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Ne «Il sogno del pastore» di Grazia Deledda traluce una profonda verità morale

C’è un racconto di Grazia Deledda, intitolato «Il sogno del pastore» (o anche «Il nonno»), pubblicato sulla prestigiosa rivista «La Nuova Antologia» di Roma, nel 1909 — dunque parecchi anni prima di ricevere il premio Nobel, che vinse nel 1926 — il quale tratta, con notevole delicatezza e finezza psicologica, una profonda, ma misteriosa e quasi inafferrabile, verità morale: se, cioè, noi siamo responsabili, oppure no, del contenuto dei nostri sogni, quando si tratti di sogni nei quali commettiamo qualche cattiva azione a danno del prossimo.

Quando pubblica «Il sogno del pastore», Deledda non ha ancora scritto il suo capolavoro, «Canne al vento», epopea e saga familiare incentrata sui temi della colpa, del sacrificio e del riscatto, he apparirà solo nel 1913; tuttavia ha già intrapreso il suo personale cammino di emancipazione dal Verismo verso il Decadentismo o, se si preferisce, da una maniera ancora in gran pare naturalistica di guardare all’uomo, alla vita e al mondo, ad una maniera assai più complessa e problematica, più spirituale, più religiosa, che si può ben definire "simbolista" e che si incentra sul senso del mistero celato al fondo delle cose, oltre la realtà apparente e visibile.

Il racconto – sulla scia di quel "realismo magico" che ci suggerisce di istituire una parentela spirituale fra l’Autrice e alcuni scrittori posteriori (la Deledda è nasce nel 1871 e muore nel 1936), come Massimo Bontempelli (1878-1960), Tommaso Landolfi (1908-1979), Carlo Sgorlon (1930-2009) e perfino il colombiano Gabriel Garcia Marquez (1927-1914) — è straordinariamente poetico, soffuso di una atmosfera dolcemente sospesa, onirica, appunto, e ci intriga con un "incipit" degno delle fiabe per bambini di Guido Gozzano: «È la notte di Natale, ma sembra una notte d’autunno, fresca e diafana. La luna illumina la pianura solitaria. Un corso d’acqua, qua largo, là stretto, serpeggia fra le stoppie nere, e sparisce luccicando all’orizzonte, ove pare che vada a gettarsi silenzioso in un mare di vapori azzurri, in un vuoto lontano. Sono le prime ore della notte. Il pastore guarda le greggie pascolanti.»

Non possiamo, ovviamente, riportarlo tutto; pertanto ci serviamo del riassunto che ne fa il poeta, narratore e saggista sardo Francesco Masala (1916-2007) in un saggio intitolato «Rilettura antropologica di un racconto della Deledda: "Il sogno del pastore"» (in: «Grazia Deledda nella cultura contemporanea», Nuoro, Consorzio per la pubblica lettura "S. Satta", 1992, pp. 313-316):

«Un pastore barba ricino lascia i pascoli del suo villaggio montano e scende, per svernare, nella pianura del Campidano. È la notte di Natale. Le pecore brucano e camminano nella tanca deserta [la tanca, in sardo, è un terreno recintato destinato al pascolo delle greggi, nota nostra], camminano e brucano, gialle e nere, sotto la luna. Il cane rosso abbaia contro le stelle.

Il pastore, chiuso nel suo nero gabbano d’orbace, cammina dietro il suo gregge. Cammina e pensa: la moglie lontana, i figli lontani, la casa lontana, la sua malasorte nomade, solitaria, eremitana [sic].

Nella narrazione deleddiana, con lente dissolvenze,m fra alienazione e sogno, il magro pastore nomade fantastica di trasformarsi in un proprietario stanziale, ricco e grasso, dentro una bella casa, ricca e calda, con una moglie, bella e grassa, e con numerosi figli, belli entrassi, anche loro.

Si sta bene, dentro la casa, accanto al focolare, soffiando sul fuoco col bastone di sambuco e sputando ogni tanto sulla cenere. In casa c’è ogni ben di Dio: legna, grano, lardo, patate, noci, castagne e fagioli, belli, violetti, tigrati di nero. Ah, egli non dovrà più perdere i capelli a stare dietro le pecore! S’arrangi il servo! E se una sola pecora andrà smarrita, guai a lui! Questa, sì, che è vita, e non dover vivere lontano dalla famiglia, nella desolata pianura del Campidano.

Eppure, ci dev’essere un modo per porre riparo alla sua triste vita da nomade, ci deve essere un mezzo per realizzare i suoi sogni, "sos bisos".

Certo, un modo c’è. Ci ha pensato tutto il giorno. Vicino a lui, nella tanca limitrofa, c’è un ricco pastore campidanese, ieri ha venduto il suo gregge per darsi al commercio e tiene i soldi dentro una borsa, nascosta sotto una pietra, dentro la capanna. Si tratta di ucciderlo e portargli via i soldi.

Come ben si vede, i pensieri notturni del deleddiano pastore errante nel Campidano sono molto lontani dai pensieri notturni del leopardiano pastore errante dell’Asia: è proprio una questione di antropologia culturale.

Ed è, appunto, dentro i suoi pensieri notturni che il pastore barbaricino consuma il suo feroce delitto. Egli, come una volpe silenziosa, penetra nella capanna dove c’è il ricco pastore campi danese addormentato e lo strozzo. Poi, cerca, sotto la pietra, la borsa dei soldi ma, orrore!, dentro ci sono soltanto dei vermi bianchi, schifosi, brulicanti, che lo guardano con piccoli occhi verdi e maligni. Il delitto è stato inutile. Il pastore barba ricino, disperato, ritorna al suo gregge ma trova solo il suo cane rosso che abbaia rabbiosamente contro la luna. Le sue pecore sono scompare. Follemente, va alla loro ricerca e arriva al fiume. Cerca un guado nell’acqua ma finisce in un pozzo profondo. Non sa nuotare. Vorrebbe gridare ma non può… e si sveglia. Le sue pecore stanno tutte lì, gialle e nere, sotto la luna. È stato tutto un sogno, sogni, "bisos". Il sonno che partorisce mostri.

Ma il povero pastore barba ricino, svegliatosi dall’incubo, si vergogna di se stesso, come se fosse colpevole delle cose avvenute nel sogno. È come se avesse davvero commesso il delitto. Sente il rimorso, e vuole l’espiazione. E, in effetti, fa la sua penitenza: scanna una pecora e la offre al ricco pastore campi danese che voleva uccidere nel sogno. […]»

Arrivato a questo punto, Masala si lancia in una elucubrazione di tipo sociologico e politico, per sostenere, contro le pretese dell’antropologia culturale, o di certa antropologia culturale, che rimproverano alla Deledda di non aver visto la condizione dell’uomo pastorale sardo, ma di aver fatto del suo pastore il riflesso d’una condizione immobile, statica, fatta di atteggiamenti fantastici, contemplativi e consolatori. Egli si chiede perché i sardi arrivino a rimproverarsi perfino i delitti non commessi e successivamente, appoggiandosi a Gramsci (si capisce: in senso geografico e in senso ideologico), che la vera domanda da farsi è se siano la razza o l’ambiente a produrre pastori potenzialmente delinquenti; se, cioè, il pastore-bandito sia un fiore DEL male, oppure un fiore NEL male; e se il male sia il pastore o se sia l’accumulazione capitalistica dei ricchi, la smania verghiana della roba. Infine si perde nella rivendicazione regionalistica dei meriti misconosciuti della Deledda.

Quanto a noi, sono domande che non ci appartengono e questioni che ci interessano poco o punto; non solo: ma riteniamo che questa maniera, tipicamente marxista, d’impostare i problemi, costituisce un vero e proprio delitto di lesa maestà nei confronti dell’Autrice; che è, in parole povere, un autentico tradimento delle intenzioni e delle finalità con cui la Deledda ha scritto un racconto come «Il sogno del pastore», ma anche celebri romanzi, come «Elias Portolu» e «Canne al vento». Per la Deledda, il tema della colpa e della relativa espiazione è un tema assolutamente centrale e non nasce né da una trasposizione simbolica, né da un equivoco o da una inadeguata consapevolezza socio-politica; a differenza dei critici (e dei politici) marxisti, semplicemente ella non crede che il rimorso per le colpe commesse, e anche per quelle soltanto pensate o sognate (mentre Masala si limita a ribadire che si tratta di colpe NON commesse, il che è troppo poco e ignora o fraintende l’impostazione, e l’eventuale soluzione, che la Deledda vuole dare al problema), sia una sorta di proiezione onirica, mitica, religiosa d’un condizionamento ambientale che potrebbe venir meno, qualora vengano modificate le coordinate sociali e culturali dell’ambiente sardo.

Detto in parole ancora più semplici: per i critici progressisti e politicamente "impegnati", va da sé che la Deledda ha avuto delle intuizioni geniali, ma si è fermata al livello primitivo, soggettivo, sostanzialmente inconsapevole, del concetto di colpa: ha avuto, figuriamoci, la semplicità, o l’ingenuità, di figurarsi che ci sia qualche seria ragione per vergognarsi e provare rimorso circa una azione non commessa, ma soltanto sognata e forse, anzi, probabilmente, accarezzata e desiderata, sia pure in un momento di debolezza e di scoraggiamento; e non si è resa conto che, in un contesto ambientale rinnovato secondo criteri di giustizia economica e sociale, nessuno si sentirà più in colpa per aver desiderato la roba altrui, perché non ci saranno più ricchi che offendono, con il loro benessere, la disperazione dei poveri, ed il vero peccato, semmai, corredato dal suo bravo senso di colpa, sarà quello di accumulare roba superflua, secondo il noto adagio proudhoniano che «la proprietà è un furto» in se stessa.

Nossignori, la Deledda non era una marxista in potenza, non ancora toccata e illuminata dalla Grazia del nuovo vangelo comunista: era una scrittrice piena di spiritualità, di tormenti morali, di angosce derivanti dalla consapevolezza che la natura umana è invincibilmente portata verso il male, perché decaduta, ma che è anche, altrettanto invincibilmente, indotta a risalire verso la luce, anzi, decisamente attratta verso l’espiazione ed il Bene, perché è stata redenta, e redenta a caro prezzo, ma non da se medesima. Se si toglie alle pagine della Deledda l’elemento della cristiana "pietas", anzi della "caritas", intesa proprio come ciò che si contrappone diametralmente, e specularmente, alla malignità delle brame e delle azioni umane, non le si rende davvero un buon servizio: se ne travisa la prospettiva e si stravolge il suo messaggio.

Il pastore del racconto, dunque, si vergogna e si sente colpevole, al punto da sacrificare, come atto espiatorio, una pecora del suo povero gregge, ed offrirla al pastore ricco, immensamente più ricco di lui, non per un abbaglio, per una superstizione o per un immotivato e irragionevole senso di colpa, prodotto in lui da atavici complessi o, magari, da fuorvianti e strumentali messaggi religiosi del clero o dell’educazione cattolica ricevuta; niente affatto: si vergogna, prova rimorso e vuole espiare perché – indipendentemente dal fatto di essersi riconosciuto, da sveglio, intimamente solidale con quel che aveva sognato, e anche dal fatto di aver forse desiderato davvero di uccidere e derubare il suo vicino – la coscienza, testimone infallibile della sua verità interiore, gli ha rivelato che di quella azione lui sarebbe stato capace, che avrebbe potuto compierla.

Ecco il punto: il pastore non giudica che si sia responsabili solo delle azioni compiute, ma anche di quelle pensate, o desiderate, o immaginate e fantasticate; e non solo di quelle pensate, o desiderate, o immaginate e fantasticate, ma anche, e soprattutto, di quelle che ciascuno di noi sente, e sente con certezza infallibile, che sarebbe capace di compiere, e dunque che compierebbe senz’altro, solo che si presentassero le condizioni favorevoli. Ed è, questo, un sentire profondo, maturo, carico di saggezza, tutt’altro che un sentire "primitivo", "ingenuo" o "superstizioso". È la saggezza del popolo, delle persone più semplici, dei pastori, contrapposta, se si vuole, alla fredda razionalità delle persone colte, che hanno letto i libri e sanno, o credono di sapere, tante cose; le quali, impregnate di razionalismo e di positivismo, giudicano che solo dell’io cosciente noi siamo tenuti a rendere conto, come se il resto non significasse nulla, come se delle fantasie o dei sogni che facciamo, anzi, che abbiamo (si notino le astuzie del linguaggio), non meritasse neanche di parlare.

I popoli "primitivi", peraltro, danno molta importanza al sogno; non vi vedono, come i popoli "civili", una semplice proiezione di istinti repressi, ma un vero e proprio canale aperto verso l’Altra dimensione, quella della Verità. Ora, il pastore del racconto è senza dubbio un "primitivo". Il che non significa che egli sia uno stupido, tutt’altro; significa, semmai, che è più vicino alla dimensione metafisica, più disposto ad ascoltare la voce della coscienza, che – poi – è la voce del divino. In lui, come in altri indimenticabili personaggi deleddiani – come nel servo Efix di «Canne al vento», che ha ucciso involontariamente, per difendere la sua amata padroncina Lia, il padre di lei, e che si è poi votato incondizionatamente a proteggere ciò che resta della sua famiglia; e come nel protagonista di «Elias Portolu», che ha commesso adulterio con Maddalena, la moglie di suo fratello Pietro, e che si fa prete per espiare la sua colpa (mentre il figlio del peccato morirà piccolino, forse quale innocente vittima espiatoria – fortissimo è il senso del peccato, inteso come violazione non solo di una norma morale, ma di tutto un ordine esistenziale, così come è fortissimo, e concettualmente fondamentale, il bisogno di redenzione e la spinta dell’anima umana verso di essa.

Sì, noi non siamo del tutto innocenti di certi sogni: non perché abbiamo desiderato il male, ma perché possiamo desiderarlo. Siamo creature: eredi del peccato; eredi anche della vittoria su di esso.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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