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Lorenzo Magalotti, il Nilo, la scienza e il mistero

Tra le molte opere di quello spirito curioso ed eclettico e di quell’anima irrequieta, ma un po’ superficiale, che fu il conte Lorenzo Magalotti – nato a Roma nel 1637 e morto a Firenze nel 1712, accademico della Crusca e dell’Arcadia, segretario dell’Accademica del Cimento e universalmente noto specialmente per i suoi «Saggi di naturali esperienze», d’impostazione antiaristotelica e galileiana — fanno parte a sé le «Relazioni varie cavate da una traduzione inglese dell’originale portoghese», pubblicate a Firenze, inizialmente anonime, nel 1693.

Sono basate sulla versione inglese, fatta da P. Wyche, dei racconti relativi ai viaggi del gesuita portoghese G. Lobo, specialmente in Etiopia e in Egitto; ma il Malgalotti, spirito originale e forse un po’ balzano, non si limita a tradurre — peraltro conosceva benissimo l’inglese, il francese, il tedesco e altre lingue, avendo viaggiato per motivi diplomatici, al servizio del Granduca di Toscana, in tutta Europa, fino alla Svezia e alla Finlandia — ma aggiunge, modifica, inserisce altre fonti con molta libertà e disinvoltura, finendo per creare, in buona sostanza, un’opera nuova e originale, assai poco fedele all’originale.

Si tratta comunque di un’opera non priva d’interesse, anche se generalmente collocata dai critici fra le cose "minori" del Nostro, nella quale, fra un "excursus" sull’unicorno e sulla fenice, oppure sul prete Gianni e sulle cateratte del Nilo, o, ancora, sul pellicano e sull’uccello del Paradiso, il Magalotti mostra la sua ambivalenza nei confronti del misterioso, dell’insolito, del "mirabile" e del "mostruoso", particolarmente per quel che riguarda i prodigi della natura e le credenze ad essi relative presso i popoli lontani, e, dall’altro, il suo fondamentale scetticismo, la sua mancanza di autentico senso del mistero, il suo tendenziale materialismo, la sua affinità con l’atteggiamento filosofico di un Gassendi (tanto è vero che girarono voci, a un certo punto, sul suo supposto ateismo o, quanto meno, su una certa sua strana vicinanza alle posizioni del libertinismo: voci nei confronti delle quali il Nostro non si peritò di prende le sue tempestive contromisure).

Ammiratore viscerale dell’Inghilterra e della sua cultura, ma anche dell’Olanda e, in genere, dei Paesi dell’Europa settentrionale — cosa che non poteva non apparire sospetta, in lui, nipote di un famoso cardinale che aveva portato il suo stesso nome (1583-1637), in quanto inevitabilmente lo rendeva sospetto di simpatie protestanti -, il Nostro era anche un naturalista interessato un po’ a tutti i rami del sapere (un po’ meno in quello, all’epoca, probabilmente più seguito: l’astronomia; cosa strana, in un fervente ammiratore del metodo galileiano), dalla fisica alla linguistica, dalla teoria corpuscolare ella luce alla sinologia; e, nelle «Relazioni varie», non smentisce affatto la sua fama, anzi conferma la propria immagine di erudito onnivoro e grafomane, anche se poco originale come scienziato, semmai originale come letterato (fu anche poeta, narratore, epistolografo, traduttore di scrittori greci antichi e inglesi moderni, perfino dantista impegnato a commentare i primi cinque canti dell’«Inferno».

Il Magalotti, insomma, al mistero non crede, anche se è attratto e incuriosito dall’insolito, dall’abnorme, dal favoloso: e quale curiosità più grande di quella relativa alle sorgenti del Nilo, un enigma geografico che già aveva appassionato gli antichi, e che appassionerà ancora generazioni di studiosi e viaggiatori, per essere infine sciolto solo un secolo e mezzo più tardi, da Speke e Grant intorno al 1860, non senza contrasti, polemiche e dolorose incomprensioni. Crediamo di non andare molto lontano dal vero ipotizzando che il Nostro aveva una ragione tutta particolare, e quasi personale, per essere incuriosito dal Nilo e dal mistero delle sue sorgenti: il fatto che il suo illustre zio, il cardinale Lorenzo, era venuto in possesso del bellissimo mosaico di epoca romana (databile fra il II e i secolo a. C.), rinvenuto a Palestrina, l’antica Praeneste, grazie a un dono dell’abate Francesco Peretti, e che a sua volta lo aveva regalato a Francesco Barberini, nel 1635.

Ci piace riportare qualche passaggio delle «Relazioni varie» in cui Lorenzo Magalotti descrive la natura del grande fiume africano, i rami sorgentiferi – o quelli che crede essere tali: oggi sappiamo che il Nilo nasce dal Monte Gikizi, presso il Lago Vittoria -, una cascata che ne interrompe il corso, e una riflessione sul perché non si riesca a individuare con precisione le sorgenti, come esempio della inesausta curiosità intellettuale, geografica e naturalistica, in questo caso, del Nostro, nonché del suo duplice atteggiamento, di attrazione e di scetticismo, verso ciò che la scienza non appare ancora in grado di spiegare in maniera esauriente (contenuti nel libro di Nedda Sacerdoti, «In firmamentum iacta», Milano, Carlo Signorelli Editore, 1961, 159-162):

«…Sorgono queste due polle in un campo tutto coperto d’una folta e sempreverde boscaglia, regalo per avventura dell’acqua che vi sta sotto, come ne dà luogo a credere il tremare e il rintronar che si sente fare sotto ai piedi il terreno, particolarmente da chi vi va a cavallo. Da questo campo dunque che distendendosi in piano sulla sommità di un’alta montagna, insensibilmente discende, a mezzo la scesa, a mezzo un rialzamento di terreno tutto intrigato da una foltissima macchia, si scopre la maggiore delle due sorgenti, la quale a mala pena avviata a correre, incontrandosi par verisimile con le radiche della suddetta macchia, si perde. Il fondo dell’altra sorgente non è più che sedici palmi. […]

Quello però che c’è di più mirabile, e dirò anche di più dilettevole, è che l’acqua si scaglia dalla cima del dirupo con tal veemenza, che adattandosi in tutta la sua massa a formare un arco viene a lasciarsi sotto spazio bastante per un asciutto e delizioso passeggio; trovandovisi anche de’ sedili di pietra tagliati sul masso per quel più a suo bell’agio potersi fermare i viandanti a godere della più vaga e più bizzarra veduta che fantasia d’uomo si possa ideare, mercé i tanti e sì svariati riflessi che fa il sole nell’acqua, rallegrandovi e ricreandovi la vista con produrvi sotto gli occhi qua e là seminate l’iridi le più vivaci, le meglio colorite, le più accese che desiderar si possano. […]

Non sarà, credo, fuori di proposito il terminare questa relazione con un riparo, sia qual potesse essere la cagione che tutti quegli che sappiamo dall’istoria aver tentato la scoperta del Nilo riuscissero così poco fortunati. Non fu altera indebitamente se non che i discopritori si messero ad andar per terra, e contro acqua. Ora, come mai poter venire a capo del loro intento con sì immensa lunghezza, di cammino da fare, con tanti e sì diversi regni e province da attraversare, con moltitudini sì innumerevoli di barbari da incontrare, con arie così pestifere da passare? E a pretendere l’andar per acqua: come mai poter spuntare una corrente così precipitosa? e, dato che ciò fosse riuscito, come mai sormontar la prima cataratta, una volta che vi si fosse arrivato? Certo che senza l’avvedimento, a coloro non sovvenibile, di pigliare il nemico per fianco, l’impresa era irriuscibile, ché se avessero avuto notizia della comunicazione, che per via del mar Rosso potevano avere col paese degli Abissini, non è dubbio che da talune delle sue spiagge, con non più di due mesi di cammino, si sarebbe potuto condurre a rinfrescarsi nella tanto desiderata, tanto nascosa e tanto vantata sorgente.»

Curioso che poi proprio quella via – la via, cioè, partente dalla costa dell’Africa Orientale e diretta verso l’interno, anche se non all’altezza del Mar Rosso e dell’Etiopia, ma all’altezza dell’Oceano Indiano e del Tanganica — sarebbe stata scelta da Burton e Speke, indi da Speke e Grant e da tutti gli altri esploratori, come B. Waldecher, i quali giunsero a sciogliere l’enigma dell’origine del Nilo, evitando la duplice difficoltà di procedere per migliaia di chilometri lungo il deserto e di dover rimontare la corrente, cosa impossibile per la presenza delle grandi cateratte (che sono ben sei, fra Assuan e Bagrawiyah, anche se il Magalotti ne menziona solo una, evidentemente la prima).

A parte questo, la descrizione del Nilo e delle sue caratteristiche si colloca, da un punto di vista letterario, più vicino alla trattatistica antica (ad esempio, la «Naturalis historia» di Plinio il Vecchio), o alla narrativa antica (la descrizione del deserto egiziano nel «De magia» di Apuleio, o, ancora, alla epistolografia, sempre antica (come certe lettere di Plinio il Giovane, fra le quali la celeberrima descrizione delle fonti del Clitumno), che non alla descrizione scientifica in senso moderno; e pensiamo che via sia anche una reminiscenza del famoso mosaico "di famiglia".

Lo stile è piuttosto, ricercato, a volte perfino ampolloso, con qualche svolazzo rococò su di un impianto tutto sommato arcadico: certo si sente che Magalotti parla di luoghi non visti, ma conosciuti per via letteraria o mediante la descrizione di qualche viaggiatore; le fonti letterarie, tuttavia, prevalgono: i luoghi minuziosamente descritti hanno più il sapore di una pagina di letteratura o di una incisione a stampa, che di un paesaggio reale, direttamente scoperto e conosciuto: vi si stende sopra una patina di ricercatezza che si sforza d’essere fresca e viva, come nelle bellissime descrizioni di luoghi, di piante e animali contenute nella «Istoria della Compagnia di Gesù» di Daniello Bartoli, gran principe della prosa seicentesca, del quale, crediamo, il Nostro si sarà ricordato al momento di comporre la sua relazione.

Di suo, Magalotti mette in quest’opera una vena narrativa meno spontanea e meno felice, dunque meno avvincente, di quella ch’era stata propria di padre Bartoli, ma, in compenso, un intento classificatorio e uno scrupolo di esattezza di sapore già quasi illuministico, o, quanto meno, pre-illuministico (i suoi «Saggi di naturali esperienze fatte nell’Accademia del Cimento descritte dal Segretario di essa Accademia» erano stati pubblicati a Firenze nel 1667, mentre i venti saggi delle «Lettere scientifiche ed erudite», in forma epistolare, di cui otto di argomento scientifico-filosofico, sarebbero apparsi, sempre a Firenze, solo nel 1721, postume (a nove anni di distanza dalla morte dell’Autore).

La descrizione delle polle sorgentizie e quella della cascata, o meglio ella cateratta, del Nilo, vgliono essere due pezzi di bravura, nei quali l’Autore dispiega la sua arte per farci vedere, con gli occhi della mente, un luogo che i lettori non hanno mai visto, né mai vedranno; ma che, in verità, non ha mai visto neppure lui, cosa che lo porta, per certi aspetti, ad appoggiare il difetto di conoscenza diretta con attingendo più ampiamente alla tradizione letteraria, ivi compenso il classico "topos" del "locus amoenus", che qui, però, si colora di tinte più varie e più mosse, anticipando quasi, almeno in parte, la categoria romantica del sublime, inteso come sintesi di maestosa bellezza e di orrida minaccia. L’uomo, nella descrizione del Magalotti, si fa piccolo, appare come una presenza fisicamente trascurabile; però la sua ansia di conoscenza e la sua potenza d’indagine lo fanno grande, abbastanza grande da porsi di fronte ai misteri della natura con un atteggiamento audace e risoluto, mosso da una "curiositas" che ormai è essenzialmente laica e immanentista, se non proprio materialista o "gassendiana".

Anche la riflessione intorno alle cause del fallimento di tutte le spedizioni che hanno cercato di chiarire il mistero del Nilo e di individuare le sorgenti del fiume, si colloca in una prospettiva di tipo schiettamente razionalista, e la questione è posta e affrontata come un problema di ordine logico, dunque con il massimo della linearità, della economicità, della semplificazione: invece di andare incontro a immense difficoltà per la via diretta e solo apparentemente più facile,m quella del fiume stesso, aggirare l’ostacolo e colpirlo sul fianco (qui il linguaggio è preso a prestito dall’arte militare), sì da ridurre al minimo indispensabile la distanza da affrontare e da semplificare al massimo, per conseguenza, i problemi di ordine logistico. Non sempre la linea più breve fra due punti è una retta, sembra dire il Nostro: a volte, la linea che appare più breve sulla carta si rivela più lunga, o addirittura impraticabile, se non si tiene conto della natura del terreno, delle popolazioni da incontrare — e da affrontare: popolazioni barbare, dunque realmente o potenzialmente ostili — e dei tempi che, per conseguenza, tendono ad allungarsi in maniera smisurata e imprevedibile. Dunque, è sbagliato partire per la via più semplice, senza prima fare un ragionamento complessivo: non ci può affidare all’improvvisazione e alla sola buona volontà; è questione di logica e di organizzazione: solo così si possono superare gli ostacoli d’un continente sconosciuto.

Magalotti, come scrittore-naturalista, ci si rivela, in effetti, una figura intermedia fra lo scrittore seicentesco, che sottomette l’etnografia, la botanica, la zoologia all’incanto della parola e alla creazione di un’atmosfera suggestiva e stupefatta, e il "philosophe" settecentesco, il quale, infranta ogni soggezione verso il reale e sicuro della sua ragione, della sua scienza e della sua "religione" del progresso, avanza (o, magari, crede di avanzare) a grandi passi verso il disvelamento del mistero e la spiegazione razionale del mondo. In lui c’è, sì, un senso di stupore: ma più lo stupore di Galilei, fremente d’orgoglio e fiducia in se stesso, che quello di Bartoli, che si sente piccolo davanti a Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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