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30 Luglio 2015Un libro, se lo si sa leggere, è significativo non solo per quel che dice, ma anche per quel che non dice: per i suoi silenzi, per le sue omissioni, che sottintendono, il più delle volte, un preciso contesto ideologico e una serie di scelte di metodo, oltre che di contenuti.
In particolare, le pagine e i capitoli mancanti ci segnalano quel che l’autore ha ritenuto irrilevante, e, in base all’impostazione complessiva, quel che giudica, invece, essenziale: in altre parole, l’assenza di determinati riferimenti e di determinati contenuti c segnala il grado di autonomia, o meglio, il grado di sudditanza di quel libro rispetto alla cultura dominante.
La cultura oggi dominante ha stabilito, con la stessa nettezza con cui lo stabilivano, un tempo, le inquisizioni e gli indici dei libri proibiti, ciò che si deve sapere, ciò che si deve pensare, ciò che è "politicamente corretto" e ciò che, viceversa, non va preso in considerazione, oppure non va preso troppo sul serio, oppure ancora, non va approfondito, perché non lo merita: ed è essa, naturalmente, a stabilire quello che merita e quel che non merita di essere approfondito, di essere preso sul serio, di essere considerati "politicamente corretto".
Sembrerebbe di no, ma esistono, ancor oggi, le eresie, gli autori impronunciabili, i fatti da rimuovere, insomma tutte quelle cose che bisogna far finta che non siano mai esistite, o che bisogna far finto di aver chiarito una volta per tutte, giudicato una volta per tutte, stabilito una volta per tutte. La prova? La reazione isterica, aggressiva, rabbiosa che si scatena allorché qualcuno si prende la briga di riesaminare questi contenuti "proibiti", o rimossi, o etichettati in maniera definitiva: in particolare, l’accusa di "revisionismo" gettata in faccia a chi non si accontenta di prendere per buono e definitivo il giudizio della cultura dominante su una determinata cosa, ma ha l’ardire di riaprire vecchie pagine impolverate, di ridiscutere cose già archiviate, di proporre nuove interpretazioni rispetto a quel che si credeva di aver capito una volta per tutte.
Non si creda che questo discorso valga solo per la storia, e, in particolare, per la storia contemporanea: vale anche per la storia dell’arte, per la musica, per la filosofia, per la pedagogia, per lo sporto, per la televisione e il cinema, per la stessa scienza. E, naturalmente, per la poesia e la letteratura.
Ecco, appunto: prendiamo in mano una monografia qualsiasi, ad esempio la «Breve storia della letteratura spagnola» di Risa Rossi (Milano, Rizzoli, 1991), la quale, pur nella sua voluta sinteticità, ambisce di presentare un quadro abbastanza completo ed organico del percorso secolare di quella letteratura: tanto è vero che il sottotitolo, fin dalla copertina, precisa: «Dalla fine del Medioevo ai poeti degli anni ’90»; cioè fino al presente e, quasi, fino al futuro, visto che quel saggio è uscito al principio degli anni ’90 del Novecento.
A dire la verità, vien da chiedersi come facesse, l’Autrice, a trattare di quel che ancora non c’era o stava appena per iniziare: tipico esempio di smania della saggistica di essere "aggiornata", "al passo coi tempi", che è uno dei segni distintivi del "politicamente corretto". Come dire che il passato conta poco, mentre il presente, bello o brutto che sia, conta moltissimo, per il semplice fatto che è presente, ossia che è "moderno": perfettamente in linea con la filosofia del progresso proclamata dall’Illuminismo e santificata, successivamente, da tutte le culture neo-illuministe che sono confluite a formare la cultura oggi dominante in Europa: relativista, storicista, razionalista, laicista, materialista, empirista, utilitarista, e così via.
Sfogliando il libro, anzi, già scorrendo l’indice, ci si accorge che la prima impressione era quella giusta: poco o nulla c’è, in effetti, del Medioevo (età buia e superstiziosa, come è noto e definitivamente stabilito, e come illustrano i romanzi di scrittori politicamente corretti come Umberto Eco); quattro capitoli su un totale di undici, in compenso, sono dedicati al solo Novecento (ma uno solo all’Ottocento).
Almeno, penserà il lettore, si troveranno molte cose riguardo ai tempi moderni; invece — sorpresa! — la scelta operata dall’Autrice è estremamente selettiva, mancano del tutto, o sono appena accennati, autori e movimenti di notevole importanza; mentre interi capitoli sono dedicati ad autori che, in effetti, non ci si aspetterebbe nemmeno di trovare in una stria della letteratura (quello di Francisco Goya, per esempio, al quale va un intero capitolo). Perché qui sta il punto: chi decide cosa è importante e cosa lo è di meno, o non lo è affatto? In teoria, uno storico dovrebbe esporre quanto più materiale possibile, e lasciare al lettore di fare le sue valutazioni di merito; uno storico — e dunque, anche uno storico della letteratura — non è un critico, non deve giudicare: deve esporre la materia, nel modo più obiettivo possibile. Ma così non è.
Lope de Vega e Tirso de Molino, due dei nomi più prestigiosi del "siglo de oro", due pietre miliari del teatro spagnolo, sono appena nominati, quasi di sfuggita. Proviamo con l’Ottocento, allora: forse saremo più fortunati. No, nemmeno: tutto il XIX secolo si riduce a due soli nomi, anzi, a due sole opere: Benito Pérez Galdós per il romanzo «Tristana» (reso celebre dalla trasposizione cinematografica di Luis Bunuel, con la conturbante interpretazione di Catherine Deneuve) e Leopoldo Alas, noto con lo pseudonimo di Clarín, per «La Regenta». Del Romanticismo, niente; del massimo poeta romantico spagnolo, José de Espronceda y Delgado, niente (tranne un’unica citazione, assolutamente di sfuggita). Strano. Sarebbe come scrivere una storia della letteratura italiana senza dire nulla di Leopardi o di Manzoni.
Magari, pensiamo, saranno trattati più ampiamente autori non troppo appariscenti, ma che hanno esercitato un influsso indiretto sulle generazioni successive. Questo, per l’appunto, è il caso di Ángel Ganivet, filosofo e romanziere, morto suicida nel 1898 e considerato, appunto, il precursore della famosa "generazione del ’98". Si parlerà molto di lui, allora; o, almeno, se ne parlerà abbastanza. Niente affatto. Di nuovo: Ganivet è citato, sì, ma alquanto di fretta, e solo, appunto, in quanto precursore del movimento successivo; in particolare, come riferimento ideale di Miguel De Unamuno. Sarebbe come – se ci è consentita questa comparazione con la letteratura francese – ricordare il nome di Baudelaire solo e unicamente quale precursore dei simbolisti: di Verlaine, Rimbaud e Mallarmé. Un po’ troppo poco, ci sembra.
Alla svolta fra Otto e Novecento, cerchiamo qualche traccia di Armando Palacio Valdés: un romanziere che ebbe fama non piccola, in Spagna e fuori, quale scrittore di timbro naturalista, ma con accenti e sfumature delicatamente intimistici, soffusi di malinconia e di benevolo, umanissimo pessimismo esistenziale. Romanzi come «Marta y Maria» (1883) e «La hermana San Sulpicio» (1889) hanno avuto molti lettori e molti ammiratori e si leggono ancora volentieri, anche se — questo è certo — non brillano per profondità, né presentano aspetti specificamente "moderni": niente cerebralismo, niente nevrosi, niente nichilismo, niente eroi negativi, niente male di vivere. Sarà per questo che egli non piace a Risa Rossi? Sta di fatto che il povero Palacio Valdés non è neppur nominato: passato sotto silenzio, al cento per cento. Come non fosse mai esistito.
Cos’è che può dare tanto fastidio, in uno scrittore come lui? Dovendo procedere per ipotesi, ci domandiamo se, per caso, non sia proprio la sua bonarietà, la sua indulgenza, il suo guardare con simpatia ai propri personaggi, la causa di tanto ostracismo. Certo, la cultura dominante ci ha abituati a tener conto di altri criteri: si pensi al caso, per le lettere nostrane, di scrittori come Carlo Emilio Gadda, o come Alberto Moravia, che hanno fatto del disprezzo per l’uomo (specialmente il primo), del disgusto per l’umanità in quanto tale, la cifra della loro opera: è questo che li ha resi celebri, il fatto di illustrare a meraviglia il sentimento oggi imperante, fra gli intellettuali, nei confronti della natura umana? Oppure, per essere amati e apprezzati dagli storici della letteratura, bisogna essere ermetici, ardui, incomprensibili? Bisogna scrivere poesie illeggibili e indecifrabili, come quelle di Andrea Zanzotto? Allora, è chiaro, scrittori come Palacio Valdés sono tagliati fuori in partenza: hanno la gravissima colpa di essere chiari e facilmente comprensibili, che si somma alla coppa principale di non essere odiatori e spregiatori dei loro simili.
Sempre restando nel’ambito dell’Ottocento, proviamo a vedere se c’è qualche riga dedicata a Fernán Caballero, pseudonimo di una notissima scrittrice della generazione romantica, ma dai toni già quasi naturalisti, il cui vero nome era Cecilia Böhl de Faber y Larrea (ma ben pochi la conoscevano con questo nome). Fernán Caballero ha scritto parecchi romanzi di successo; inoltre è una donna, e — pensiamo . una storia della letteratura spagnola scritta da una donna, forse sarà propensa a valorizzare questa presenza femminile, in un universo quasi tutto maschile. Niente da fare, nemmeno questa volta: silenzio assoluto. Il suo nome non c’è, semplicemente. Ci sorge — anche stavolta — un sospetto, diciamo così, politicamente molto scorretto: si tratta di una scrittrice di formazione cattolica, nei cui libri la morale cattolica appare evidente, così come la prospettiva generale della vita. Che sia stata "punita" per questo? Eppure la società spagnola è stata, più di ogni altra in Europa, forgiata e modellata dal cattolicesimo; la sua cultura, almeno fino al Novecento, è impensabile, a prescindere dal cattolicesimo delle masse e della stessa classe dirigente. Espungere gli scrittori più marcatamente cattolici da una panoramica storica di quella letteratura significa tradire lo spirito di quella, e condannarsi a capire poco della Spagna, non solo dei suoi scrittori e delle sue opere letterarie.
Potremmo continuare: crediamo che basti. Ce n’è abbastanza per chiudere le pagine del libro, rimanendo delusi e pensierosi. È possibile fare della storiografia letteraria, ignorando del tutto quegli autori, quelle tendenze che, evidentemente, non piacciono allo storico? Avremmo pensato che ciò sia possibile solo nei regimi totalitari: e sappiamo bene, per esempio, cosa ne pensasse la cultura letteraria "ufficiale" sovietica, di scrittori come Bulgakov, come Pasternak o come lo stesso Dostoevskij: li vedeva come fumo negli occhi, li ignorava quando poteva, li sminuiva quando non poteva ignorarli; sempre, comunque, cercava di metterli sotto una luce negativa, di mostrare quanto le loro opere fossero intrise di narcisismo piccolo borghese, di meschini pregiudizi anticomunisti. Non avremmo creduto che, sotto il cielo della libera Italia, repubblicana e democratica, nata dalla Resistenza e ispirata al concetto della massima tolleranza e della massima apertura, fossero in opera simili meccanismi di selezione, distorsione, censura ideologica.
A volte, la maniera in cui è fatto un libro che parla d’altri — della letteratura spagnola, per esempio — ci dice molto, moltissimo su come vanno le cose della cultura in casa nostra. Quanti signori del politicamente corretto siedono sulle cattedre universitarie, firmano le pagine culturali sulla stampa quotidiana, tengono affilatissime e applauditissime conferenze pubbliche, sponsorizzate da zelanti amministratori pubblici o magari, addirittura, da qualche ministero? Quanto viene manipolato il fatto culturale, nelle loro mani faziose? Fino a che punto dobbiamo aspettarci che i fatti vengano piegati a seconda della Vulgata dominante e politicamente corretta? E se dobbiamo aspettarci questo da parte dei cosiddetti specialisti, se dobbiamo stare in guardia quando si parla di persone e situazioni del passato e di Paesi stranieri, che cosa non dobbiamo aspettarci quando si parla del presente, e del presente del nostro Paese?
Il fatto è che viviamo cullandoci, con leggerezza non del tutto inconsapevole, nella dolce illusione di essere protetti da un sistema politico fondato sulla libertà, e, dunque, di avere a disposizione una, diciamo così, offerta culturale, se non sempre di primissima scelta, quanto meno seria, obiettiva, attendibile. Ma le cose stanno altrimenti. La nostra democrazia è diventata, ogni giorno di più, qualcosa di simile ad una democrazia totalitaria: predica la libertà a parole, si compiace di presentare se stessa come la più aperta, la più trasparente possibile, mentre invece essa è dominata da poteri occulti, di natura economica e finanziaria, che piegano ogni cosa, cultura compresa, ai loro fini ed ai loro interessi. Molti intellettuali non se ne rendono conto; altri lo sanno, ma si guardano bene dallo sputare nel piatto ove mangiano. La verità è che il nostro Paese, e non esso soltanto, ma ormai tutta l’Europa e quello che un tempo si autodefiniva "mondo libero", gode di un effettivo livello di libertà culturale paragonabile alla Romania di Ceausescu e, forse — ma, si badi, forse — appena un poco meno opprimente e meno addomesticato della Corea di Kim il Sung.
Queste cose, ad ogni modo, chi le vuole vedere, le vede; chi le vuole capire, le capisce; e chi no, no.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels