
L’unica rivoluzione possibile e necessaria è la rivoluzione interiore
29 Luglio 2015
Quelli che l’8 settembre fecero l’«altra» scelta Si fa presto a dire: «quelli di Salò».
29 Luglio 2015Ci eravamo già occupati, a suo tempo, di due romanzi "minori" (o ritenuti tali dal giudizio del pubblico, più che dalla critica) di Carlo Cassola: «Un cuore arido», del 1961, e «Gisella», del 1974 (rispettivamente negli articoli «Il cuore inaridito di Carlo Cassola», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 17/03/2008, e «Che errore costruire una falsa immagine di sé per esorcizzare il proprio fallimento», pubblicato in data 20/01/2015).
Un terzo romanzo di cui vogliamo parlare adesso è «Monte Mario», del 1973; romanzo almeno apparentemente insolito nella produzione dello scrittore toscano, già per l’ambientazione romana e per la scelta dei due protagonisti, un giovane capitano dei carabinieri, appena promosso dal grado di tenente, e la sua ex fidanzata, Elena, creatura libera e irrequieta, che riappare improvvisamente nella sua vita ordinata e tranquilla, sconvolgendola con la sua sensualità che non si concede mai e con il soffio dell’imprevisto e del misterioso, per poi sparire di nuovo e riapparire, infine, un’ultima volta, ma ormai troppo tardi, quando lui è riuscito a rimettere la propria vita sui binari riassicuranti di una normalità conquistata al prezzo di qualche compromesso.
Ciò su cui vorremmo fermare la nostra attenzione non è il romanzo nel suo insieme, ma proprio l’aspetto particolare della relazione singolare, di attrazione e repulsione, che lega i due protagonisti: come sempre in Cassola, il rapporto fra uomo e donna è problematico, difficile, mai scontato, mai sereno o rasserenante, perennemente teso sul filo d’una corda sul punto di spezzarsi; come sempre, i due sessi non riescono a capirsi, a incontrarsi, ad abbandonarsi l’uno all’altra senza riserve, ma sono frenati, inibiti, frustrati da una fitta trama d’incomprensioni, di ripicche, di finzioni che sembrano verità e di verità che hanno l’apparenza di finzioni, e finiscono per farsi un gran male, a perdersi in un gioco al massacro da cui escono amareggiati, soli e infelici.
E, ancora una volta, è il personaggio femminile quello che presenta le sfaccettature più ricche, quello che s’interroga più in profondità, quello che si mette in gioco fino in fondo, e anche — si capisce — quello a cui l’Autore guarda con maggiore simpatia, o, quanto meno, con maggiore interesse e con maggiore complicità; mentre il personaggio maschile ha in se stesso qualcosa d’irrisolto, d’incompleto, senza, peraltro, giungere ad una vera chiarificazione interiore, illudendosi, anzi, di essere, in fiondo, una persona semplice, e sentendosi tradito dalla eccessiva complessità di lei, che percepisce come immotivata e irragionevole, come infantilmente capricciosa, mentre invece è tutt’altro, poiché i due viaggiano su dimensioni differenti e sono destinati a non incontrarsi mai, perché l’uomo è disponibile ad accontentarsi, a credere alle proprie finzioni, mentre la donna è esigente con l’altro perché è esigente con se stessa, non vuole mezze misure, e, pur non sapendo esattamente quel che le manca, e, dunque, quel che le serve, nondimeno intuisce, più o meno oscuramente, che la vita la chiama a qualcos’altro, a qualcosa di meglio che auto-ingannarsi e mentirsi per poter stare in pace con se stessa.
Questa è la matrice dell’inquietudine di tanti personaggi femminili cassoliani, così diversi da quelli maschili — o dalla maggior pare di questi ultimi – nella loro infinita capacità di sacrificarsi, talvolta per un obiettivo relativamente chiaro e definito (almeno all’inizio: così, del resto, fin dalla Mara de «La ragazza di Bube»), talaltra per qualcosa di vago e ancora indistinto, per un richiamo di assolutezza che stentano a decifrare, ma cui, nondimeno, generosamente rispondono, affrontando, per esso, qualunque rinuncia.
Ha osservato il critico Carlo Bo nel suo saggio introduttivo al romanzo (da: C. Cassola, «Monte Mario», Milano, Rizzoli, 1991, pp. IV-VI):
«In "Monte Mario" […] i due antagonisti — tanto per riprendere la terminologia dell’ultimo Cassola – sono fin troppo espliciti nei loro confronti e il capitano parla un linguaggio del tutto diverso e non conciliabile con quello di Elena. È Elena che sfugge all’assedio cassoliano e ci riesce perché ha dentro di sé qualcosa di segreto, di non spiegabile che non trova più il sussidio naturale del paesaggio, nel mondo da rappresentare. È il primo personaggio cassoliano che parla liberamente, che è autonomo e infatti non rientra nel quadro classico delle precedenti storie di Cassola. Il discorso va spostato — subito dopo – sull’amore e se nel capitano c’è qualcosa che rispetta l’economia psicologica degli eroi elementari di Cassola, in Elena non c’è più nulla che ce la mostri disposta all’accettazione passiva, alla condanna finale delle altre donne dello splendido catalogo dello scrittore toscano. Elena fugge e le sue fughe sono qualcosa di molto più importante e nuovo delle segrete aspirazioni delle altre protagoniste delle storie casso liane: nonostante la sconfitta dell’amore, Elena sceglie. Piange, fa e deve fare del male agli altri ma fugge, va via, insomma ha una certa libertà. Se il libro va ricordato per il dato della svolta, direi che gran parte del merito va a Elena che, pur non essendo del tutto creata rispetto alle altre donne — di prima e dopo "Monte Mario" — rappresenta il momento di maggior calore, quella che ha toccato il grado più alto di combustione umana.
La stessa Bianca dell’"Antagonista" — nonostante la diversità degli ambienti e dei tempi – ha qualcosa di Elena. Non occorre aggiungere altro; ciò che tenta e non ha ancora finito di affascinare Cassola è il mistero della vita, quel mistero che noi umiliamo e sminuzziamo in cose vane e superflue della nostra esistenza. Elena ha, dunque, questa carica che non è solo di negazione e di rifiuto misteriosi ma p di dolore e di dolore dichiarato, aperto. Generalmente il Cassola maggiore (nel senso che è il più battuto e frequentato) recepisce il dolore come un canto sordo, all’infinito, qualcosa di invincibile e che ci sovrasta. L’immagine del limite, del confine per Cassola si ripercuote e riflette nel mondo più alto del sentimento vitale epperò non ci sarebbe corrispondenza, tanto meno possibilità di fusione fra ciò che non riusciamo a esprimere e il dolore astratto, il dolore che è legge imposta dal suo Dio senza nome e senza volto. Nel pianto di Elena c’è un passaggio verso un mondo diverso, fatto di aspirazioni che non consentono nulla al quotidiano, al’amore così come lo intende il capitano. Anche da questo punto di vista, "Monte Mario" è uno dei suoi racconti più articolati o — come abbiamo già osservato — drammatici. La conclusione della storia sembra voler ribadire l’immutabilità della regola esistenziale di Cassola e la divisione insuperabile fra chi come il capitano adatta il mondo alla propria immagine e chi come Elena sta fuori della norma e non sa bene ciò che vuole o sa soltanto di non poter accettare ciò che appaga gli altri. Si tratta d due "tempi" diversi della vita, determinati dall’eccezione rappresentata da Elena e alla fine ci sarà la sanzione assoluta di questo criterio: alle lacrime della donna, Cassola contrappone l’indifferenza del capitano, la cancellazione del dolore, di quanto nell’amore per Elena lo aveva fatto soffrire. Anche sotto questo profilo Elena resta un’eccezione, il capitano fa parte a pieno diritto del mondo fermo, del mondo opaco e che non ammette domande d’alcun genere. Tutto questo fa sì che "Monte Mario" vada letto come un’opera anomala nel quadro storico di Cassola e, a ben guardare, un atto di disperazione più lucida e meno rassegnata, perché l’amore vero sta nel disordine di Elena e non già nella domestica astuzia del povero capitano.»
Lasciamo qui a Carlo Bo la responsabilità di alcuni suoi giudizi di merito, che in buona parte non condividiamo: che «Monte Mario» sia un romanzo in fondo così anomalo nel contesto della produzione letteraria di Cassola; che Elena sia un personaggio assai più lucido e meno rassegnato di altre eroine dello scrittore toscano (bisogna vedere cosa s’intende per rassegnazione, in Cassola); che la sua inquietudine esprima una ricerca di senso, cui si contrapporrebbe il pedestre "realismo" del capitano, tanto indifferente sul piano affettivo, quanto spiritualmente pigro e chiuso a ogni domanda; e che, infine, solo Elena sia capace di amore vero, perché l’amore deve per forza essere disordine (mentre il capitano, che vorrebbe "solo" essere amato ed amare, nella sua maniera forse un po’ limitata, ma certo sincera, non lo sarebbe).
Ci basta prendere, dalla sua analisi, il concetto che Elena è protesa — come il suo Autore – verso il mistero di un Dio senza nome e senza volto, che conferisce al mondo di Cassola quel caratteristico sentire d’infinito, quella rigorosa esigenza di purezza, nel senso più ampio della parola e che lo fa così diverso, specialmente negli anni della "contestazione" pre e post-sessantottesca, da tanti altri scrittori che allora andavano per la maggiore, molto più di lui, i Moravia, i Pasolini (mentre Cassola veniva gratificato, da Franco Fortini, dell’epiteto "infamante" di Liala ’63); ci basta questa chiave di lettura per portare il discorso su un aspetto che desideriamo qui affrontare: se, cioè, la vera alternativa esistenziale consista nell’adattare il mondo alla propria immagine oppure accettare l’avventura di trovarsi al di fuori della norma, e, dunque, inevitabilmente soli.
Se l’alternativa, infatti, fosse semplicemente questa, come afferma Carlo Bo, allora non crediamo vi siano molti dubbi circa il fatto che la prima scelta è quella inautentica, compromissoria, deprecabile, mentre la seconda è quella giusta, onesta, coraggiosa; ma sarebbe, come a noi pare evidente, una semplificazione eccessiva, una schematizzazione di comodo molto simile al dualismo manicheo: e noi diffidiamo d’istinto delle verità troppo evidenti, specialmente quando godono del consenso di chi è solito abbracciare il parere della maggioranza, senza porsi troppe domande e senza prendersi il fastidio di guardare le cose, di persona, un poco più da vicino. Ci sembra di doverne diffidare, più ancora — come è il caso di «Monte Mario», scritto nel 1973 — quando tali verità troppo evidenti vanno perfettamente d’accordo con le mode culturali del momento, ad esempio con la moda di considerare come "in autentica", e peggio, qualsiasi cosa avesse anche solo il sentore o l’apparenza di provenire dell’aborrito universo "borghese", termine, quest’ultimo, che concentrava in sé tutto quanto di più basso, sordido e spregevole può esistere al mondo. E che cosa si poteva immaginare, allora specialmente, di più "borghese", in tale accezione negativa, anzi, ingiuriosa, di un capitano dei carabinieri che pensa alla carriera, che si è comprato una casa nel quartiere romano di Monte Mari, l’ha arredata, e altro non chiederebbe che di poter amare e sposare la sua donna e condividere la propria vita con lei? Che cosa si può immaginare, in particolare, di più alieno, di più inviso alla cultura femminista dilagante in quegli anni, convinta che dietro ogni offerta d’amore maschile si celassero le catene della schiavitù e dietro ogni sogno d’amore "borghese", un orrendo bagno penale, un inferno di convenzioni e di rituali insopportabili?
Dunque: ammesso, e non concesso, che persone come il capitano Mario Varallo sappiano solo adattare il mondo alla propria immagine, e che altre, come Elena Raicevic, non possano far altro che constatare la propria condizione di "spostati", e dunque di condannati alla solitudine, resta da vedere se queste siano realmente le uniche alternative esistenziali nei confronti dell’autenticità. Davvero non si danno altre possibili risposte, all’infuori di queste due: l’una di segno fortemente negativo, perché fasulla, però rassicurante; l’altra di segno positivo, perché intellettualmente e moralmente onesta, ma votata alla maledizione della solitudine e dell’altrui incomprensione? Noi non lo crediamo; siamo persuasi, al contrario, che la risposta "giusta" differisca da entrambe.
Non è vero che per essere se stessi bisogna per forza far del male a se stessi e agli altri; né che si debba eternamente fuggire, o che si debba perennemente ignorare ciò di cui si va in cerca; né, infine, che una tale fuga permanente sia l’essenza della libertà. E non è vero neppure che adattare il mondo alla propria immagine sia radicalmente falso, sbagliato e spregevole: lo facciamo tutti, ed è inevitabile che lo facciamo: l’importante è farlo con la coscienza di operare una forzatura, e con l’umiltà di chi sa che il mondo, in se stesso, è altra cosa dall’immagine che ce ne siamo costruiti sulla nostra misura; ma che esso è, per definizione, mistero: e davanti al mistero bisogna essere così umili da accettarlo, e accettarlo vuol dire (anche) accettare di farsene una immagine provvisoria, certamente inadeguata e insufficiente, ma insomma necessaria per agire e mettersi in gioco.
Altrimenti, che cosa sarebbe la vita, se non assurdità e ironia? No: vivere, vuol dire amare; e amare non è una manifestazione di disordine, ma di ordine, nel senso più alto del termine. La stessa libertà non è l’opposto dell’ordine, ma la vera forma dell’ordine, perché non consiste nel fare qualsiasi cosa, ma ciò che è conforme alla legge morale. Amare, dunque, è ordine; ed è senso, serietà, libertà.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels