
Metternich, conservatore razionalista, difende l’«ordine», ma gliene sfugge la vera essenza
30 Luglio 2015
Per uscire dal cerchio stregato del pensiero soggettivo occorre postulare il Pensiero Assoluto
30 Luglio 2015Arturo Onofri (1885-1928) è stato il primo poeta ermetico italiano e, come tale, l’iniziatore di un nuovo modo di fare poesia: in un certo senso, il primo poeta italiano veramente moderno, ove per "moderno" s’intende esprimere non già un giudizio di valore, ma, semplicemente, descrivere l’adesione, magari in forme anche assai diversificate, ad un nuovo paradigma culturale, quello della modernità appunto, che già stava prendendo piede nell’Europa occidentale e nell’America anglosassone, e che incessantemente si stava espandendo nel resto del mondo.
A partire da quella che gli storici della letteratura chiamano la sua terza fase, dopo il 1921 (la prima era stata quella decadentista, futurista e crepuscolari sta, la seconda quella impressionista e "frammentista", influenzata dai simbolisti francesi e specialmente da Mallarmé), nella poesia dell’Onofri si esprime l’incontro con le dottrine teosofiche di Helena Petrovna Blavatsky e, ancor più, con quelle antroposofiche di Rudolf Steiner. Ed è di notevole interesse vedere in che modo l’Antroposofia abbia influenzato il primo dei poeti italiani moderni, come sia stata tradotta, da questi, in linguaggio lirico — un po’ come lo è vedere in qual maniera l’Epicureismo abbia trovato in Lucrezio il poeta capace di esprimere, nella società romana, la concezione filosofica propria di Epicuro e l’atomismo di Democrito.
Ha scritto in proposito un dantista e filologo oggi, ingiustamente, pressoché dimenticato, Ugo M. Palanza (autore di opere come «La civiltà orientale, classica e medievale radice della moderna civiltà», «L’inviolabile divino della legge cosmica», «Il cristianesimo e la radice ebraica. Lettera ai cattolici», «Io e l’infinito», «La vita come impegno civile secondo Dante»), nella sua valida monografia «Introduzione alla letteratura contemporanea» (Città di Castello, Società Editrice Dante Alighieri, 1969, pp. 173-6):
«… E segue infine il terzo tempo. Coincide col momento in cui l’Onofri subisce il fascino della teosofia, un altro sapere o un altro studio tipico dei tempi di decadenza, allorché gli spiriti sensibili, privati dei tradizionali punti d’appoggio religiosi e filosofici, credono di poterli sostituire con l’indagine sui misteri dell’universo. […]
Le idee degli aderenti presso a poco sono queste: risalire dallo studio delle religioni, della filosofia, e delle scienze, non escludendo le manifestazioni misteriose della psiche umana, alla scoperta di verità essenziali ed eterne, sulla base delle quali si dovrebbe creare una fratellanza universale, con una unica legge morale. Però ai teosofi accade di costruire la loro morale non attraverso lo studio di quelle scienze, ma piuttosto di interpretare quelle scienze in funzione d’una loro precostituita intuizione del mondo, secondo la quale i mondi sorgono dal fondo dell’essere unico (un Dio panteista) per un misterioso desiderio di tale essere di moltiplicarsi, e sono focolai di coscienza emergenti dagli abissi dell’oscuro infinito. Il loro destino è d’apparire e disparire, in una vicenda eterna, per cui si materializzano allontanandosi dalla coscienza iniziale, e si di sviluppano dalla materia in seguito per tornare a riunirsi alla coscienza originaria. La vita umana è in questo ciclo, anzi uno dei momenti più alti dell’evoluzione delle forme materiali consiste nel conseguire un affinamento tale che le renda atte ad esser veicoli all’anima umana. Ma quel ritorno alla coscienza originaria è travagli oso tanto per i mondi come per l’anima umana, ed i piani da attraversare sono almeno sette. >L’anima umana deve reincarnarsi in almeno sette corpi prima di poter maturar se stessa al punto d’esser adatta a partecipare alla coscienza o autocoscienza universale. […]
L’Onofri, se non dai dettagli, certo dall’atmosfera d’insieme della cultura steineriana dovette essere fortemente influenzato, come dimostra l’entusiasmo e l’irruenza con la quale, a partire dalla pubblicazione di "Trombe d’argento", egli si stacca dal fresco naturismo precedente ("paesista sottile, quasi acquarellista", lo aveva definito il Cecchi), per cantare anche lui il mistero del ricongiungimento dell’umano col divino e la dolcezza del naufragare dell’io nell’infinito della vita del cosmo. Anche lui in "Il nuovo Rinascimento come Arre dell’Io" teoricizza intorno all’esistenza dell’Uomo archetipo, eterno, perfetto, di cui gli uomini reali non sarebbero che forme caduche ed imperfette. Compito di ciascuno di noi è realizzare quella forma perfetta, per creare l’avvento d’un mondo migliore. Ostacolo da vincere è il "corpo sepolto in un sonno di sensibil pietra", carcere dello spirito e fonte del male, perché, col sesso, distingue quanto in natura è indistinto: mezzo di vittoria deve essere una educazione dei sensi che li liberi dalla paralisi, desti le facoltà prodigiose che pur essi contengono, e per mezzo di esse si realizzi l’adesione della personalità soggettiva con quella universale, cioè col mondo cosmico. Tuttavia, per l’Onofri, la perfezione non consiste nella perfetta adesione dell’io personale nell’universale, nell’obliarsi dell’individuo nello spirito totale, ma egli assegna al poeta-filosofo il compito di conservare la coscienza della propria personalità, anche quando avrà purificato ed esaltato i propri sensi fino al livello dell’ESSENZA ARCHETIPO, sì da restare come un dio nel tempo e nello spazio, capace di tutto intendere e di tutto sentire. A questo punto tutte le apparenze crollano, l’uomo vince il "drago onde s’ammanta il suo maniaco ventre,… fibra cede a fibra — e il legame dei liquidi si scioglie — e il vincolo d’ogni osso si allenta", ed è pronto per l’ultima ascesa, per l’ultima gaudiosa esaltazione nella vita del cosmo.
Lo sforzo di dar consistenza artistica a tutto questo si trova in "Terrestrità del sole", in "Vincere il drago!", e nelle raccolte postume "Simili a melodie rapprese in mondo", "Zolla ritorna cosmo", "Suoni del Gral" e "Aprirsi fiore". Si tratta, in vero, d’una poesia che è tale solo raramente. Il suo difetto centrale sta in un oblio quasi continuato del sentimento rispetto alla tensione del pensiero; il mezzo di soluto usato (l’originalità inventiva dell’Onofri), l’analogia e le immagini rare, inaudite, spesso oscure, sì che per lui, contro la tradizione, diventa norma quanto una volta era eccezione, e raramente si incontrano sensazioni comuni o analogie immediatamente eloquenti. Gli è che l’Onofri appare troppo preso dal suo pensiero, e poiché è pensiero che tocca mondi occulti e si presta a forme cifrate e simboliche, egli abbonda per l’appunto in tali simboliche sono poi le analogie, sovrapposte, brusche, slegate, come per una dissociazione dei sensi, per il lettore, anche se esse forse sono apparse perfettamente logiche nell’intelletto del poeta che, popolato per proprio conto, aveva maturato quel pensiero. La ricchezza delle immagini non solo sorprende e soggioga, ma è taler che infine appare artificio, quasi strappata dai libri dell’esoterismo o ricalcata su quelli della massoneria. Esagerazioni come il "sonno occupa cieli" "azzurro balénanomio-corpo", voci come "disdemòniano" "inàlano", finiscono con l’apparire veri fastidi o con il lasciare indifferente il lettore. "In questa finale indifferenza dell’immagine è il vero limite di questa immaginosa maniera dell’Onofri: e la sua arte si ritrova nei punti in cui le immagini non sono più indifferenti, ma rappresentazioni di affetti; non più segni o simboli di un ragionamento, ma modi di fantasia affettiva" (Flora).»
Ora, a parte la ricostruzione sintetica — e più o meno esatta, più o meno condivisibile — che il Palanza fa delle dottrine teosofiche e antroposofiche, resta il merito, a questo studioso, di aver colto la portata centrale dell’ispirazione che le idee di Steiner hanno avuto nell’ultima fase della produzione poetica di Arturo Onofri, e di aver messo a fuoco, al di là dell’inevitabile zelo del neofita, il limite fondamentale di una siffatta maniera di fare poesia, ossia la prevalenza quasi assoluta del pensiero e della dottrina sull’ispirazione propriamente lirica, la quale, per quanto genuinamente sentita, non riesce a superare un certo schematismo raziocinante per lasciarsi andare e farsi voce dell’anima, vivente di vita propria, libera e fresca.
La considerazione che, nei tempi di decadenza, il venir meno dei tradizionali punti di riferimento filosofici e religiosi spinge alcune anime sensibili a indagare i misteri dell’universo, quasi per sostituire, con tale ricerca, il senso di sicurezza delle vecchie fedi, può offrire una chiave di lettura della terza maniera dell’Onofri, purché non diventi una forma di determinismo positivista alla Taine, una specie di’ipoteca che l’ambiente fa cadere sul poeta, inesorabilmente, allorché si presentano le condizioni storiche adatte.
Quanto alla funzione che l’Onofri dà all’ascesi mistica e conoscitiva, del poeta-filosofo, e, in particolare, alla sua pretesa che essa non coincida con il superamento e con l’abbandono del proprio io e con lo scioglimento e la dissoluzione dell’anima individuale nell’anima universale, ma in una sorta di auto-deificazione dell’uomo, molto ci sarebbe da dire sulla contraddittorietà intrinseca in una simile idea, per la quale l’io deve potenziarsi al massimo proprio in vista del suo stesso trascendimento. Contraddizione che ricorda certo superomismo nietzschiano e la stessa dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale, restando dubbio, e in sostanza ambiguo, se l’anima del poeta-filosofo debba puntare a dissolversi nella gran vita dell’universo, e sia pure passando attraverso un suo eccezionale potenziamento che la conduca alle soglie dell’archetipo originario dell’Uomo come essenza originaria, o se debba puntare a conseguire, attraverso quello straordinario potenziamento di se stessa, una condizione ultra-umana, divina, che la trasmuti in divinità, peraltro conservando sempre la coscienza della propria natura individuale.
Certo qui siamo in presenza di una bizzarra mescolanza di vitalismo nietzschiano, di panismo dannunziano e di misticismo orientale, specialmente buddista, magari filtrato, almeno in parte, non solo dalle dottrine teosofiche, ma anche dalla mediazione di Schopenhauer e la sua concezione della vita dello spirito come strumento di sublimazione delle passioni e, dunque, di anestetizzazione della volontà di vivere, vista come causa ed origine dell’umano desiderare, temere e soffrire. Ma vi è anche un altro elemento, di matrice eminentemente idealistica: la tendenza a vedere il mondo come luogo e strumento della manifestazione della potenza individuale, come campo d’azione della volontà di potenza trasformata in volontà di onniscienza; e una componente gnostica e neoplatonica, tendente a presentare la realtà materiale come il luogo del male e del dolore, come il carcere della umana inconsapevolezza, dal quale occorre liberarsi, volgendo sdegnosamente le spalle alle sue lusinghe e alle sue minacce. Visione, a ben guardare, atrocemente pessimistica, perché parte dal convincimento di una radicale negatività del mondo sensibile e, dunque, degli enti, anime e corpi, a confronto del quale il tanto citato e tanto deprecato (mai, però, effettivamente dimostrato) pessimismo cristiano, specialmente medievale, appare quasi uno scherzo.
Insomma, se da un lato l’Onofri elabora una concezione del reale che presenta non poche analogie, e alcuni punti di contatto, con quella di Julius Evola, con il quale egli condivide l’impazienza e quasi il disdegno verso le cose di quaggiù, d’altra parte il Superuomo, cioè il poeta-filosofo, che dovrebbe realizzare, moderno mago-alchimista, la prodigiosa trasmutazione di se stesso da povera creatura fallace, di carne, debole e imperfetta, in una smagliante essenza divina, sciolta e redenta definitivamente dalle catene dello spazio e del tempo, vale a dire dalla sua condizione creaturale, il Superuomo, dicevamo, sembra non avere altro scopo che affermare, facendola trionfare d’ogni ostacolo, la propria terrestrità, prendendo così il posto che, nella metafisica tradizionale e nelle religioni rivelate appartiene a Dio solo.
Del resto, quando Onofri si attende la redenzione dell’umano da parte dell’uomo stesso, e annuncia un nuovo Rinascimento, in cui finalmente gli uomini terrestri, concreti, potranno aspirare a trasmutarsi nell’Uomo archetipico, divenendo, da semplici copie, la Cosa in sé di sé medesimi (ci si perdoni l’involontario gioco di parole), sembra proprio di udire certe teorie di Evola, impregnate di un neo-paganesimo ora implicito, ora esplicito, in quanto rivolgono all’uomo d’eccezione, capace di farsi il dio di se stesso, quegli attributi (l’onniscienza, l’eternità) che, nel pensiero metafisico classico, spettano a Dio e a Dio solo, e ciò non solo nella speculazione di Tommaso d’Aquino o di Agostino, ma anche di Platone e di Aristotele.
Vi è anche un riflesso del delirio di onnipotenza hegeliano, per il quale non l’essere crea il pensiero, ma il pensiero crea l’essere, come se il soggetto pensante avesse la facoltà, traverso l’esercizio del pensare, di realizzare un "salto" rispetto al proprio statuto ontologico, innalzandosi (direbbe, ancora, il buon Nietzsche) al di sopra di se stesso e montando sulle proprie spalle: spalle di gigante prometeico, di titano che dà l’assalto all’Olimpo. E d’altronde, si faccia caso che un tale auto-scalata, un tale auto-trascendimento, somiglia terribilmente a quello di un altro personaggio della tradizione letteraria tedesca: a quel barone di Munchhausen che, un giorno, volendo uscire fuori da una palude, in cui era caduto, non trovò di meglio che afferrarsi e tirarsi da se stesso per i capelli…
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