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Il cammino del dolore diviene un valore per chi sa trasformarlo in cammino d’amore

Il dolore, nella vita, c’è: prima o poi arriva, senza fallo: non è pensabile una vita umana, per quanto fortunata, alla cui porta non abbia bussato quest’ospite indesiderato.

Di conseguenza, tutte le strategie volte ad allontanarlo, a rimandarlo, a posticiparlo; o, magari, ad esorcizzarlo, ad ignorarlo, a tacerlo, come se tacendolo lo si potesse anche far sparire dal proprio orizzonte, sono tentativi inutili e controproducenti: ciò che viene scansato oggi, ritornerà con maggior forza domani. Non è fatalismo, non è pessimismo, non è rassegnazione: è realismo, pura e semplice esperienza di vita. Non si litiga coi fatti: e i fatti dicono che il dolore è una presenza ineliminabile dalla vita umana, anzi, dalla vita in generale. Pertanto, il problema non è, o non dovrebbe essere, quello di combattere contro il dolore, ma, piuttosto, quello di imparare a collocarlo nella giusta prospettiva, vale a dire quello di viverlo in maniera adeguata, in maniera, appunto, umana.

Se il dolore è un elemento ineliminabile dalla vita umana, compito degli esseri umani è imparare a gestirlo, ad affrontarlo nel modo migliore, cioè in quel modo che possa portare ad un aumento, e non a una diminuzione, della propria umanità; ad un arricchimento, e non ad un impoverimento, di essa; ad una crescita e ad una apertura di orizzonti, non a un rimpicciolimento esistenziale e ad un restringimento degli orizzonti. Tutti gli elementi che costitutivi della vita umana dovrebbero essere vissuti e rielaborati in maniera tale da rafforzare, accrescere e potenziare la vita stessa; il dolore svolge, o dovrebbe svolgere, questa funzione in maniera speciale, in maniera radicale, proprio perché si tratta di un elemento sgradito e negativo per definizione. Imparare a vivere il dolore nella maniera giusta significa aver superato la prova più importante: chi vi riesce, a maggior ragione avrà imparato a vivere gli altri elementi fondamentali, ossia, in definitiva, avrà imparato ad amare la vita nella maniera giusta.

Pretendere o aspettarsi che la propria vita scorre senza fare il temuto incontro con il dolore, non sarebbe realistico e non sarebbe umano. Eppure molti lo fanno, e così giungono del tutto impreparati all’appuntamento. In un certo senso, si tratta di un appuntamento cui tutti giungiamo un po’m impreparati, perché il nostro istinto fondamentale è un istinto di vita, non di morte, e il dolore, inevitabilmente, almeno nel primo e devastante impatto, si presenta come un elemento contrario alla vita, e dunque, in qualche modo, ci appare innaturale. Secondo natura, noi saremmo chiamati alla felicità; però la natura tutta, e non solo la natura umana, non è una natura di per se stessa buona, bensì ferita, ferita da quel che i teologi cattolici chiamano peccato: e la natura, ferita dal peccato, è incapace di giungere alla felicità cui pure tenderebbe.

Da ciò nasce la nostra intima contraddizione: sentiamo di essere chiamati alla pienezza, alla vita, alla felicità; ma constatiamo, anche, che tali mete ci sfuggono continuamente, e che ci vengono incontro, incessantemente, giorno dopo giorno, errori, debolezze, insufficienze, colpe (nostre e altrui), dai quali deriva una messe abbondante di sofferenza, di dolore. È importante notare questo: il dolore non è un elemento auto-sussistente; è una presenza, che si serve di determinati fatti e situazioni per entrare nella dimora del nostro essere: dunque non è una realtà oggettiva, ma soggettiva. Dipende da noi; o, per parlare in maniera più esatta, dipende da noi che spazio dargli, che importanza concedergli, che potere affidargli sulla nostra vita. Dipende da noi consentire che diventi il nostro tiranno implacabile, oppure che si trasformi in un elemento di crescita, di espansione, di perfezionamento del nostro essere.

Quindi, il dolore non è affatto un valore in se stesso:; se viene vissuto in maniera totalmente negativa, come impoverimento, come diminuzione dell’essere, come sciagura inspiegabile e incomprensibile; se viene vissuto con rabbia, con astio, con rancore nei confronti della sorte, o degli altri, della vita; se viene vissuto con insofferenza, con ribellione, mostrando i pugni a Dio, il dolore diventa il dis-valore per eccellenza: ciò che ci degrada dalla nostra condizione, ciò che umilia e depaupera il nostro essere.

Per diventare un valore, ossia un elemento dotato di senso, e precisamente di senso positivo, è necessario che noi lo viviamo in un certo modo, con una certa disposizione di spirito, con una certa apertura dell’anima: bisogna che lo accettiamo, che lo accogliamo, che lo benediciamo, o meglio, che benediciamo i fini misteriosi, ma provvidenziali, per cui ha bussato alla nostra porta, ha sconvolto la nostra esistenza, ha rimesso in discussione le nostre abitudini, le nostre certezze, le nostre sicurezze, sovente illusorie e superficiali.

Come ciò sia possibile, dipende dal percorso esistenziale di ciascuna anima; percorso che non è possibile fare interamente da soli, ma solo con l’aiuto, il sostegno, l’incoraggiamento che viene dall’Alto; e che viene se esso è accettato, riconosciuto, accolto: altrimenti, se non viene né accettato, né riconosciuto, né accolto, tale aiuto, per noi, è come se non vi fosse, anche è lì, alla portata della nostra mano: e noi siamo abbandonati alla totale solitudine, che coincide, presto o tardi, con la totale impotenza, Noi, da soli, non possiamo fare niente; con l’aiuto che viene dall’Alto, possiamo fare quasi tutto.

Tutto questo è radicalmente in contrasto con la cultura antropocentrica, edonistica e razionalista oggi imperante. Antropocentrica: che punta a fare dell’uomo il solo artefice di se stesso; edonista: che bandisce il dolore e proclama il principio esistenziale del piacere; razionalista: che vorrebbe spiegare ogni cosa con criteri logici e scientifici, mentre l’esistenza stessa del dolore è un mistero, che va accettato come tale, sublimato, trasformato, ma che non può, né potrà mai essere interamente spiegato.

Non solo: tutto questo sembra, o può sembrare, terribilmente astratto, quasi disumano. Come dire a una madre che ha perso suo figlio, che deve accettare, accogliere e benedire il proprio dolore, o il progetto di cui quel dolore è parte? Come si può, onestamente? Ciò appare impossibile, con gli strumenti concettuali odierni e con la prospettiva antropocentrica, edonista e razionalista oggi dominante, a tutti in livelli. Eppure si può; non solo: si deve. Tutto dipende dall’atteggiamento di fondo che si ha, o non si ha, nei confronti del reale.

Se si pensa che il reale sia sempre e comunque a nostra disposizione; se si pensa che, da ogni situazione, si possa e si debba ricavare un piacere o un utile immediato; se si crede che quel che non siamo capaci di spiegare, e tanto meno di accettare, sia assurdo, scandaloso, ingiusto, allora non arriveremo mai a compiere questa operazione sublime: trasformare il cammino del dolore in una scoperta di senso, e più precisamente in un cammino di amore.

Se non è accettato, accolto, benedetto, il dolore diventa una maledizione; ma non è detto che debba esserlo per forza: può anche rivelarsi una benedizione, perché aiuta gli esseri umani a interrogarsi più a fondo, a perfezionarsi, ad affidarsi con più slancio all’Amore divino, a non confidare più solamente nelle proprie risorse, ma a farsi docili strumenti di una Volontà di grande, di un Amore più perfetto. Può insegnar loro l’umiltà, la pazienza, la speranza; può guidarli a riscoprire la solidarietà reciproca, la benevolenza verso i propri simili, anzi, verso tutti i viventi (anche gli animali soffrono, e devono soffrire per qualche ragione: nemmeno il loro dolore può andare sprecato!); insomma: può renderli migliori.

Ma non è detto che ciò avvenga. Esiste anche la possibilità che l’uomo, sopraffatto dal dolore, si chiuda in se stesso, rifiuti il senso della prova, si abbatta, si inaridisca, si sottragga alla solidarietà con il dolore altrui, con i bisogni del prossimo; può darsi che egli si incattivisca, si indurisca, che diventi cinico e spietato, che riversi sugli altri la propria frustrazione, la propria rabbia, la propria amarezza. Di fatto, esistono innumerevoli esempi di persone che, non essendo riuscite a collocare il dolore nella giusta prospettiva, sono diventate maligne, perfino diabolicamente maligne, nei confronti degli altri: e anche questo è un mistero, il mistero del male morale.

Noni non possiamo sapere tutto, non possiamo capire tutto: se lo potessimo, non saremmo uomini, ma dei; e, di fatto, vi sono scuole e correnti filosofiche e religiose che proclamano questa folle, aberrante "verità": che l’uomo è Dio, che padre del Bene e del Male, che tutto è lecito, tutto è concesso all’uomo che sa innalzarsi, con le sue sole forze, al di sopra dei comuni mortali, della massa amorfa, del volgo senza nome. Lo gnosticismo, eterna tentazione della superbia intellettuale, si sposa con l’esoterismo, la magia, la stregoneria: ed ecco, il progetto, intrinsecamente malvagio e sacrilego, di deificare l’uomo, riducendo allo stato di servi inconsapevoli tutti gli individui ordinari, tutti coloro che, in questa prospettiva odiosamente intellettualistica (perché la ragione è pensata come strumento di dominio e non di servizio), rimangono tagliati fuori, e dunque destinati a subire il controllo, la manipolazione, lo sfruttamento dei "risvegliati".

La verità è che non esiste risveglio spirituale senza umiltà, senza benevolenza, senza spirito di servizio: senza queste cose, l’intelligenza diventa tirannia e il sapere diventa strumento di violenza, d’ingiustizia, di prevaricazione. Possono sembrare cose lontane, improbabili; è vero il contrario: esistono indizi per supporre che questa sia, oggi, la più grave minaccia incombente sull’umanità: la presenza di un disegno occulto di pochi individui, ubriachi d’orgoglio e di potere, che si servono di tecniche estremamente sofisticate, e di immensi mezzi finanziari e propagandistici, per controllare, dominare, manipolare i pensieri, i sentimenti le azioni delle masse ignare, declassate all’ignobile rango di gregge da sfruttare, da brutalizzare, da condurre al macello, il tutto senza che le vittime designate si rendano conto di quanto sta accadendo, anzi, pensando addirittura di essere ben deste e consapevoli, o di essere, addirittura, le avanguardie di un processo di liberazione dell’umano, della rivendicazione dei "diritti" umani, della libertà umana, della ricerca del piacere, dell’affermazione di sé contro le ultime forme di oscurantismo e di credenze superstiziose.

Al contrario, l’uomo interiormente risvegliato, e parzialmente realizzato (la realizzazione totale non è cosa di questa vita, né di questo mondo, nella condizione spazio-temporale contraddistinta dal limite e dalla fragilità) è colui che ha imparato a disprezzare il potere, a deporre le ambizioni smodate, a non bramare né temere le cose di quaggiù, a non maledire nulla e nessuno, a servirsi anche del dolore come strumento di innalzamento, di espiazione, di purificazione; colui che non è più sedotto dal mondo, dai suoi miti, dalle sue lusinghe, dai suoi appetiti; colui che sa guardare al reale con occhio trasparente, non avido, non possessivo, benevolo e disinteressato; colui che ha appareso la verità fondamentale che la vita non ci è data per caso o per trastullo, ma per fare di essa il nostro paradiso o il nostro inferno, fin da ora, fin da quaggiù, e, poi, ancora e ancora, fino a quando non avremo appreso la lezione, nelle forme di esistenza successive, che non conosciamo, che possiamo soltanto immaginare.

Una cosa è certa: nell’economia dell’universo, nulla va perduto: né una lacrima, né un sorriso. Ogni pensiero, ogni gesto, ogni vita hanno un senso ben preciso; ogni bene ritorna virtuosamente, ogni male ritorna malignamente; si formano delle catene, dei circuiti, delle reti: il mondo in cui viviamo è il risultato finale di queste interazioni, di queste tensioni e contraddizioni, di queste spinte e controspinte. Il male chiama altro male, il bene chiama altro bene: e noi non siamo testimoni neutrali e distaccati, siamo gli attori, i protagonisti di questa vicenda universale, che esisteva prima di noi e che seguiterà dopo di noi. In noi stessi vi è l’eredità di bene e di male di quanti ci hanno preceduto, così come noi lasciamo alla generazione che verrà il nostro personale patrimonio di male e di bene.

Comprendere che il dolore, nell’economia del reale, non è un incidente o una sciagura insensata, ma che è l’elemento fondamentale della nostra possibile elevazione; che è davanti ad esso, dentro di esso, che noi, purificati e irrobustiti come il metallo nel fuco, forgiamo la sostanza della nostra anima; che dalla nostra capacità di vivere umanamente l’esperienza del dolore, con l’aiuto divino, discende la vittoria o la sconfitta della nostra stessa umanità: tutto questo è parte essenziale del progetto di cui siamo parte e che ci vede come protagonisti coinvolti direttamente in ciò che abbiamo di più caro e prezioso: i nostri sentimenti e i nostri pensieri, la nostra capacità di bene e di male, di amare e odiare, di benedire o maledire. Il dolore, dunque, non è nostro nemico; può essere perfino nostro alleato, come un amico che ci aiuta ad aprire gli occhi sulla bellezza del mondo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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