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Rincresce dirlo, ma Pasolini fu un cattivo maestro, e il peggior nemico di se stesso

Pier Paolo Pasolini, per tutta la sua carriera di intellettuale e di artista, si è costantemente atteggiato a perseguitato politico e morale: vittima dell’infame (ma lui, facendo a gara con Pannella, diceva sovente: criminale) regime democristiano, e del becero bigottismo dell’intera società italiana, ostaggio, essa stessa, di un clericalismo reazionario e di un perbenismo ipocrita e spregevole, cui non andavano esenti gli stessi compagni del P.C.I. che lo avevano espulso dal partito per "indegnità morale" (dopo i fattacci di Ramuscello, nel 1949) e, secondo lui, anche dopo, per tutta la carriera di alfiere della libertà, dell’onestà, della coerenza, in un mondo di falsi, di retrogradi e di servi.

Questa auto-interpretazione della propria vita, che giustifica tutto ciò che egli ha fatto, detto e scritto e condanna a perpetua ignominia tutti coloro i quali non lo hanno appoggiato e sostenuto, suggerendo che esisteva un complotto generalizzato e sistematico ai suoi danni e che lo si voleva eliminare moralmente per mezzo della denigrazione, o ridurlo al silenzio col bavaglio della censura, è stata ripresa, ampliata e perfezionata dai suoi discepoli, amici e ammiratori, i quali hanno tramandato e irrobustito la leggenda di un Pasolini sempre solo contro tutti, sempre incompreso nonostante, o anzi proprio a causa, della sua assoluta trasparenza e limpidezza morale e intellettuale; infine di un Pasolini che si batte strenuamente per ripristinare la verità e la giustizia in un Paese di cialtroni, di opportunisti, di venduti, lui solo puro e tutti gli altri sporchi: i fascisti perché sono l’eterno marciume; i democristiani perché ne sono gli eredi diretti – senza sfumature e senza distinzioni -, i borghesi tutti – di nuovo senza sfumature – perché sono infetti, vili, repressi, ignoranti, brutali, cinici e degenerati, infine anche molti "compagni" di sinistra perché, pur avendo ricevuto il Vangelo infallibile di Marx, non l’hanno saputo usare, lo hanno disatteso e tradito – come gli Ebrei, se ci è lecito il paragone, i quali, pur avendo le Scritture e pur avendo visto e udito Gesù Cristo, non lo hanno riconosciuto e hanno perseverato nell’errore.

Ora, ad essere maliziosi, si potrebbe osservare che i continui scandali, che Pasolini cercava e provocava; il suo continuo alzare la posta della provocazione, dell’offesa, dello sberleffo ai danni dei suoi obiettivi polemici, cioè, in sostanza, contro il sonno della ragione d’illuministica memoria e contro i vizi di una società decrepita, putrescente e sprofondata nella menzogna, sono stati, per lui, per i suoi libri e per i suoi film, il migliore "battage" pubblicitario: collezionando innumerevoli processi per offesa al comune senso del pudore (e uscendone, alla fine, sempre assolto), egli è stato il migliore sponsor di se stesso ed è riuscito ad attirare costantemente i riflettori sulla sua opera, oltretutto nella posizione di perseguitato innocente e di vittima generosa e paziente dell’altrui stupidità e dell’altrui arretratezza. Sta di fatto che tutta la sua vita, a partire dallo scandalo di Casarsa, e fino alla sua stessa morte, nella quale si è voluto vedere il prototipo del complotto diabolicamente inscenato non solo per far tacere una voce troppo audace, e perciò pericolosa, ma anche per sporcare la eternamente la memoria dell’estinto, si è svolta costantemente all’insegna dello scandalo, eppure – strana circostanza – all’insegna della massima solidarietà da parte di molti degli intellettuali e degli artisti che allora contavano e senza quasi alcuna riserva da parte di tutti gli altri. Insomma Pasolini era un perseguitato molto speciale, che veniva assolto preventivamente dai suoi colleghi intellettuali, a cominciare da Moravia e Siciliano, prima ancora che i processi della giustizia italiana avessero inizio nei suoi confronti, di modo che quei processi, poi, si svolgevano, agli occhi dell’opinione pubblica, non a carico di lui, ma di coloro che avevano l’ardire di giudicarlo: perché Pasolini era la bocca della Verità, dunque era intoccabile, e se qualcuno osava giudicarlo, per forza doveva essere un agente di oscure forze reazionarie, un provocatore, un fascista, un nostalgico dell’era delle caverne.

La sicumera di Pasolini, grazie alla fama di scandalo che si era procurata, era giunta a un punto di tale candore, e di tale narcisismo, che, non pago di scrivere gli articoli di fondo per il maggiore quotidiano italiano degli anni ’70, e questo per un periodo tutt’altro che breve (cosa che da sé basterebbe a sfatare la leggenda di un Pasolini isolato, braccato e perseguitato), si impancava talvolta a profeta dantesco e arrivava a  sentenziare, ad esempio – leggere per credere – che, stante la sovrappopolazione del pianeta, il peccato contro natura diventava la migliore soluzione al problema e che la sessualità fra uomo e donna diveniva, viceversa, l’azione contro natura per eccellenza. Ora, siccome Pasolini era senza dubbio una persona intelligente, e siccome aveva la capacità di veder chiaro in molte cose dove altri brancolavano nel buio, l’unica cosa che si può pensare della sua fama come intellettuale e come giornalista, davanti a simili esternazioni, è che la società italiana di quegli anni doveva essere così sprofondata nella confusione, nel malessere, nello smarrimento, da aver perduto completamente il senso della realtà, fino al punto di ascoltare come oracoli gli sproloqui di un pederasta dichiarato che avrebbe voluto, "per torre il biasmo in che era condotto, libito far licito in sua legge", e prendersi così la sua memorabile rivincita su quanti lo avevano bollato come moralmente indegno.

Il ritratto complessivo più onesto, più misurato, più equanime di Pasolini è stato scritto da un letterato friulano che lo conobbe personalmente, ai tempi dell’Academiuta e della Filologica, così come conobbe Giuseppe Marchetti, Riccardo Castellani e altri protagonisti della rinascita culturale e poetica "romanza" del secondo dopoguerra: Gianfranco D’Aronco; libro, ahimé, pubblicato da una piccola casa editrice e passato, ci sembra, quasi inosservato, forse perché in una cultura dove ottiene maggiore ascolto chi grida più forte (come Pasolini, appunto, ha magistralmente insegnato), le voci sobrie e pulite, sommesse e veritiere, non suscitano l’attenzione perché, appunto, non destano clamore. D’Aronco ci consegna un ritratto di Pasolini straordinariamente equanime: senza alcuna acredine, anzi, sempre con rispetto, ma anche senza fare sconti agli atteggiamenti istrioneschi e alle frequenti cadute di stile del poeta friulano (il quale, fra parentesi, di padre bolognese e madre friulana, in Friuli ci stette solo pochi anni; e le sue poesie friulane sembrano pensate in italiano e poi tradotte, col vocabolario Pirona alla mano). D’Aronco fu sempre estremamente signorile nei suoi rapporti con Pasolini, cui riconosceva importanti meriti letterari e culturali circa la questione della friulanità; Pasolini era invece dominato dal rancore nei confronti dell’ambiente udinese, che ha sempre snobbato e vituperato, forse perché non tutti condividevano il suo disprezzo per il poeta ottocentesco Pietro Zorutti, che per lui, era la testa di turco sulla quale riversare tutte le colpe di una lingua letteraria friulana mai nata, o mai nata nella giusta maniera.

Ma quel che emerge dal libro, documentato con ineccepibile chiarezza e precisione, è che nessuno fece la guerra a Pasolini, in quel’ambiente, per motivi meschini, anzi, che nessuno gli fece proprio la guerra; al contrario, che tutti furono prodighi di riconoscimenti per il suo giovanile talento, gli concessero ampio spazio nelle riviste e lo invitarono alle conferenze (che lui talvolta snobbava, con accenti alquanto snobistici); e che solo dopo la sua partenza da Roma si verificò un certo raffreddamento nei suoi confronti, dovuto, oltre che agli scandali sessuali di cui si rese protagonista come corruttore di minorenni (oggi si direbbe, senza tanti giri di parole: come pedofilo), al suo steso atteggiamento di spregio nei confronti della cultura friulana tutta, e di quella udinese e "borghese" in special modo. I democristiani erano, per lui, puramente e semplicemente gli eredi dei fascisti; quelli del movimento per l’autonomia friulana, dei burattini nelle mani dei democristiani di Tiziano Tessitori; i comunisti, che lo avevano cacciato dal partito (ferita mai rimarginata), subalterni alla mentalità medievale, feudale, clericale (e subalterna, evidentemente, lo era anche la scuola di Stato, visto che pure da quella era stato cacciato, nel 1949).

Scrive, dunque, Gianfranco D’Aronco a proposito di questo lato dello stile pasoliniano, sia nel cinema, sia nella letteratura, sia nel giornalismo (da: G. D’Aranco, «Pasolini, riveduto e corretto», Tricesimo, Roberto Vattori Editore, 1990, pp. 79-82):

«È vero che ogni autore scrive un solo romanzo: il primo. Pasolini fa suo per sempre il mondo dei ragazzi di vita: e vi si ravvoltola.

Se nel campo della oscenità c’è poco da inventare, basta insistere nel crescendo. Descrivere ragazzi "che fanno il bisogno materiale" (in "Ragazzi di vita" appunto); fare della "Ricotta" un film che il regista Roberto Amoroso, rifiutando il soggetto propostogli, giudica "una raccolta di inverecondie offensive del senso morale e del pubblico tutto"; ideare le esibizioni anatomiche in "Teorema", corredate da relativa minzione; ricorrere alle situazioni boccaccesche nel "Decameron", esasperate e iterative; inventare l’ineffabile "Salò o le cento vendi giornate di Sodoma", giudicato da uno spirito libero come Enzo Biagi "una triste e noiosa confessione, il trionfo del deretano inteso come messaggio, il gioco macabro di una fantasia alterata, un esercizio che richiederebbe, più che l’interpretazione dell’esteta, quella dello psichiatra", eccetera: tutto questo rappresenta il costo della popolarità che Pasolini è disposto a pagare. Per dirlo a chiare lettere. È pacifico che l’usignolo romano avrebbe ottenuto un minor numero di spettatori . mancando le frotte dei militari di leva in libera uscita — senza le lubricità in esso costanti (Bandini). Il "Decamerone" ottiene una specie di Oscar: "il più alto numero di denunce per oscenità, un’ottantina"(Naldini). Ottanta sketch pubblicitari sarebbero costati molto di più. Non è certo il caso di fare il processo ai processi (che lo mandano quasi sempre assolto). Il codice, ci hanno detto, non è stato violato da lui; sconfitti, ci hanno detto, sono usciti i difensori della morale, marchiati in perpetuo come moralisti. Rimane però il fatto che richiamare l’attenzione, delle masse, esibendo quelle che in tempi preistorici si chiamavano le "vergogne" in azione, non è grande impresa.

Siamo nel 1960. "Non è possibile immaginare nulla di più servile, sciatto, miserabile, fatuo, cattivo e volgare: soprattutto cattivo e volgare, di una cattiveria che rasenta la mostruosità e di una volgarità che è spesso oscena". Non è un neofascista che parla di un film di Pasolini; è Pasolini che parla dei documentari: "i film che, dello Stato clericale, sono al servizio. Ivi in quantità "parole, fatti, riferimenti e allusioni oscene", "puro scandalismo" […] in favore dello Stato". Così "uno Stato morale si fa difendere con mezzi che sono della più plebea volgarità". Ma perché ciò sia possibile, occorre che le masse continuino a vivere "ad uno stadio addirittura medioevale", chiuse in "una cultura provinciale, ipocrita, errata alle radici" (Pasolini, "Cronaca giudiziaria", p. 108). È l’accusato ad accusare.[…] C’è da chiedersi dove Pasolini volesse arrivare con le sue opere. Forse a una libertà assoluta, che distrugge tutte le libertà e con essa la società stessa. Chi non auspica liberi costumi sessuali è "sessuofobo", e la malizia ce l’hanno gli altri (non chi la insinua): non esclusi i borghesi divenuti comunisti. "Il problema sessuale […] non è, evidentemente, un problema morale [?]; ma, poiché la piccola borghesia cattolica è abituata, ipocritamente, a considerarlo come tale, tale lo considera anche il dirigente medio comunista, come, direi, per inerzia (Spinella). L’imperativo categorico è quello di "continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari,, a pretendere, a volere, a identificarsi col diverso; a scandalizzare, a bestemmiare": così Pasolini forse nell’ultimo suo scritto, citato ("Lettere luterane", p. 195). Occorre rimanere sempre all’offensiva: scandalizzando e bestemmiando. […]La tendenza a richiamarsi contemporaneamente a Cristianesimo e a marxismo, quasi siano conciliabili, si accompagna in Pasolini alla commistione di sacro e di profano, di puro e d’impuro, di santo e di lascivo: il tutto enunciato con tranquilla indifferenza. C’è una pagina dei "Quaderni rossi" (1946) in cui il giovane scrittore si mostra già maestro d’edonismo, scopertamente dannunziano (viene in mente "Il Martirio di San Sebastiano"). Fantasie adolescenziali: lo dice il poeta stesso, anzi pre-puberi. Lo ispira la immagine un uomo è azzannato da una tigre. "Giaceva col capo supino, in una posizione quasi di donna, inerme, nudo." "Davanti a questa figura, io ero preso da un sentimento simile a quello che provavo nel vedere i giovanetti a Belluno, due anni prima, ma era più torbido, continuo. Sentivo un brivido dentro di me come un abbandono." Ma questo è niente. "Una fantasia simile a questa l’ebbi alcuni anni più tardi, ma prima della pubertà. Mi sorgeva, credo, vedendo o immaginando, un’effige di Cristo crocefisso. Quel corpo nudo coperto appena da una strana benda ai fianchi (che io supponevo una discreta convenzione) mi suscitava pensieri non apertamente illeciti e per quanto spesse volte guardassi quella fascia di seta come a un velame disteso su un inquietante abisso (era l’assoluta gratuità dell’infanzia) tuttavia volgevo subito quei miei sentimenti alla pietà e alla preghiera". "Mi vidi appeso alla croce, inchiodato. I miei fianchi erano succintamente avvolti da quel lembo leggero e un’immensa folla mi guardava. Quel mio pubblico martirio finì col divenire un’immagine voluttuosa e un po’ alla volta fui inchiodato col corpo interamente nudo" (Nadini).»

Non sarebbe facile trovare una prefigurazione più tragicamente esatta di questa di ciò che sono state, in seguito, sia la vita che la morte dello scrittore. Il suo "martirio", laico ed erotico, anzi, omoerotico, è stato scandito da tutta una serie di esibizioni scandalose e scandalistiche, sempre più spinte, sempre più audaci, sempre più beffarde, un film dopo l’altro, un libro dopo l’altro, in un delirio crescente di autoerotismo e di autodistruzione. In fondo, Pasolini è stato veramente l’ultimo grande scrittore decadentista italiano, in un incessante, eterno rincorrersi di Eros e Thanatos, quasi in un’ansia di auto immolazione e di "purificazione", che non è, quest’ultima, una forma di espiazione per le colpe commesse, semmai il contrario, una suprema, prometeica rivendicazione di esse: il tutto sempre davanti a una platea, la più folta e numerosa possibile (si faccia caso a quella «immensa folla» che lo guardava, nudo e crocifisso, come se lo scrittore Pasolini non potesse mai deporre, neanche per un istante, l’immensa ambizione e lo sfrenato desiderio di mettersi in mostra, di attirare gli sguardi, di destare clamore negli altri.

Queste considerazioni ci sembrano necessarie, anzi, doverose, rispetto a una figura d’intellettuale che ha veramente incarnato in sé, in un certo momento storico, la quintessenza del "progressismo", del "libertarismo", del "radicalismo" che furono le bandiere (sbagliate) del ’68 e dintorni, onde riportarla a più giuste proporzioni, e senza dimenticare che l’immenso chiasso mediatico, di cui egli si pasceva, pur atteggiandosi a vittima d’ingiuste persecuzioni, mise in ombra, in quegli anni e anche dopo (visto che creò lo stereotipo del "perfetto" intellettuale italiano, secondo categorie generali che divennero, da allora, irrinunciabili), altre voci, diversissime dalla sua, voci poetiche, voci narrative, voci cinematografiche, che passarono inosservate perché troppo contrastanti, nelle forme e nei contenuti, con la moda allora imperante. In altre parole, quel che vogliamo dire è che Pasolini fu assai meno rivoluzionario di quel che ritenne di essere; fu sempre dalla parte più facile della barricata, disse e gridò, sovente bestemmiando (in pubblico e in privato), quel che le masse politicizzate, come allora si diceva, amavano sentire; e che fu, come scrittore e come regista, assai più simile, moralmente e culturalmente parlando, ai borghesi che voleva scandalizzare, o, almeno, a come essi si rappresentava i borghesi: tutti ipocriti e abietti, dal primo all’ultimo, tormentati da pulsioni oscene e inconfessabili: le sue voglie sfrenate, le sue pulsioni indicibili, egli le attribuiva a un nemico di classe, mostruosamente deformato secondo i più vieti stilemi ideologici, mentre, in realtà, era con se stesso che stava pugnando, ma senza avere il coraggio, la chiarezza e l’onestà di riconoscerlo e di confessarlo (come dal libro di D’Aronco ben traspare).

Pasolini fu un groviglio di contraddizioni, un uomo dolente, lacerato, che credeva di essersi liberato dal senso di colpa solo perché aveva imparato a esibire, con la massima sfrontatezza, la sua diversità e la sua attrazione per i ragazzi di vita minorenni; un uomo accecato dall’orgoglio e dal narcisismo, sempre sulla ribalta, senza mai concedersi — e concedere — un po’ di silenzio, una pausa di riflessione o di ripensamento. Il suo dramma umano merita rispetto, ma nessun rispetto è dovuto alla funzione pedagogica negativa che egli esercitò nel corso della sua vita e della sua carriera: né verso i ragazzi che materialmente avvicinava, a partire dai giovinetti di Casarsa, né verso i milioni di lettori dei suoi libri e di spettatori dei suoi film, verso i quali egli operò, con incosciente e quasi satanica perseveranza, una vera e propria corruzione morale e intellettuale. E non ci riferiamo, ovviamente, solo alle oscenità sessuali, alla continua indigestione di pornografia che cui egli sottoponeva il suo pubblico, ma, più in generale, al capovolgimento di tutti i valori, alla sua pretesa di far diventare giusto e lecito e buono ciò che è sbagliato, illecito e cattivo, sfruttando la sua fama e la moda, allora imperante, di plaudire a chi distrugge, a chi deride, a chi bestemmia, non a chi parla con la voce del buon senso, dell’intelligenza e della responsabilità. Pasolii è stato un cattivo maestro, e il peggior nemico di se stesso. Bisogna pur dirlo: anche se spiace parlare così dei morti…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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