
L’errore logico di Machiavelli è l’aver descritto uno Stato che non può esistere
29 Luglio 2015
Quando Churchill consegnò a Stalin e a Tito i combattenti slavi anticomunisti
29 Luglio 2015Tre sono le liriche nelle quali, più chiaramente emerge, la consapevolezza della distanza siderale che separa la capacità d’amare di Catullo dalla volubilità di Lesbia, e nelle quali il poeta latino si sforza di razionalizzare la propria sofferenza, per liberarsene: il carme 72, incentrato sulla dolorosa contrapposizione di "amare" e "bene velle"; il carme 75, in cui gli è chiaro come l’affetto per la donna infedele non potrà mai più rinascere, ma, purtroppo, nemmeno la passione di lui per lei, potrà mai avere fine; e il carme 76, il più toccante, il più sentito con l’intera profondità dell’anima, nel quale, parlando con se stesso, Catullo si rende conto di non avere forze sufficienti per liberarsi dalla sua vergognosa schiavitù d’amore e rivolge una commovente preghiera agli dei, affinché lo soccorrano, se egli ha acquisito qualche merito presso di loro, con la sua "bona fides", cioè con la sua rettitudine interiore.
Scrive Mario Citroni a questo proposito (in: Antonio La penna, Scrittori latini", Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1977, vol. 1, pp. 96, 98, 99-101):
«Catullo [nel carme 72] constata che i tradimenti di Lesbia accrescono il suo amore, eccitando e rendendo più acuto il fuoco del desiderio. Ma allo stesso tempo egli sente che a causa di questi stessi tradimenti va perduta irrimediabilmente un’altra componente del suo amore per Lesbia: la stima, la benevolenza. Per questa via Catullo riconosce nel proprio amore, accanto alla componente sensuale, una componente esclusivamente spirituale, che egli assimila all’amore di un padre per i figli […] Nell’età moderna è dl tutto naturale considerare l’amore come un sentimento in cui si assimilano in modi vari e complessi il desiderio sensuale e un affetto di natura spirituale. Ma ciò è tutt’altro che ovvio nel mondo romano, dove, secondo il costume tradizionale, vi è una scissione piuttosto netta, tra, da un lato l’amore nel rapporto matrimoniale, che nei casi più felici comporta al massimo tenerezza, cordialità, fedeltà, senso protettivo, ma non desiderio passionale ardente, e, d’altro lato, l’amore libero, nell’adulterio, o con concubine e meretrici, esclusivamente sensuale. La morale tradizionale vedeva nei rapporti passionali liberi del giovane prima del matrimonio, o anche dell’uomo sposato fuori del matrimonio, quasi una benefica valvola di sicurezza che impediva che la passione sensuale portasse il disordine nell’istituzione matrimoniale, di cui si sentiva come fondamentale il carattere di istituzione giuridica con funzione sociale stabilizzatrice e che, nelle classi elevate, era un momento importante anche nella vita politica, perché serviva a stringere alleanze anche tra le famiglie. L’ideale a cui aspirava Catullo, di un amore libero in cui si unissero un’ardente passione sensuale e i più spirituali sentimenti che sono propri della vita familiare, testimonia che lo schema tradizionale si sta ormai rivelando insoddisfacente di fronte alle nuove esigenze dell’individuo:il matrimonio, ridotto spesso a mera forma giuridica, è in crisi e si sente il bisogno di fondare, magari al di fuori del matrimonio, un rapporto più autentico e più profondo. […] Nel prendere coscienza del fallimento di questo suo ideale, che non trova corrispondenza nell’amore incostante di Lesbia, Catullo, in questo carme, viene a dare efficace espressione a una concezione dell’amore originale e singolarmente nuova nella poesia erotica antica. […]
Catullo [nel 75] riprende la distinzione tra "amare" e "bene velle" su cui si incentrava il precedente carme 72. Questo carme sarà probabilmente posteriore: nel carme 72 la distinzione tra "amare" e "bene velle" veniva, dopo una sofferta autoanalisi, come una "scoperta" della formulazione più adeguata a esprimere i termini della propria contraddittoria condizione sentimentale in seguito ai tradimenti di Lesbia. In questo carme questa condizione è già, presupposta, e Catullo constata, con più acre amarezza, che la contraddizione tra i due sentimenti non consente alcuna via d’uscita: né un ravvedimento di Lesbia potrebbe far rinascere l’affetto, né altre colpe potranno spegnere la passione. Catullo sente che questa contraddizione sconvolge il suo spirito […] senza che vi sia possibilità di rimedio: in questo senso il carme è vicino al carme 85 (tormento interiore per il conflitto di odio e amore) e preannuncia ormai il carme 76 in cui a Catullo non resta che pregare gli dei di liberarlo da un tormento che non ha vie d’uscita. […]
Catullo [nel carme 76] è ormai convinto che il rapporto con Lesbia non potrà più ricominciare. Il dolore per questa forzata rinuncia e la passione ancora bruciante lo tormentano profondamente. Catullo si volge, in una sorta di amaro bilancio, verso il passato, cercandovi un motivo di conforto. La filosofia morale stoica predicava che la coscienza del bene fatto deve appagarci di per sé, indipendentemente dall’eventuale ricompensa che può darci la gratitudine altrui. E sia lo stoicismo che l’epicureismo insegnavano che l’uomo può trarre grande piacere dal ricordo del bene passato. Un’eco di questi comunissimi temi filosofici ha dato spunto alla riflessione con cui apre questo carme: "se è vero che il ricordo del bene compiuto è motivo di gioia, io avrò grandi gioie da questo amore ingrato in cui da parte mia è stato fatto tutto il bene possibile […]. Ma Catullo si rende conto che per poter godere di questo amaro piacere ("multa gaudia" è forse tristemente autoironico) egli deve intanto liberarsi dal turbamento presente: di qui le affannose esortazioni con cui Catullo cerca di convincere se stesso a chiudere veramente il capitolo del suo amore per Lesbia. Ma egli non si sente le forze sufficienti per questa risoluzione, e rivolge allora agli dei una preghiera accorata […]: egli è come in preda a una crudele malattia, ma la "pietas" di cui ha dato prova lo rende meritevole del soccorso divino che gli dia la guarigione. Come nel carme 8, l’altro famoso soliloquio di Catullo, seguiamo, nell’arco di una non lunga lirica, le fasi di un complesso sviluppo psicologico che, qui come là, si svolge essenzialmente tra due esigenze opposte: il bisogno di liberarsi da un amore che si è rivelato impossibile, e l’ardore di una passione ancor viva. Ma qui il tono è più sofferto: si è aggiunta l’esperienza dolorosa delle infedeltà di lesbia, una unga macerazione psicologica che ha fatto di questo amore impossibile un "taeter morbus",, una "pestis", e si è aggiunta la consapevolezza della possibilità di liberarsene con le proprie forze. Colpisce inoltre il carattere di più approfondita riflessione, con venature filosofico-religiose, carattere che si coglie nello stesso sviluppo sintattico […]. C’è stata, nel frattempo [rispetto al carme 8], con la progressiva crisi del rapporto con Lesbia, la meditazione sul carattere del suo amore e la presa di coscienza della distinzione tra "amare" e "bene velle". […] Su questa linea di approfondimento della propria esperienza è molto importante qui, come in altri carmi, che apparterranno allo stesso periodo, l’insistenza di Catullo sulla propria "fides", alla quale in questo carme, in cui ha gran parte la divinità, si unisce l’affermazione della propria "pietas". "Fides" e "pietas" sono due concetti fondamentali nella tradizione morale e religiosa romana. "Fides" è la fedeltà a un patto sancito: la sua importanza è in rapporto con la particolare struttura della società romana in cui tutta la vita di relazione, e soprattutto la vita politica, era fondata su reciproci patti di associazione (taciti o pronunciati): tra cliente e patrono, tra amici (l’"amicitia" in Roma ha un importante risvolto politico […]), tra i membri di una parte politica, tra stati. "Fides" è dunque per eccellenza la virtù che garantisce la solidarietà dei membri nella comunità sociale. "Pietas" è la virtù di chi adempie ai doveri che si hanno verso i propri familiari e verso gli dei, e corrisponde quindi esattamente alla "fides" nell’ambito religioso e familiare. "Pietas" si può riferire anche ai doveri che si hanno verso persone che non appartengono alla stessa famiglia, ma cui ci lega un patto sancito dagli dei. La grave serietà, quasi la solennità con cui Catullo dichiara di aver sempre professato queste due virtù (si intende, nel suo rapporto con Lesbia) facendosene un merito morale davanti alla sua coscienza, e religioso davanti agli dei, implica il riconoscimento di una dignità morale nel proprio amore.»
Dunque.
Nel dramma di Catullo si intrecciano due diversi aspetti del problema (perché di un problema si tratta, checché ne pensino certe anime belle) relativo ai rapporti fra uomo e donna, e specialmente alla possibilità che essi siano improntati ad una assoluta confidenza, lealtà, benevolenza e abbandono incondizionato, fiducioso e affettuoso. Il primo è di tipo, per così dire, culturale: il genere di rapporto che Catullo aspira a realizzare con Lesbia esce completamente dagli schemi della società romana: egli vorrebbe mescolare un aspetto tipico della relazione matrimoniale, la "fides", improntata al "bene velle", dunque alla stima, all’affetto puro e profondo, con l’aspetto che è, invece, caratteristico della passione sfrenata: la sensualità, che, nella società e nella cultura del tempo, era concepibile solo al di fuori del matrimonio, e comunque con molte cautele e con molte limitazioni; infatti, nessun uomo virile si sarebbe vantato d’aver perso la testa per i begli occhi di una donna (semmai, per quelli d’un bel ragazzino!). Catullo, dunque, cerca e desidera qualche cosa che non esiste, che non è previsto, che non è neppure ammissibile nella mentalità del suo tempo: in una relazione extra-matrimoniale, cerca la profondità e la tenerezza che possono esistere solo fra due sposi, o — è lui stesso a suggerirlo — tra fratelli, o tra genitore e figlio, oppure tra amici; ma anche, nello stesso tempo, l’ardente, furiosa passione dei sensi.
Mettiamoci, per un istante, dal punto di vista di Lesbia: quale donna, al suo posto, avrebbe desiderato una cosa del genere, o si sarebbe sentita appagata da un tale amore? Una donna libera, emancipata, diciamo pure spregiudicata, come lei, che possedeva una certa reputazione, insomma una donna molto invidiata, ma anche molto, troppo chiacchierata, non poteva giocare a fare l’amante devota, fedele, cioè l’improbabile copia di una perfetta sposa romana, tutta dedizione e protezione nei confronti del suo uomo: che cosa ci avrebbe guadagnato? Avrebbe subito le limitazioni del matrimonio, senza averne i vantaggi: decisamente, per una come lei, si sarebbe trattato di un pessimo affare. Certo, sulle prime specialmente, la focosa dedizione, il trasporto e l’offerta totale di sé, da parte di Catullo, devono averla non poco lusingata, fatta sentire una donna speciale, forse unica; ma, ben presto, devono esserle divenuti stretti, devono averle provocato un senso di soffocamento. La gelosia di lui, le sue scenate patetiche, devono esserle apparse come la brutta copia dell’atteggiamento possessivo di un marito ingombrante, secondo il vecchio stile romano; forse anche la stima per lui deve essere scemata, mano a mano ch’ella si accorgeva di come quell’uomo non si rendesse affatto conto di esser caduto in adorazione d’una donna che, moralmente parlando — e lei, intelligente com’era, ben lo sapeva — valeva assai meno di lui. Un uomo così suscita tenerezza, non stima e tanto meno amore: per essere amabile, un uomo deve apparire a una donna come estremamente sicuro di sé, come capace di tenere ben saldo il timore della propria vita in ogni circostanza, con lei o senza di lei. Una come Lesbia non doveva essere lusingata dal pensiero di doversi prendere cura di un uomo, tutto sommato, fragile, che la poneva sopra un inutile piedistallo e che da lei dipendeva interamente.
E qui arriviamo al secondo aspetto del dramma vissuto da Catullo nella sua tempestosa e disperata relazione con Lesbia, una donna che aveva enormemente idealizzata e che continuava ad amare nonostante tutto, anche quando si era reso conto di che stoffa ella fosse fatta: continuava ad amarla, ma senza più volerle bene, anzi, perfino odiandola, vale a dire con la coscienza sempre più netta di essere schiavo di una tirannia dei sensi, che lo degradava e che stava rendendolo spregevole non tanto agli occhi di lei, cosa di cui poco gli importava (perché l’amava sempre, ma non la stimava più), ma ai suoi stessi occhi, cosa che, invece, lo turbava moltissimo: perché, come tutti gli uomini d’animo nobile, Catullo era un severissimo giudice di se stesso, e non sopportava l’idea di essere tanto inferiore al modello ideale che avrebbe voluto impersonare, Lesbia o non Lesbia.
Questo secondo aspetto della cosa è di carattere molto più generale e non è, come il precedente, legato a un particolare momento storico e culturale, ma è universale e a-temporale, proprio, cioè, di qualunque tempo e di qualunque società. Potremmo così sintetizzarlo: Catullo non si rendeva conto che l’uomo e la donna, sempre, amano in modo diverso; che cercare, l’uno nell’altra, la perfetta intesa, totale e durevole, è irrealistico e illusorio; che la donna, nella maggior parte dei casi, non possiede né il senso di "giustizia" proprio dell’uomo (come osserveranno, da punti di vista pur così diversi, due filosofi moderni, come Kierkegaard e Schopenhauer), né la profondità e la costanza del sentimento, né la lealtà e la dedizione totale di cui è capace un uomo; tranne, forse, nel matrimonio, ma appunto come abbandono ad un marito, non a un amante: quel marito che Catullo, uomo anch’egli libero ed emancipato, non cercava, né desiderava diventare.
Lo sappiamo bene: questo è un discorso che non piace, e non solo alla cultura femminista, ma quasi a nessuno, uomo o donna che sia, perché la cultura moderna ci ha talmente immersi nell’ottica egualitaria, anche riguardo alle differenze di genere, da rendere addirittura blasfema l’opinione secondo la quale la donna, nei confronti dell’uomo, non sia capace, in linea generale (e dunque con le debite eccezioni) di quel trasporto, e, nello stesso tempo, di quella costanza, dei quali, al contrario (e sempre con le debite eccezioni) l’uomo è capace — e dire che ne è capace, non equivale affatto a dire che tutti gli uomini, o la maggioranza degli uomini, siano inclini a farlo. Una tenera e romantica leggenda vuole che sia la donna a saper amare veramente e incondizionatamente; la verità è che una donna, dopo aver dichiarato a un uomo che non ha mai amato alcuno più di lui, e forse dopo averlo realmente creduto, sa voltare pagina con impressionante disinvoltura, se subentra una rottura, e riesce poi a dirigere altrove i propri sentimenti e ad intraprendere nuove relazioni, cancellando completamente il proprio passato. L’uomo, invece, non ne è capace, e, se davvero ha amato una donna, non smetterà mai di amarla, anche se avrà fatto l’esperienza della sua meschinità spirituale e se avrà deciso di non rivederla mai più.
La vera natura della donna è quella di amare i figli e la famiglia, e di accudire il padre di quei figli; non di essere la compagna disinteressata di un uomo, la sua amante e la sua amica, e tanto meno di abbandonarsi a lui incondizionatamente. Questo perché la donna è infinitamente più razionale dell’uomo nei rapporti amorosi, sa quasi sempre fin dove arrivare e quando fermarsi, non perde facilmente la testa, ben difficilmente trascura la sua convenienza o il suo interesse: e questo non perché sia "cattiva", o meschina, ma, semplicemente, perché tale è la sua natura: rimanere padrona di se stessa, in modo che, fra i due, l’uomo e la donna, uno almeno non perda il controllo della situazione, uno almeno rimanga presente a se stesso e sia in grado di vedere le cose e giudicarle con una certa freddezza, con un certo distacco, con una certa lucidità. Può anche darsi che, nell’economia della natura, sia un bene che le cose stiano così: se entrambi fossero portati a perdere la testa, ad abbandonarsi alla passione, a dimenticare tutto per l’attimo presente, forse la società sarebbe esposta ad una continua, logorante instabilità e, forse, non riuscirebbe a reggere le tensioni quotidiane della vita.
Da ciò, ben s’intende, deriva che il sesso forte è quello femminile: e tanto peggio per gli uomini (e per le donne: ma sono assai rare) che non l’hanno capito. Il loro destino sarà, per forza di cose, quello del povero Catullo: soffrire senza scopo, consumarsi e infine distruggersi in una battaglia impossibile, persa in partenza: la battaglia contro la realtà delle cose.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels