L’eurocentrismo, bersaglio spuntato dei filosofi “politicamente corretti”
30 Luglio 2015
Bezymianny e Katmai, le due maggiori eruzioni vulcaniche del XX secolo
30 Luglio 2015
L’eurocentrismo, bersaglio spuntato dei filosofi “politicamente corretti”
30 Luglio 2015
Bezymianny e Katmai, le due maggiori eruzioni vulcaniche del XX secolo
30 Luglio 2015
Mostra tutto

Dietro la strage della notte di San Bartolomeo le mene di Coligny contro i Valois

Il massacro della notte di San Bartolomeo, avvenuto il 23-24 agosto 1572, è passato alla storia con un marchio d’infamia che ne fa non soltanto la pagina più esecrata e vergognosa della storia di Francia, il che — entro certi limiti — è plausibile, ma anche come il simbolo stesso della crudeltà e della perfidia di Caterina de’ Medici e di suo figlio, il re Carlo IX di Valois, nonché, più in generale, del partito cattolico francese, di Filippo II di Spagna e del papa stesso, Gregorio XIII, che fece coniare un medaglione commemorativo non ella strage (come ripete, erroneamente, anche il cardinale Newman), ma della vittoria dei cattolici sugli ugonotti.

Ma è propria questa interpretazione dei fatti? E, innanzitutto: fu premeditata, la strage della notte di San Bartolomeo? Molti storici, ormai, ne dubitano. Molti di essi ritengono che il capo dell’esercito ugonotto, l’ammiraglio Gaspard de Coligny – uomo ambizioso e tale da porre il proprio interesse e quello della sua fazione al di sopra di quello dello Stato francese, per non parlare della dinastia dei Valois, che sognava di abbattere — stesse realmente progettando un colpo di mano per impadronirsi del potere, eliminare i capi del partito cattolico, a cominciare dalla potente famiglia dei Guisa, confinare in esilio Caterina, esautorare Carlo ICX ed instaurare una repubblica autoritaria, nella quale egli avrebbe svolto il ruolo di supremo protettore, un po’ come avrebbe fatto, un secolo dopo, Oliver Cromwell in Inghilterra.

Sentendosi perduta, ma soprattutto temendo per il potere dei propri figli, Caterina avrebbe deciso allora di giocare d’anticipo, facendo assassinare Coligny e, con lui, una ventina di capi ugonotti (ma non Enrico di Navarra, che aveva appena sposato sua figlia Margherita); la seconda fase del piano prevedeva l’eliminazione dei capii del partito cattolico oltranzista, a cominciare da Enrico di Guisa, senza di che il potere reale si sarebbe trovato sbilanciato nell’abbraccio mortale con questi ultimi e avrebbe finito per soccombere, così come stava per accadere con la fazione del potente e spregiudicato ammiraglio ugonotto. Insomma l’obiettivo di Caterina era quello di salvare il trono ai suoi figli, Carlo IX e il futuro Enrico III, oltre che, più in generale, di ricostituire la forza e il prestigio dello Stato, impoverito e straziato dalle lotte religiose, alle quali ella voleva mettere fine, anche per far ritrovare alla Francia il suo ruolo di grande potenza europea, attiva sullo scenario della politica internazionale (ruolo finora mortificato dall’impotenza in cui il Paese si era venuto a trovare, nei giochi incrociati della Spagna, dell’Inghilterra e dell’Impero).

L’esecuzione del piano venne affidata a un sicario maldestro, che, invece di uccidere Coligny, riuscì soltanto a ferirlo; ma questi, dal letto, non cessò di mettere in guardia Carlo IX, che si era recato a trovarlo, contro i maneggi di sua madre, consigliandolo di sottrarsi alla sua tutela e di punire in maniera esemplare gli autori dell’attentato, vale a dire i capi del partito cattolico. Caterina, informata dal figlio stesso del tenore dei colloqui avuti col ferito, e vedendo Carlo IX più che mai incerto e preso da opposti sentimenti, si rese conto che bisognava andare sino in fondo, per evitare il disastro di tutta la sua politica: cioè far sopprimere Coligny e gli altri capi ugonotti. Questo ella volle, di questo fu colpevole: tenendo presente che simili assassini "mirati" erano perfettamente in linea con la politica del tempo, in tutti gli Stati cristiani (per non dire di quelli islamici) ed erano giustificati dalla "ragion di Stato" — non solo da Machiavelli — in base al principio che tutto quel che rafforza e protegge lo Stato è bene, tutto ciò che lo indebolisce e lo minaccia è male. Il resto — il massacro indiscriminato di migliaia di ugonotti, ma anche di cattolici- fu dovuto a un fattore di cui non si valutò sufficientemente la portata: la sete di sangue della folla parigina (e anche delle altre città di Francia). Per eliminare i capi ugonotti, bisognava contare sulla collaborazione dei capi cattolici che avevano le simpatie della folla; ma la folla non voleva una ventina di esecuzioni mirate, voleva il massacro: tale era il clima che regnava nella capitale, in quel momento, e anche nelle altre regioni a predominanza cattolica (ma un fanatismo altrettanto intransigente esisteva nelle province a maggioranza protestante).

Questo fu il grande sbaglio di Caterina e dei suoi consiglieri fiorentini: e fu sbaglio grave, non solo perché coprì la regina madre ed il re di un’ombra di biasimo etico che non è stata mai più dissipata, ma anche, sul piano strettamente politico, perché rese impossibile l’esecuzione della seconda parte del piano, vale a dire la soppressione dei Guisa e il ristabilimento della supremazia regia. Lo scontro con i capi della fazione cattolica venne così soltanto rinviato, ed ebbe luogo più tardi, durante il regno di Enrico III; ma ebbe luogo in circostanze ancora più difficili per la dinastia dei Valois, cioè quando il partito cattolico aveva acquistato un potere e un prestigio tali, specialmente a Parigi, che divenne impossibile abbatterlo senza giungere a una guerra civile generalizzata — proprio ciò che Caterina e Carlo IX avrebbero voluto evitare, facendo sopprimere Coligny e gli altri capi della fazione ugonotta.

Il fatto che diede origine al disegno di sopprimere Coligny risale a poco prima delle nozze di Enrico di Navarra e Margherita di Valois, quindi a pochi giorni prima del massacro della notte di San Bartolomeo. L’ammiraglio aveva cercato di convincere il Consiglio reale a far sua la proposta di dichiarare guerra alla Spagna e di muovere contro i Paesi Bassi in soccorso dei ribelli calvinisti capeggiati dai Nassau. Dalla sua aveva solo l’imprudente Carlo IX, un sovrano nominale, che non possedeva abbastanza intelligenza, né sufficiente senso politico per svolgere una propria azione autonoma: si limitava a seguire l’ammiraglio, che aveva conquistato la posizione di consigliere più intimo del sovrano, a discapito della regina madre; contro, aveva l’intero Consiglio. Non vi era chi non vedesse come sfidare la Spagna di Filippo II, in quel momento, era pura follia: e questo era chiaro non solo ai cattolici più intransigenti, i quali comunque aborrivano da una tale linea politica, vedendo, anzi, in Filippo II il loro principale alleato, ma anche ai moderati, solo considerando la forza del colosso spagnolo, rafforzato dal prestigio della recente vittoria di Lepanto contro la flotta turca nel Mediterraneo. Nei Paesi Bassi, il duca d’Alba era alla testa di un esercito formidabile, con il quale sarebbe stato in grado di irrompere oltre le indifendibili frontiere nord-orientali del regno di avanzare facilmente sino alla Senna, minacciando la stessa Parigi. E tutto questo in un momento in cui le casse dello Stato erano vuote e egli animi, all’interno della Francia, erano più che mai divisi. Sarebbe stato un suicidio.

Dunque, o si fermava Coligny — e c’era una sola maniera di fermare un uomo come quello — oppure ci si rassegnava alla guerra contro la Spagna, alla disfatta, all’invasione; a Caterina sarebbe rimasta la solo alternativa fra il trovarsi prigioniera d’un ammiraglio protestante accecato dall’orgoglio e dell’ambizione personale, fino al punto di non curarsi del bene dello Stato, e il ridursi, lei e suo figlio, nel ruolo di sovrani-fantoccio manovrati da un nemico esterno vittorioso, reso tracotante dalla facilità del successo e dal numero dei suoi alleati, che, forse, avrebbe finito per mettere sul trono un membro dei Guisa, e liquidato per sempre la dinastia dei Valois. Era ovvio che Caterina avrebbe optato per la politica che le avrebbe consentito di conservare un minimo di libertà di manovra tra le opposte fazioni e gli opposti interessi: politica che, significativamente, veniva a coincidere con l’autonomia e la difesa della Francia stessa. Chi parteggiava per la Spagna, infatti, voleva anche, esplicitamente o implicitamente, uno Stato debole e inerme, prono alla volontà dei Guisa; chi sosteneva la guerra contro la Spagna, correva incontro alla sconfitta, alla bancarotta, alla guerra civile, alla perdita dell’indipendenza.

Vale la pena di ascoltare il parere del saggista Jean Orieux che, in «Caterina de’ Medici», insolitamente per un francese, rivaluta alquanto la regina italiana (titolo originale: «Catherine de Médicis», Paris, Flammarion, 1976; trad. di F. Sircana, Milano, Mondadori, 1987, 1994, pp. 420-2):

«I rapporti di cui disponeva Caterina [sulla situazione nei Pesi Bassi] erano decisamente più attendibili di quelli di Coligny. Poteva contare sui suoi fedeli giuristi, informatissimi, riservati. Tra essi, Morvilliers, le cui informazioni alimentavano il suo genio politico: ella aveva un’intuizione pronta delle situazioni, illuminata dai resoconti dei suoi informatori e le sue decisioni si fondavano sulle prerogative della corona capetingia. Nelle vicende storiche del secolo troveranno conferma le opinioni di Caterina sull’egemonia spagnola e sulla guerra civile in Francia. Coligny era preda del fanatismo, dell’orgoglio e dell’interesse. Non nutriva alcun interesse per i fatti. E questi fatti si sarebbero rivoltati violentemente contro di lui.

Supplichevole, carezzevole o minacciosa, Caterina fece l’impossibile per sottrarre il figlio all’influenza dell’ammiraglio. Gli ricordò l’aggressione di Meaux, quando Coligny aveva attentato alla sua vitae al trono. Oggi, lo stesso personaggio perseguiva il medesimo scopo; la debolezza che il sovrano mostrava nei confronti del suo nemico mortale lo abbandonava, assieme al suo regno, all’anarchia. Era la fine della sua dinastia, schiacciata dalle truppe spagnole, detestata dal popolo francese che le imputava tutti i mali di cui soffriva, e l’accusava di aver tradito la fede religiosa e la sacra missione ereditata dai Capetingi. Niente valse a intaccare l’ostinazione di Carlo IX. Caterina minacciò persino di abbandonare il regno e di ritirarsi a Firenze, se egli avesse ancora perseverato nel suo atteggiamento suicida. Il figlio le rispose che era perfettamente consapevole delle proprie responsabilità. Ed è appunto, questa, l’accusa che gli si poteva muovere, e della portata delle proprie scelte. Ma questo non fu mai vero.

In altri tempi, la minaccia della madre l’avrebbe indotto a sciogliersi in lacrime e a gettarsi fra le sue braccia. Ma ormai la Francia aveva un altro re: Coligny, di fatto, regnava.. ma regnava solo su un fantoccio consacrato a tempo determinato contro la volontà, quasi unanime, del regno.

Nella successiva riunione del Consiglio, Coligny si trovò isolato. Tutti gli altri membri si espressero contro la guerra. Il maresciallo de Tavannes, valoroso condottiero, il cui odio verso la Spagna non poteva essere messo in dubbio, fu risoluto a favore della pace. A quel punto, Coligny si levò in piedi, livido di rabbia perché la volontà del solo sovrano non poteva contrapporsi alla volontà unanime del Consiglio, alla quale si sarebbero uniformati tutti i corpi dello Stato. Tutto ciò non rivestiva ai suoi occhi la minima importanza: Coligny voleva aver ragione contro tutti. La collera e il fanatismo lo spinsero a esprimersi non come un suddito del un sovrano, e neppure come un francese: il suo atteggiamento parve quello di uno straniero, di un nemico della propria nazione, , di un capo di Stato venuta da lontano, uguale e persino superiore al re legittimo. Apertamente, pronunciò frasi minacciose per la monarchia e per la Francia: "Madame, il re rinuncia a entrare in guerra; pregate Dio che non si trovi a doverne affrontare un’altra, da cui non potrebbe trarsi indietro". Questa nuova guerra, evidentemente, l’avrebbe fomentata lui, Coligny, all’interno del regno, entro le residenze regali, nel Louvre, in cui già si erano insediati i soldati ugonotti. Un secolo prima, il duca di Borgogna aveva osato esprimersi con un linguaggio non diverso di fronte a Luigi XI: assistevamo allora alle ultime sopravvivenze – temibili — della grande feudalità, giunta ormai alla fine. La minaccia, pronunciata da Coligny il 10 agosto 1572, era in ritardo sulla storia, ma suonava cionondimeno preoccupante, perché la monarchia di Carlo IX non era forte quanto la monarchia di Luigi XI. Estremamente sicuro di sé e della sottomissione del sovrano, Coligny osò ripetere le sue parole minacciose al re che non reagì. "Io non posso oppormi alla volontà della Vostra Maestà, ma sono certo che lei avrà modo di pentirsene".

Caterina e i suoi consiglieri erano costernati. Sapevano che da quel momento in poi l’ammiraglio sarebbe stato pronto a tutto. Era guerra all’ultimo sangue: o Coligny o la regalità. Ne silenzio che seguì a questa minaccia, Caterina meditò di ucciderlo. Coligny aveva oltrepassato ogni limite; la sua presenza, la sua esistenza persino, erano intollerabili. La monarchia era debole, certo, ma sino a che Caterina aveva voce in capitolo, sino a che poteva intervenire autorevolmente attraverso i suoi consiglieri, attraverso le sue manovre segrete, la monarchia avrebbe conservatola sua vitalità. La sua stessa vita si confondeva con la sopravvivenza del trono dei suoi figli. La regalità avrebbe perdurato, a qualunque costo. Era il mese di agosto dell’anno 1572 e in Francia si profilavano, sinistri, bagliori di sangue.»

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.