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29 Luglio 2015Verso il 45 a. C., due ani prima di morire tragicamente sotto i colpi della vendetta di Marco Antonio, Cicerone si ritira nella sua villa di Tusculum — sui Colli Albani, a breve distanza da Roma – e vi compone i cinque libri dell’opera filosofica che si può considerare come il suo testamento intellettuale e spirituale: le «Tusculanae Disputationes», in forma dialogica, nelle quali pone a se stesso le domande supreme sul senso della vita, sul dolore, sulla morte, sulla virtù.
Il suo animo è profondamente esacerbato: la morte del’amatissima figlia Tullia (la quale prediligeva, appunto, i soggiorni in quella villa di famiglia), la sconfitta di Pompeo, il suicidio di Catone e l’instaurazione della dittatura di Cesare; il crollo, inoltre, delle proprie ambizioni politiche e, insieme ad esse, delle speranze da lui riposte nella Repubblica e nella libertà del Senato, tutti questi eventi lo hanno colpito sino in fondo all’anima, lo hanno turbato, gli hanno fatto quasi smarrire il gusto stesso della vita, oltre al significato della sua missione di uomo di cultura.
Perché si vive, perché si muore? Come deve comportarsi il saggio, quando gli artigli del dolore lo afferrano e lo straziano in profondità, mettendo a nudo la sua stessa anima? E la virtù, è davvero sufficiente a restituire fiducia e speranza nella vita, è davvero premio bastante a tutte le amarezze, a tutti i sacrifici che si sopportano per restare fedeli ad essa? Cicerone si pone angosciato queste domande, e cerca affannosamente delle risposte: non si può dire che le abbia realmente trovate, né — tanto meno — che in quest’opera egli abbia mostrato una vera originalità di pensiero; eppure si tratta di un libro importante, perché intimamente sofferto: in esso, più che in qualsiasi altro, Cicerone interroga la filosofia per trovare una risposta al travaglio più doloroso e lacerante che possa colpire un essere umano, allorché egli dubita, contemporaneamente, del proprio destino terreno e del destino della sua patria.
Ha scritto Nino Marinone a proposito di quest’opera ciceroniana (in: Antonio La Penna, «Scrittori latini», Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1977, vol. 3, pp. 54-55):
«Il primo libro, in cui si pone il quesito: "la morte è un male?", presenta un’ampia trattazione centrale sulla natura dell’anima (§ 18-81): solo dal concetto che se ne ha, infatti, può scaturire una risposta conveniente all’interrogativo di fondo. Le dimostrazioni dell’immortalità dell’anima, dedotte dalle testimonianze religiose delle genti fin dagli albori della civiltà e confermate dalle prove metafisiche della filosofia, come pure, all’opposto, le teorie che ne sostengono la mortalità, consentono in ogni caso di negare che la morte sia un male. Essa è infatti addirittura un bene, come per Socrate, se si crede all’anima immortale; né può essere un male, se, riconosciuta l’anima mortale insieme col corpo, la morte si riduce alla situazione pre-natale della non-esistenza.
Nel secondo libro è posto l’interrogativo "se il dolore sia il più grande dei mali". Confutate polemicamente quelle teorie che per debolezza intrinseca ritengono che nel dolore consista il male supremo, e condannati i poeti che ritengono che svigoriscono l’animo umano mostrando gli eroi più forti in preda al dolore, si propone l’edificazione di una virtù che si erga al di sopra di ogni dolore. È dunque la filosofia, e precisamente quella che fa consistere nell’onestà il sommo bene, la guida più sicura alla fortezza: essa offre i rimedi razionali che consentono di vincere il dolore o di renderlo sopportabile in ogni circostanza. Se poi il dolore è veramente intollerabile, al sapiente sarà sempre possibile l’estrema liberazione nel suicidio.
Il terzo libro […] svolge la questione: "il sapiente va soggetto all’afflizione?". In realtà tutte le passioni sono una manifestazione di insania, ed il sapiente per la sua stessa definizione deve esserne esente; ma l’afflizione è un turbamento così grave che richiede una trattazione particolarmente accurata (§ 7-11). Si procederà quindi ad una dimostrazione schematicamente logica secondo la maniera degli Stoici, a cui farà seguito uno sviluppo oratorio della trattazione (§ 12-13). L’afflizione esclude fortezza, retta ragione, temperanza, e comporta collera, compassione, invidia: ora il sapiente è dotato di ogni virtù ed è esente da ogni vizio; quindi non va soggetto all’afflizione (§ 14-21). Questa è la logica troppo concisa degli Stoici, che occorre ampliare con un’esposizione adeguata all’importanza dell’argomento. L’afflizione è una malattia causata dall’opinione nuova di un grande male presente, per cui si ritiene doveroso affliggersi. In effetti risulta dagli esempi più famosi che un male imprevisto sembra maggiore, e quindi bisogna essere pronti ad ogni eventualità (§ 22-31). È falsa la tesi di Epicuro secondo cui, l’afflizione essendo inevitabile, è inutile prepararsi nella sua previsione e a lenirla giova solo rievocare i beni passati: prevedere un male significa mitigarne l’effetto, e riandare con il pensiero ai piaceri passati non serve a nulla, come è dimostrato dagli esempi pratici, contro cui urta la morale di Epicuro. Secondo i Cirenaici l’afflizione consiste solo nel fatto che la sventura giunge improvvisa: invece questo ne accresce solo l’apparenza, poiché il tempo e la riflessione diminuiscono l’intensità del dolore. Quindi il miglior sistema per alleviare l’afflizione come opinione di un male è l’enumerazione degli esempi altrui congiunta all’impiego della ragione e all’azione del tempo, ed ha torto Carneade che ne nega l’efficacia (§ 32-61). Quanto all’idea di doverosa soggezione con cui si cede all’afflizione, essa dipende esclusivamente dalla volontà, tanto che un’emozione violenta o l’abitudine al dolore impediscono la manifestazione dell’afflizione, come dimostrano innumerevoli esempi. Non è quindi accettabile su questo punto la dottrina peripatetica che considera l’afflizione come un fenomeno naturale e ammette le passioni mediocri. In conclusione, bisogna attenersi alla definizione stoica dell’afflizione, come opinione volontaria, e su questa base applicare i metodi più adatti per ottenere la consolazione nei singoli casi (§ 61-79). Si è trattato della forma più grave di afflizione; a maggior ragione gli stessi rimedi giovano per le altre più lievi (§ 80-84).
Il tema centrale del quarto libro è dichiarato nel quesito "il sapiente va soggetto agli altri turbamenti dell’anima?". L’esposizione, come nel terzo libro, si fonda sulla concezione accademico-peripatetica dell’anima nelle sue componenti, razionale e irrazionale, ma stoica è la dottrina delle passioni, distinte in quattro specie: l’opinione di un bene produce l’eccessiva letizia se il bene è presente, la brama sfrenata se è futuro; l’opinione di un male produce l’afflizione se il male è presente, il timore se è futuro. Se il saggio è esente dall’afflizione, che è la passione più grave, non sarà soggetto neppure alle altre perturbazioni dell’anima, che tutte dipendono dall’opinione e dalla volontà. Questa tesi è sviluppata in un ampliamento oratorio in cui si sottolinea che il "sapiens" è esente dalle passioni in quanto sapienza è equilibrio e armonia dell’anima, cioè l’opposto delle passioni: solo la filosofia offre i rimedi razionali contro i turbamenti, confermandosi unica guida nella vita.
"La virtù basta da sola a dare la felicità": è la tesi del libro quinto, che conclude l’opera. Viene sviluppato il principio stoico per cui virtù e felicità sono inseparabili, nel tentativo di superare le apparenti aporie delle concezioni accademiche ed epicuree intorno alla definizione del sommo bene. La conciliazione avviene nell’ambito della teoria platonica sulla virtù, intesa appunto come perfetta se tra i beni non vengono annoverati quelli estrinseci del corpo e della fortuna. La virtù dà al sapiente piena soddisfazione del suo stato, e la ragione lo rende inattaccabile ai colpi di fortuna. Sicché tutte le scuole filosofiche si possono mettere d’accordo nel sostenere che il sapiente è sempre felice.»
Come si vede, e come abbiamo già accennato, le «Tuscolane» non brillano per originalità speculativa; anzi, si può dire che sono una sorta di rassegna, e quasi di centone, delle principali correnti filosofiche greche allora di moda nel mondo romano, riguardo alle problematiche che, allora, angustiavano una gran parte dei cittadini romani: l’angoscia del futuro.
Nondimeno, quest’ultima opera filosofica di Cicerone presenta un interesse genuino per il lettore d’oggi: sia perché noi stiamo vivendo una crisi di civiltà simile a quella che sconvolse il mondo romano a partire dall’età delle guerre civili; sia perché nelle angosciose, impellenti domande che egli si fa circa il senso e il destino della vita umana e su come il saggio possa e debba affrontare le avversità che lo colpiscono, possiamo cogliere un’eco perenne, utile anche a noi per porci nella maniera giusta davanti alle prove cui la vita, prima o poi, ci sottopone.
Vorremmo quasi dire, senza alcuna cattiveria, che il dialogo ciceroniano è quasi un esempio "a contrario" di come vadano impostati i problemi della sofferenza, della morte, della virtù e della felicità: l’autore, infatti, impernia tutti i suoi ragionamenti (e tutti i suoi discorsi: magari si dimenticasse, almeno qualche volta, almeno per un poco, di essere un oratore, e si sforzasse di essere un filosofo!), su una pesante, metodica esposizione didattica di ciò che altri hanno detto su quei temi, quasi cercandovi una sorta di "tecnica" della salvezza contro i turbamenti dell’anima. Ma la filosofia, la vera filosofia, non è affatto una "tecnica" di questo genere: ecco una cosa che la mentalità romana, tutta basata sulla dimensione pratica e su quella giuridica, faceva terribilmente fatica a comprendere. No: la vera filosofia è pensare in grande, ossia pensare la totalità del reale: perché, una volta pensata la totalità, i singoli aspetti del reale acquistano un significato e trovano una collocazione in maniera assolutamente logica e naturale; ma, se tale operazione preliminare non viene fatta, essi rimarranno slegati ed eterogenei, posti l’uno accanto all’altro e, non di rado, l’uno contro l’altro: sì da complicare, invece di rendere più chiara, la lettura del reale.
Ora, pensare la totalità, significa pensare l’essere; e pensare l’essere, significa vedere la causa efficiente e la causa finale degli enti, nonché la relazione che lega gli enti fra di loro e che li lega, tutti quanti, all’Essere, ossia alla causa prima dell’essere di tutto ciò che esiste. E vedere e riconoscere tutto questo, significa anche vedere come la vita, la morte, la sofferenza, la virtù, sono gli stati e le modificazioni dell’essere degli enti, che cercano, ciascuno, il proprio equilibrio e il proprio fondamento: e che soffrono fino a quando non i hanno trovati, ma poi, avendolo trovati, entrano nella pace. Equilibrio e fondamento che risiedono là donde tutto riceve il primo movimento, e là dove ogni cosa aspira a ritornare: vale a dire, l’Essere.
Non ha senso, pertanto, domandarsi in che modo sia possibile resistere ai turbamenti dell’anima, o se la virtù sia premio bastante a se stessa: perché l’anima non è turbata dalle afflizioni che le vengono dall’esterno, ma dalla propria mancanza di equilibrio e dalla instabilità del proprio fondamento; e perché la virtù non è una tecnica per raggiungere la felicità, ma la felicità, al contrario, è la rivelazione della sola, vera, retta e giusta maniera di vivere: quella che confida nell’Essere, e non nelle forze limitate e imperfette degli esseri umani.
Ecco perché ha poco senso domandarsi se esistano delle tecniche per "allenarsi" o "prepararsi" agli eventi traumatici che possono minare la nostra serenità d’animo, e se realmente una sventura improvvisa sia più, o meno, devastante, di una sventura prevista da tempo. La verità è che noi non sappiamo come reagiremo, allorché l’impatto di eventi dolorosi arriverà a colpirci, magari nei nostri punti più sensibili; non son cose che si possano stabilire a tavolino: l’unica cosa certa è che esiste un abito di vita che ci rende più forti, ed uno che tende a indebolirci; ma la forza o la debolezza non sono semplicemente il risultato di una strategia, di un calcolo, di una tecnica.
Così pure, quando Cicerone pone la compassione fra le passioni che provocano turbamento e afflizione, insieme alla collera e all’invidia, mostra la sua totale incomprensione di come le passioni non siano un male in se stesse, ma a seconda di come sono filtrate dal’opinione e di come sono orientate dalla volontà. Il saggio, infatti, per essere veramente tale, non può non essere compassionevole, mentre questo, per Cicerone, è incomprensibile: quest’ultimo confonde la razionalità fredda e disumana con la saggezza, perché gli manca, come manca a quasi tutti i pensatori antichi, l’idea che la sofferenza non è un male in sé, ma che, al contrario, può essere la preziosa occasione affinché ci venga svelato il vero senso della vita, e ci sia data la possibilità di trasformarla, assumendola volontariamente e serenamente, nel suo contrario: l’offerta di amore che rende bella e luminosa e felice ogni cosa, ogni esperienza ed ogni situazione. Altro che chiedersi se il tempo cancelli o no le ferite dell’anima: queste non vanno cancellate, ma, piuttosto, trasfigurate…
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