il popolo possa farla valere, ad ogni costo, con qualunque mezzo: perché sottrarre al popolo la sovranità equivale a perpetrare un delitto di lesa maestà, o meglio, un autentico sacrilegio.
Sta di fatto che "il popolo", in quanto tale, non può esercitare il governo; non si sa bene neppure cosa s’intenda, con l’espressione: "il popolo". Le donne, fanno parte del popolo? Questo lo credono le democrazie contemporanee, non lo credevano quelle antiche, e nemmeno quelle moderne fino ai primi anni del Novecento (la Gran Bretagna concesse il suffragio femminile solo nel 1918; gli Stati Uniti, nel 1920; la Francia, patria della Grande Rivoluzione del 1789, appena nel 1944; e la Svizzera, una delle più antiche repubbliche al mondo, addirittura nel 1971).
Oltre alle donne, vi sono altre categorie di persone che a lungo non hanno goduto dei benefici della democrazia, pur facendo parte del "popolo"; ma l’obiezione più grave alla democrazia non riguarda il numero di coloro che effettivamente possono goderne i benefici, all’interno di una data società: riguarda, invece, il principio che "il popolo", inteso come la massa, o comunque la maggioranza, della popolazione, abbia sempre ragione. Si tratta di un’idea così palesemente falsa, che non occorrerebbe nemmeno prendersi la briga di confutarla; eppure, la forza delle democrazie, a paragone di qualunque altro sistema di governo — ad esempio, della monarchia assoluto, o anche della monarchia costituzionale — risiede proprio nella erronea, ma radicata, convinzione, o piuttosto nella propaganda ipocrita che la diffonde, secondo cui il popolo godrebbe di una qualche forma di virtù infusa, di superiore moralità e saggezza originaria, grazie alle quali il suo governo non può che risultare positivo, o, in ogni caso, assai migliore di qualunque altro governo non democratico, fosse pure il migliore tra essi.
Anche questa è una convinzione così palesemente falsa, che nessuna persona dotata di un minimo di onestà intellettuale non può che riconoscere tale: basti vedere come si comportano le masse popolari allorché, convinte delle proprie ragioni, insorgono per far valere i loro diritti, veri o immaginari, giustificando qualunque eccesso, qualunque crimine, con la forza del numero, ossia con il diritto della maggioranza sulle minoranze.
Una terza ragione per metter in dubbio che la democrazia sia una forma di governo intrinsecamente migliore di qualunque altra, sotto il profilo etico, viene dal fatto che la democrazia vera, cioè "pura", non può essere che la democrazia diretta, la quale è di fatto realizzabile, forse, in una minuscola società di poche centinaia, o al massimo di poche migliaia, d’individui; per nazioni e società dell’ordine di grandezza non diciamo dei milioni d’abitanti, ma anche solo delle centinaia di migliaia, la democrazia diretta è praticamente impossibile e deve essere sostituita dalla sua versione annacquata e stravolta, la democrazia indiretta, la quale, storicamente, ha sempre finito per consentire la scalata al potere di una élite spregiudicata e demagogica, cinica quanto basta per promettere qualunque cosa, e anche il suo contrario, al "popolo", purché riesca gradita agli orecchi di quest’ultimo, o quanto meno agli orecchi delle sue frange più rumorose, petulanti e aggressive, magari in flagrante violazione dell’intelligenza e del semplice buon senso, non meno che dei criteri più elementari di giustizia.
Il fatto, poi, che la superpotenza mondiale oggi dominante, gli Stati Uniti d’America, sia una democrazia, che come tale è nata e che vorrebbe esportare il proprio modello, con la pace o con la guerra, a tutto il resto del mondo, almeno fin dove ciò le convenga (non nell’amica Arabia Saudita, ad esempio, governata da una monarchia autocratica e fondamentalista; e non, almeno fino a pochi anni fa, nei numerosi Paesi dell’America Latina, retti da ottuse e sanguinarie dittature militari), ciò non fa che aumentare l’equivoco circa la sua supposta superiorità e circa il suo "manifesto" diritto di aspirare ad essere esportata e insediata ovunque.
Osserva in proposito il politologo Sergio Romano nel suo libro «Il rischio americano» (Milano, Tea, 2003, pp. 123-6):
«Ma gli Stati Uniti — osservano i partigiani dell’egemonia americana — sono una grande democrazia. È vero. La stampa sorveglia la classe politica e ne rivela le malefatte. La costituzione impedisce che il potere si concentri nelle mani di una sola istituzione. La società esprime migliaia di associazioni, circoli di opinione, gruppi professionali, lobby: una moltitudine di voci che nessun governo americano può permettersi di ignorare. Ma le democrazie non sono necessariamente sagge e la maggioranza, in molte circostanze, può avere clamorosamente torto. Fu la maggioranza che linciava i neri nel Sud e voleva la segregazione razziale. Fu la maggioranza che sostenne il senatore McCarthy alla fine degli anni Quaranta e gli permise d’instaurare in Senato una specie di tribunale dell’Inquisizione. È la maggioranza che sollecita il Congresso ad approvare le leggi extraterritoriali con cui l’America pretende di estendere la sua giurisdizione a qualsiasi Paese straniero. Ed è la maggioranza, infine, che autorizza il presidente e il Congresso a respingere i maggiori accordi internazionali stipulati negli ultimi anni: dal trattato contro le mine antiuomo ai protocolli di Kyoto, dalla Convenzione per creare un tribunale penale internazionale a quella contro la tortura.
Gli errori delle democrazie non mi sorprendono e non i scandalizzano. Sarei sorpreso, al contrario, se il numero fosse garanzia di verità e se gli uomini, per il fatto di essere d’accordo in maggioranza su un qualsiasi problema, avessero sempre necessariamente ragione. L’errore e il pericolo, se mai, sono nella convinzione che la democrazia sia sempre virtuosa e giusta,. Quando fa politica estera, del resto, l’America è la prima a non farsi illusioni. Anche se affermano il contrario, i suoi uomini di Stato sanno che la democrazia non è una Gerusalemme terrestre. [sic: evidentemente, "celeste"]. È soltanto un discreto sistema politico, mediamente migliore delle dittature, capace di funzionare al meglio in circostanze favorevoli e particolarmente adatto a Paesi in cui la società, nel corso della storia, è riuscita, provando e riprovando, a perfezionarne i meccanismi. Pericoloso e poco edificante è invece, anche in questo caso, il sovrappiù di miele retorico con cui viene continuamente condita e spacciata la ricetta democratica. Allorché dichiara di voler esportare la democrazia nel mondo, l’America contraddice se stessa. Quando ha bisogno di amici e alleati non li sceglie esclusivamente fra i Paesi democratici, li sceglie fra i Paesi con cui ha interessi comuni e che possono darle qualcosa di cui ha bisogno. Se sono democratici e hanno con gli Stati Uniti una maggiore affinità culturale, tanto meglio. In caso contrario, pazienza.[…] La Croazia di Tudjman, che l’America armò durante la guerra di Bosnia, era un regime personale, corrotto e familistico. Il Milosevic con cui l’America firmò gli accordi di Dayton non era migliore di quello che l’America volle processare al tribunale internazionale dell’Aja. E il Saddam Hussein con cui l’America ebbe amichevoli rapporti diplomatici durante la guerra fra l’Iraq e l’Iran non era meno dispotico e inumano di quello che ha invaso il Kuwait.
Una certa dose di retorica è fisiologica e accettabile. I veri guai cominciano quando l’America, trascinata dalle proprie inclinazioni morali o dalla necessità di meglio giustificare i propri obiettivi, pretende di agire in nome di un principio ideale. È accaduto quando Bush ha cercato di mascherare le intenzioni originali della sua politica irachena dietro un ambizioso disegno politico-morale: la creazione di un Iraq democratico come passo iniziale per la trasformazione democratica dell’intera regione…»
In altre parole, ciò che si potrebbe anche comprendere, se non giustificare, nella pretesa della democrazia di presentare se stessa come l’unica forma di governo a mondo degna di esistere, vale a dire l’uso spregiudicato della forza, né più né meno che qualunque altro sistema di governo (dalla strage dei cittadini dell’isola di Melo da parte degli Ateniesi al tempo di Pericle, ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki per ordine di Truman), diventa odioso e intollerabile quando si avvale dell’ipocrisia auto celebrativa, perché tali sono i metodi cui ricorrono le peggiori dittature e che le democrazie, in teoria, dovrebbero ignorare. Non li ignorano, però, di fatto, tutt’altro; e ciò deriva, a sua volta, dalla palese menzogna, già da noi rilevata, che la volontà popolare non è, di per sé, una volontà "giusta", se per "giusta" s’intende che si elevi al di sopra delle normali logiche egoistiche di qualunque altro sistema politico.
È questo di più di arroganza, condito con l’ipocrisia, che suscita lo sdegno di quanti, standone all’esterno, giudicano la democrazia come proposta politica mondiale. C’è bisogno di dire che, in democrazia, per i meccanismi stessi della cosiddetta "rappresentanza", il potere, di fatto, si concentra in pochissime mani, in circoli finanziari e industriali piuttosto occulti che palesi, e che tali poter i occulti hanno l’impudenza di lanciare gigantesche campagne mediatiche per manovrare la pubblica opinione contro qualunque avversario, sì da provocare la reazione indignata di quella parte di umanità (ad esempio, il mondo arabo) che si vede tagliata fuori dagli interessi strategici della democrazia americana, la quale, al contrario, solidarizza sempre e comunque con i propri alleati strategici (ad esempio, Israele, e, in minor misura, l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo Persico, Kuwait compreso), non di rado a dispetto di ogni senso di equità e giustizia? E c’è bisogno di ricordare che questa sfacciata politica dei due pesi e delle due misure, per cui, ad esempio, la superdemocrazia americana fa la guerra a un dittatore come Saddam Hussein (fino al giorno prima suo prezioso alleato) per "liberare" il Kuwait, vale a dire per rimettere sul trono un emiro dispotico e corrotto, da cui, però, dipendono i rubinetti del petrolio mediorientale?
Del resto, per sapere ciò di cui è capace la democrazia, quando sono in gioco i suoi interessi strategici, non occorre parlare del Medio Oriente e nemmeno di Hiroshima: basta andare alle origini, e vedere come si condusse la neonata democrazia americana verso i Pellerossa e verso gli schiavi neri; o come agì la neonata democrazia giacobina nei confronti dei contadini della Vandea e di chiunque altro non gradisse la Virtù robespierrista.
In conclusione, nessuna democrazia è buona e giusta per grazia infusa dall’alto: come qualunque altra forma di governo, essa mira, innanzitutto, a difendere se stessa; poi, i suoi interessi vitali…
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