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29 Luglio 2015
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29 Luglio 2015Volete leggere un autore senza capire assolutamente quel che egli ha voluto dire? C’è un modo sicuro per riuscirci: quello di inforcare le lenti dei propri pregiudizi prima ancora di affrontarne la lettura e, di conseguenza, di aspettarsi da lui, anzi di esigere, tutto ciò che egli non può dare, in alcun modo, perché ha il torto di essere se stesso e non noi; infine, di sentenziare che egli non ha capito né la vita, né l’arte, e che, pertanto, a dispetto — forse — di certe potenzialità che egli possiede, ha nondimeno rovinato ogni cosa, e tradito la propria missione di scrittore, con quel suo curioso capriccio e quella sua stranissima pretesa di essere lui e non noi e di aver voluto dire quel che pensava lui, e come voleva lui, invece di farsi docile interprete del nostro pensiero, come avrebbe dovuto pur fare, se fosse stato una brava persona e un buon scrittore.
È, questo, l’atteggiamento equivalente a quella mala razza di persone che, sentendosi altrettanti geni incompresi, vanno regolarmente ad assistere a tutte le conferenze, con la loro minuscola contro-conferenza già bella e pronta nella testa; aspettano pazientemente che il relatore abbia finito di dire quel che ha da dire, peraltro senza prestargli soverchia attenzione, e, soprattutto, senza prendere nemmeno in considerazione la possibilità che egli abbia qualcosa d’interessante da dire, qualcosa che possa, non diciamo modificare, ma anche solo aprire uno spiraglio su una nuova prospettiva nelle loro granitiche certezze; dopo di che, venuto il momento del dibattito, sono le prime ad alzare la mano, non per chiedere qualcosa, ma per snocciolare le loro perle di saggezza, visto e considerato che esse hanno capito ogni cosa della vita e della morte e sono così generose da volerne fare partecipi anche gli altri, anche se per fare ciò devono arrampicarsi sulle spalle del relatore, approfittando del pubblico presente in sala, già bello e pronto, e sorvolando sul dettaglio insignificante che esso è venuto fin là per sentire lui, e non già loro.
Questa petulanza, questa saccenteria, questa forma smaccata di narcisismo intellettuale raggiunge il vertice quando il soggetto in questione non sospetta neanche minimamente di essere in difetto evidente d’umiltà, di riflessione, di ascolto; pensa, al contrario, di essere al servizio del progresso, della storia, magari anche della verità e della giustizia, specialmente se si identifica con una "buona causa" che è pure, guarda caso, il massimo del politicamente corretto, per cui egli si sente l’umile portatore di una verità più grande, di una giustizia più alta, nonché il disinteressato operaio che porta il suo contributo alla costruzione di un mondo migliore, dove le cose sono più chiare e dove finzioni e ipocrisia vengono prontamente smascherate: fenomenologia che è particolarmente acuta nelle epoche di trapasso, quando è facile abbattere le vecchie divinità ed è meritorio partecipare alla costruzione dei nuovi templi, spargendo generosamente l’incenso dai turiboli fumanti.
Tale è stata la situazione culturale italiana specialmente negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, quando la gran luce del comunismo splendeva radiosa e alta nel cielo — che venisse da Mosca, da Pechino o direttamente dallo Spirito hegeliano della storia universale, allorché ogni studente zotico e ignorante si sentiva un Althusser o un Derrida e ogni scribacchino della carta stampata si sentiva come Zola nel suo celebre «J’accuse»; e quando, naturalmente, qualsiasi ciarlatano imbrattatele e qualsiasi poetastro imbrattacarte si sentiva un cubista come Picasso o un surrealista come Breton, investito dal sacro fuoco dell’ispirazione e inviato da Dio a scandalizzare i decrepiti borghesi e a smascherare le lorde imposture dei circoli reazionari che tenevano imprigionate le belle e libere e geniali facoltà spontanee del popolo lavoratore, e quando, nota comica che non poteva mancare e che non è mancata, intellettuali politicamente corretti, come Alberto Moravia, hanno cercato di ritagliarsi un ruolo nel movimento di contestazione studentesca, di cavalcare quei pruriti e quei mal di pancia rivoluzionari o creduti tali, magari per diventare i nostri piccoli Sartre e i nostri piccoli Camus, riuscendo però a rimediare soltanto — oh suprema ingratitudine dei giovani! — salve di fischi sonori e rudi sollecitazioni a girare i tacchi e togliere il disturbo.
È in quel clima che bisogna entrare per capire la critica letteraria (e artistica, e cinematografica, e musicale, e filosofica) di quegli anni, la quale partiva dal pregiudizio naturalista che la realtà fa schifo, ma che allo scrittore spetta, almeno, il compito di darle un senso, denunciando le storture sociali prodotte dallo sfruttamento padronale e indicando così, alle generazioni presenti e future, la via da seguire per aiutare l’umanità a percorrere la via del progresso che, sola, guida alla felicità privata e insieme al pubblico bene. È penoso sfogliare tante antologie scolastiche, tanti libri di testo di quel periodo e vedere fino a che punto fior di professori, di storici e di critici si siano abbandonati alla demagogia più vergognosa, abbiano corteggiato i miti più facili e corrivi, si siano trasformati, senza pudore alcuno, nei cortigiani, negli araldi e nei coribanti, al tempo stesso, della gloriosa rivoluzione prossima ventura, foriera di altissima e immancabile civiltà e di sorti meravigliose per tutti e per ciascuno.
Prendiamo un caso fra i mille a disposizione, fra i centomila che potremmo scegliere, uno qualsiasi: ossia la presentazione, firmata dalla germanista Luisa Coeta, della edizione economica, in un solo volume, di due drammi dello scrittore tedesco Gerhart Hauptmann – nato a Obersalzbrunn, in Slesia, nel 1891 e morto ad Agnetendorf nel 1946 – pubblicata da una peraltro nobilissima ed encomiabile casa editrice milanese, che ha avuto il merito di portare nella casa di milioni di italiani i classici della letteratura di tutti i tempi, talvolta a dispense, talaltra in volumi ben rilegati e con bellissime copertine in finta pelle: ciò che si legge è il perfetto esempio di come un autore non va accostato e di quello che non ci si deve aspettare da lui, a meno che si sia già ben decisi a fraintenderlo e a strumentalizzarlo (da: G. Hauptmann, «Florian Geyer; E Pippa balla!»; titoli originali: «Florian Geyer» e «Und Pippa tantz!»; traduzioni, rispettivamente, di Luisa Coeta e Francesco Saba Sardi, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1968, pp. 8-11):
«… Nel 1892 scrive "Die Weber" ("I tessitori"), dramma ispirato alla ribellione dei tessitori slesiani nel 1844, al quale seguono "Biberpelz" ("La pelliccia di castoro") (1893), violenta accusa, in chiave fortemente satirica, dei soprusi dell’autorità, e "Florian Geyer" (1896), possente rievocazione della guerra dei contadini del 1525, ossia "alla soglia del trapasso dal Medioevo all’età moderna". In queste tre opere soprattutto, alle quali oggi è quasi interamente affidata la sua fama, Hauptmann supera i limiti, sovente angusti e fastidiosi, della lezione naturalista, o, espresso in altri termini, ne concretizza i postulati teorici nella forma più matura, trascendendo appunto i confini della scuola. Ma l’insuccesso della prima rappresentazione del "Florian Geyer" è uno smacco troppo bruciante per il giovane drammaturgo. Da questo momento egli rinuncia progressivamente al dramma sociale di ambiente e di idee. Benché anche in molte delle opere del periodo successivo non venga mai completamente meno l’impegno, politico diremmo oggi, di difendere gli oppressi, la sua protesta tuttavia contro l’ingiustizia dello sfruttamento di classe si riduce a una commossa adesione alle sofferenze dei diseredati e all’umano patire. Così, la breve stagione della letteratura socialista (e si trattava di un socialismo tinto di messianesimo umanitario), postulata, intorno alla fine del secolo scorso, dalla scuola naturalista, che aveva avuto nel giovane Gerhart Hauptmann il suo rappresentante più genuino, poteva dirsi conclusa, anche se solo temporaneamente. L’autore dei "Weber" rinuncia, salvo alcune eccezioni, "Der rote Hahn" ("Il gallo rosso") e "Rose Bernd", allo stile realistico richiesto dalla scelta del tema storico-sociale per assumere a proprio principio estetico un simbolismo talvolta poco convincente. Hauptmann sembra far concessioni al gusto ufficiale, indulgere alle aspettative della borghesia reazionaria, che con l’avvento della Repubblica di Weimar vedrà la auspicata istituzionalizzazione della repressione. Quasi tutta la vasta produzione successiva manifesta la tendenza al ripiegamento su se stesso, all’evasione nel mondo del sogno, nonché al recupero di un mitico passato sia esso germanico o greco. Tuttavia nessuna di queste opere, per le quali Hauptmann sperimenta di volta in volta nuove soluzioni estetiche, dal simbolismo al surrealismo, possiede la forza convincente dei drammi del primo periodo. In definitiva, nel "tentativo di trascendere il proprio fondo originario di sentimenti, egli perde ogni stella polare, ogni guida interiore".
La prima delle opere proposte nel presente volume è il "Florian Geyer". Datato del 1896, il dramma rievoca, come precisa il sottotitolo, la guerra dei contadini tedeschi che intorno al 1525 sconvolse il sud della Germania. L’importanza storica di questa insurrezione popolare contro le strutture medievali, non era sfuggita al giovane drammaturgo slesiano. La guerra dei contadini "infatti fu il momento decisivo per il destino del popolo tedesco, in cui apparvero all’orizzonte, almeno come prospettiva, il salvataggio della nazione dall’avvilimento e il suo costituirsi in unità, anche se tutto tramontò con la tragica repressione". Hauptmann colloca l’azione del suo dramma nell’ultima fase di questa guerra di popolo, destinata al fallimento perché alla causa contadina si alleano le forze reazionarie che appunto la tradiranno, ne segue gli ultimi sviluppi fino alla tragica conclusione: la strage de delle schiere dei contadini, armati per lo più dei rudimentali attrezzi del lavoro rurale, e il ripristino delle strutture medievali. Hauptmann ha affrontato il tema con estrema serietà e impegno: si è documentato sulle fonti storiche, ha vistato i luoghi (Rothenburg e Norimberga) che erano stati teatro della rivoluzione contadina, ha studiato i dialetti della Bassa Baviera, soprattutto della Franconia; continua infatti ad usare il dialetto, fedele in questo all’insegnamento naturalista. Nel contesto della produzione drammatica hauptmanniana "Florian Geyer" è un’opera sé stante. La "tragedia della guerra dei contadini" non intende commuovere il lettore o lo spettatore — come in sostanza succede nei "Weber" -, non provoca, con l’arma della pietà, adesione alla classe sfruttata (destinata a rimanere momentanea e quindi sterile in quanto commuovere significa convincere che la sofferenza in tutte le sue forme è una condizione umana), ma propone una lunga teoria di figure che sono portatrici di idee. Sono le idee che hanno determinato l’inevitabile scontro di classe — perché scontro di classe ci fu nella guerra dei contadini tedeschi — e all’insuccesso, altrettanto inevitabile, della causa popolare… »
Già il fatto di pensare che la fama di un autore sia affidata al giudizio insindacabile e infallibile dell’oggi dice tutto sull’orizzonte mentale, o piuttosto sulla estrema ed ingenua limitazione dell’orizzonte mentale, di chi ha scritto questa presentazione, ed è la tipica espressione di quella euforia, di quella ebbrezza che pervade gli intellettuali "impegnati" nelle epoche di rapido cambiamento: essi non dubitano di esser giunti (come diceva Filippo Tommaso Marinetti) "sul promontorio estremo dei secoli", di essere cioè l’ultimo e definitivi prodotto della storia, per cui la loro parola, i loro gusti, le loro aspirazioni equivalgono alla legge definitiva, alla verità e alla giustizia assolute: sì, prima c’erano stati degli altri "oggi", ma, appunto, questo era accaduto prima: perché l’"oggi" di adesso, cioè il loro, è tutta un’altra cosa; esso è il tribunale della storia che giudica i vivi e i morti e che mette all’inferno i reazionari, in paradiso i progressisti.
Poi, dopo aver insinuato che Hauptmann ha rinunciato al dramma sociale d’impostazione naturalista per effetto di una mera delusione professionale e non per ragioni artistiche e umane, e dopo aver deprecato il rapido abortire di una letteratura socialista tedesca (e sia pure, sembra sfuggir detto all’autrice, con un sospiro quasi percettibile, d’un socialismo non marxista, bensì "messianico" e umanitario, dunque imbelle, fumoso e, per giunta, para-religioso: "écrasez l’infâme"!), ella depreca che Hauptmann sia parso indulgere al gusto "ufficiale" — nel 1912 aveva vinto il premio Nobel — e, "horribile dictu", venire incontro alle aspettative della "borghesia reazionaria", bramosa del sangue delle classi lavoratrici.
Ma il bello viene adesso: che altro può fare uno scrittore quasi-socialista e quasi-progressista, quando piega il timone verso lidi conservatori o addirittura reazionari, se non ripiegarsi su se stesso, evadere nel mondo del sogno oppure nella dimensione del mito e del passato? Che tale svolta, nel caso di Hauptmann come di parecchi altri, non sia stata affatto il risultato di un "ripiegamento", né una ricerca di "evasione"m, e che il mito e il passato non siano affatto delle forme "inferiori" di realtà, che il "vero" scrittore dovrebbe evitare, tutto ciò non viene in mente alla nostra bene intenzionata germanista. Ella ha fretta di giudicare: se Hauptmann, dopo aver parlato del dramma dei tessitori, si è "ripiegato" su se stesso, non può essere che per una forma di adulazione verso la borghesia reazionaria o per una forma, detto in parole povere, di rimbecillimento: "tertium non datur". Uno scrittore sano di mente e in buona fede non può tradire così la giusta causa: e le sue benemerenze passate valgono ad attenuare solo in parte le sue evidenti responsabilità nei confronti del radioso futuro socialista, tedesco e mondiale.
Ed eccoci al «Florian Geyer»: un dramma storico di argomento sociale, dunque bene il tema e bene l’impostazione; però il lettore di Hauptmann deve capire, prima di tutto, che quella dei contadini tedeschi era stata una guerra di classe, e dunque che andava giudicata da un punto di vista marxista (il buon Marx non viene mai nominato, e tuttavia è presente sullo sfondo dal principio alla fine, come il convitato di pietra che si tien pronto a farsi avanti per punire Don Giovanni). Altrimenti, il lettore rischia di non capire quale fosse realmente la posta in gioco nella guerra dei contadini del 1525: niente di meno che l’uscita dal Medioevo e l’unificazione della Germania! Quanto all’uscita dal Medioevo, però, a noi sembra che sia tutto da vedere se i contadini, una volta vittoriosi, avrebbero saputo portare la società tedesca nella modernità, solo per il fatto di abolire la servitù della gleba; e quanto all’unificazione tedesca — unificazione nazionale che in tutti i Paesi d’Europa era avvenuta per opera di una forte monarchia nazionale e non di sollevazioni contadine – si tratta di una teoria assai stravagante, anche se presentata con il piglio sicuro e intransigente di chi non ammette repliche, né obiezioni.
Infine, l’asso nella manica: Hauptmann se non altro, ha capito — e questo va ascritto a suo merito – che non si deve commuovere il pubblico, perché commuovere è convincere che la sofferenza, in tutte le sue forme, è una condizione umana. Questo sì che è un parlare da uomini, cioè da uomini moderni e progressisti, che non credono alle favole della religione e che non attendono il proprio riscatto da nessun altro che da se stessi! La sofferenza? Non è una condizione umana; è solo un prodotto della sovrastruttura capitalista: niente più sfruttamento capitalistico, niente più sofferenza per l’umanità intera. Semplice, no? La commozione è un narcotico: addormenta le coscienze, perché suggerisce loro che non c’è niente da fare, con la sofferenza l’uomo deve convivere, deve rassegnarsi. Opinare diversamente, sarebbe dubitare delle magnifiche sorti e progressive che ci son destinate, solo che noi sappiamo sbarazzarci dalle strutture economiche del capitale e dalle sovrastrutture religiose della Chiesa: dopo di che saremo liberi e felici, e non dovremo tener alcun male. Chi, se non un abietto reazionario o un malato di mente, potrebbe non fremere di gioia davanti a una simile prospettiva, e mettersi al suo servizio? Chi oserebbe ancora dire che la sofferenza fa parte della condizione umana, e che non bisogna sperare di eliminarla, ma semmai di trovarvi un significato?
Peccato: forse questi intellettuali di sinistra degli anni Sessanta del secolo scorso avrebbero dovuto studiare un po’ meglio la storia, e si sarebbero risparmiati tante sciocchezze e tanti cattivi insegnamenti. Per esempio, avrebbero scoperto che i contadini, dalla Vandea del 1793 all’Unione Sovietica dello stalinismo, sono sempre stati i primi a finire vittime della repressione comunista, ma, beninteso, in nome del "popolo" e del "progresso": e non come i contadini tedeschi del 1525, che furono massacrati in una sola battaglia (a Frankenhausen), ma mediante un genocidio sistematico, come avvenne, appunto, per i "chouans" e per i "kulaki" (o per i "cristeros" messicani e per tanti altri in tutto il mondo). Ma tant’è: il progressista non dubita mai delle sue buone ragioni; non si accorge neppure di essere il devoto d’una nuova religione, quella del Progresso: ciò che non rientra nel suo paradigma, nei suoi dogmi, semplicemente non lo vede…
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