
Ma è proprio vero che il Cristo risorto non si è mostrato a sua Madre?
28 Luglio 2015
Se lo «stato nascente» è un risveglio spirituale, davvero realizza un progresso collettivo?
28 Luglio 2015Abbiamo già avuto modo di parlare, in diverse occasioni, del bel romanzo di Alexander Lernet-Holenia «Lo stendardo», apparso nel 1934 e ambientato negli ultimi giorni della Prima guerra mondiale, sul fronte serbo, quando l’esercito austro-ungarico è in procinto di dissolversi e le truppe inglesi stanno per entrare a Belgrado, travolgendo le ultime difese della Duplice Monarchia danubiana (cfr., in particolare, «Bisogna tenere alto lo stendardo nella palude vischiosa del nichilismo», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 18/10/2013).
Ma c’è un altro aspetto di esso che ci sembra degno di una specifica riflessione, vale a dire il legame di continuità, non solo storica, ma etica e spirituale, che uno stendardo, ossia un oggetto simbolico sul quale si è prestato un sacro giuramento, rappresenta fra la generazione presente e quelle passate, fra il mondo di coloro che chiamiamo viventi (ma che lo saranno ancora solo per qualche anno o qualche decennio) e il mondo di coloro che chiamiamo morti (mentre essi, in realtà, sottratti al divenire del tempo, sono compiuti, sono divenuti perfetti, e dunque vivono ormai in una dimensione assoluta e definitiva, non più soggetta alle vicissitudini contingenti).
Come si ricorderà, il romanzo rievoca, in prima persona, il rapidissimo processo di formazione di un ufficiale poco più che ventenne, l’alfiere Herbert Menis, che, attraverso l’amore della bella Resa Lang, ma, soprattutto, attraverso la suggestione magnetica su di lui esercitata dallo stendardo del reggimento di dragoni cui appartiene, e l’immenso amore per le virtù che in esso si focalizzano — la fedeltà, l’onore, la disciplina, la solidarietà cameratesca, l’amor di patria — matura, nel giro di pochi giorni, e si trasforma da giovane un po’ fatuo e superficiale, in un uomo precocemente consapevole e pervaso dal sentimento del dovere e della responsabilità di proteggere, custodire e porre in salvo, con lo stendardo, tutto ciò che esso rappresenta nella storia secolare dell’esercito austro-ungarico e in quella della imperiale e regia monarchia degli Asburgo.
Il punto sul quale vogliamo portare la nostra attenzione è la consapevolezza che il giuramento di fedeltà all’imperatore e alla bandiera del reggimento, pronunciato da quei giovani dragoni e da tanti altri prima di loro, nel corso dell’ultimo secolo e mezzo — lo stendardo è vecchio di almeno centocinquanta anni, ed ha conosciuto innumerevoli battaglie, sacrifici e vittorie — possiede un carattere sacro e irreversibile, che l’imperatore stesso (nella fattispecie, il giovane e sfortunato Carlo I d’Asburgo) non potrebbe annullare, pur se tale è la sua intenzione, perché quel giuramento lega insieme, in una volontà comune e in un destino ineluttabile, non solo i vivi, ma anche i morti; non solo quanti appartengono al presente, ma anche i compagni che sono caduti lungo la strada e tutti coloro che, in passato, lo hanno condiviso e si sono aggiunti all’armata ideale di quanti non servono una istituzione effimera e puramente umana, ma qualcosa di più: un’idea immortale; qui, l’idea della convivenza dei dodici popoli della Monarchia asburgica, attraverso le alterne vicende della storia, in una entità super-nazionale di tipo dinastico.
A illustrare molto bene questo concetto è stato un critico italiano oggi pressoché dimenticato, che ha curato il commento introduttivo alla edizione mondadoriana del romanzo apparsa nella limpida ed efficace traduzione del grande germanista Ervino Pocar: stiamo parlando di Renato Arienta (da: Alexander Lernet-Holenia, «Lo stendardo», Milano, Arnoldo Mondadori Editore, Verona, 1944, «Introduzione», di R. Arienta, pp. 15-17):
«… È incominciata intanto la crisi dell’impero. È l’ora delle rivendicazioni nazionali da parte dei diversi popoli non tedeschi che lo compongono, e anche nell’esercito circola lo spirito di rivolta e di indisciplina: le truppe si rifiutano d’obbedire al Comando d’Armata in nome dei governi indipendenti costituitisi nei loro paesi. La divisione di cui fa parte Menis ha ricevuto l’ordine di passare il Danubio e di avanzare verso l’interno della Serbia, a costituire una nuova fronte, in sostituzione di quella balcanica in isfacelo; ma la truppa, formata di Ungheresi Polacchi Cechi Boemi, ha già decretato che non partirà. Se ne discute fra gli ufficiali, che sentono di non poter nulla contro la fatalità storica, , e in questi discorsi è l’eco delle ideologie su cui avevano fatto leva gli "alleati". "È il diritto delle nazioni fattesi maggiorenni", dice il tenente Anschütz". Ma per coloro che hanno nel sangue la tradizione dell’impero e dell’esercito la cosa è inaudita. L’esercito, che ha raccolto e tenuto unite tante genti separate, rappresenta l’impero nella sua ideale unità e nella gloria secolare, è l’immagine del vecchio mondo. Come poteva il mondo essersi mutato fino a tal segno? "Le cose visibili erano rimaste le stesse, l’invisibile era ormai diverso. Dentro, negli uomini, si era mutato il mondo che ora stava dissolvendosi e tramontando". Un capitano tedesco, il conte Bottenlauben, interpreta con parole accese di sdegno il sentimento stesso di Menis, e il fascino che lo stendardo esercita sul giovane chiarisce adesso le sue ragioni indistinte. Da questo momento la sua vita è cavallerescamente votata all’insegna sacra, fatta più bella dalla sventura, di cui è dovere subire la sorte. Il saluto "dei tempi di Radetzky" suggella le parole fiere di Bottenlauben; ed è come il segno simbolico della nuova religione di Menis. Andremo assistendo d’ora in poi al progressivo trasferirsi del sentimento amoroso in una passione più alta e dolorosa che brucerà la sua giovinezza.
Il giorno stesso, nel sogno, l’immagine della donna è sopraffatta da quella dello stendardo; più tardi, trovandosi a camminare inquieto, si accorge di andare cercando lo stendardo; e ha l’impressione di far cosa vietata. Non vivrà più che nell’attesa di possederlo, di avere il diritto di custodirlo invece di Heister. Quando il reggimento marcerà verso il Danubio, un ufficiale dal comportamento misterioso, un uomo a cavallo con due cani, profeterà ad Heister la prossima morte. Da questa profezia è incominciata la sciagura dell’esercito, dirà più tardi Anscütz, dopo l’ammutinamento della truppa. La comparsa del vecchio ufficiale prima della ribellione e dell’avverarsi della profezia dovevano essere più che casi fortuiti; egli era destinato "a provocare un nesso visibile tra gli avvenimenti, mentre la realtà si stava compiendo nell’invisibile". E anche Menis dovrà infine domandarsi perché in quei momenti terribili — allorché successero cose enormi — l’invisibile non dovrebbe realmente e più palesemente del solito essersi imposto al visibile.
Ed è la voce dell’invisibile che affida a Menis l’insegna dell’esercito. Sul ponte del Danubio la truppa si rifiuta di procedere e il comandante fa sparare sul reggimento. Nella mischia, Heister cade, e un caporale, afferrato lo stendardo, lo porge a Menis. Qui tutte le voci della narrazione convergono in canto: "Ora tenevo lo stendardo. Intorno a me le vite umane si disperdevano come pula al vento, ma io tenevo lo stendardo. E tosto compresi che, fin dal primo momento in cvui l’avevo visto, ero stato sicuro che sarebbe toccato a me. Lo ricevevo nello stesso momento in cui il reggimento, di cui esso era simbolo, aveva cessato d’esistere, ma io tenevo in pugno lo stendardo!" L’esercito è ormai in sfacelo, Belgrado viene occupata dagli Inglesi, ma lo stendardo è suo. Attraverso una fuga avventurosa in cui avrà a compagni Teresa, che era crocerossina a Belgrado, e Bottenlauben e Anschütz, che cadranno uno dopo l’altro, egli lo porterà in salvo a Vienna.Ma qui è scoppiata la rivoluzione, e Menis s’accorgerà d’essere ormai solo con la sua passione e coi suoi morti. A chi consegnerà l’insegna? Nelle caserme lo si accoglie con freddezza e indifferenza, non si capisce nemmeno che cosa egli voglia. L’esercito non è qui, l’esercito non sono i vivi ma i caduti; ed egli sente che ha torto d’essere tornato. Saggi sono stati Heister, Anschütz e Bottenlauben e tutti quelli che sono rimasti. Ad essi deve restituire lo stendardo, non certo ai vivi. "I morti laggiù non erano morti, ma sorgevano in un0aureola di gloria sanguigna. I vivi, ritornati a casa, erano i veri morti". L’imperatore ha emanato l’ultimo proclama, col quale scioglie le sue truppe dal giuramento di fedeltà. Ma le voci di coloro che tale giuramento han suggellato sorgono, come un rombo infinito, a ripetere: "Giuriamo, giuriamo nel nome di Dio Onnipotente, di non abbandonare le nostre truppe, le nostre bandiere e i nostri stendardi". Che cosa può l’imperatore? Egli per sollevare la coscienza ai vivi che avevano ritto il giuramento, non aveva più il diritto di sciogliere quello che i morti gli avevano fatto. Il vero esercito era il loro. Essi pronunciavano il giuramento e la mia voce era tra quelle".
Un’alta follia separerà il giovane ventenne dal mondo dei superstiti. Menis darà lo stendardo alle fiamme e non avrà più nessuno al mondo all’infuori di Teresa, unico ponte tra lui e i caduti.»
Pertanto, domandiamoci: che cos’è un giuramento? È un atto sacro, di carattere irreversibile, che lega i contraenti per sempre; che li impegna alla presenza di un Terzo, che ne sarà il supremo garante e giudice; e che li inserisce nella corrente d’una continuità ideale, la quale scavalca gli anni e i secoli, e stringe in una rete solidale, indissolubile, passato, presente e futuro.
Giurare, vuole dire impegnarsi per sempre: e impegnarsi non solo davanti ai vivi, ma anche ai morti; non solo al cospetto degli uomini, ma anche al cospetto di Dio. Un giuramento collettivo, come può esserlo quello di un battaglione, di un reggimento, di un esercito, crea una forza morale e spirituale che va molto al di là dell’ordinamento giuridico e del significato strettamente burocratico: nessuno, in pratica, potrà mai più arrogarsi il diritto, non solo d’infrangerlo o disattenderlo, ma anche di revocarlo e di scioglierlo. Nessuno, nemmeno l’imperatore in persona.
Tale era la forza morale dell’esercito austro-ungarico, capace di tenere uniti dodici popoli diversi, e questo anche nel momento storico che vide il trionfo dei nazionalismi; che sostenne valorosamente quatto anni di guerra, la guerra più immane che il mondo avesse mai veduto; che riportò vittorie e sconfitte, ma si tenne unito e disciplinato, dalle pianure della Galizia alle foreste della Volinia, dalle vette delle Dolomiti alle pietraie dell’Albania; che ancora all’inizio dell’ultimo cimento (quella che noi italiani chiamiamo la battaglia di Vittorio Veneto) si batté bravamente ed oppose una strenua resistenza, e solo incominciò a cedere, per poi crollare di schianto, allorché il richiamo delle singole patrie, e dei governi insurrezionali sorti ovunque, dietro istigazione dell’Intesa, a Praga come a Varsavia, a Budapest come a Zagabria, dissolse le singole unità combattenti e le convogliò verso le retrovie, per correre alla difesa dei nuovi stati nazionali, i cosiddetti stati successori.
Per comprendere il significato e il calore di un giuramento come quello che i giovani d’un tempo prestavano al proprio Paese e alla propria bandiera, bisogna sgombrare la mente dagli opportunismi della mentalità moderna, e ritornare, in un certo senso, al mondo cavalleresco e feudale, quando nulla era dato immaginare di più infame e vergognoso, che il venir meno ad un giuramento di fedeltà tra il signore e i suoi vassalli. Ecco perché il comportamento di Vittorio Emanuele III, al mattino del 9 settembre 1943, con la sua fuga precipitosa da Roma e l’abbandono dell’esercito e del Paese, senza lasciare ordini né direttive, segna veramente una pagina imperdonabile nella storia della monarchia sabauda: è inconcepibile che quel monarca abbia tradito il giuramento di fedeltà che migliaia di giovani ufficiali e soldati delle tre Armi, per non parlare della nazione nel suo insieme, avevano pronunciato nei suoi confronti, e che da tre anni li teneva impegnati, a prezzo di sacrifici immani, sui fronti più lontani e nelle condizioni più difficili: dalle steppe russe al deserto nordafricano, dalle vastità dell’Oceano Atlantico alle aride "ambe" abissine.
Ecco: il sangue dei morti di El Alamein e Giarabub, di Culqualber e di Klisura, dei sommergibilisti che giacciono in fondo agli oceani e dei piloti che caddero nell’eroico tentativo di proteggere il nostro spazio aereo dalle devastanti incursioni delle aviazioni nemiche, cento volte superiori per numero e qualità dei mezzi, chiede ancora d’essere placato: il tradimento nei confronti della loro memoria, l’ingratitudine e l’indifferenza, non solo del re fellone e codardo, ma di tutto il Paese, troppo smanioso di voltar pagina e dimenticare, esige ancora di essere placato, onorato, ringraziato.
Abbiamo tuttora un debito di riconoscenza con quei morti: perché debiti di quel genere non si estinguono mai. E non ci si venga a dire, in nome del politicamente corretto, che quei ragazzi e quei padri di famiglia ebbero la sfortuna di cadere in una guerra sbagliata, per una causa sbagliata: sono tutte menzogne. Quando la patria è in guerra, e affronta il più grande pericolo della sua storia, non esistono simili distinzioni: "right or wrong, it’s my country". Così sente, così ragiona chi possiede nobiltà di sentimenti e lucidità d’intelletto; il resto, sono solo sofismi creati apposta per mettere a tacere i rimorsi d’una cattiva coscienza. E la cattiva coscienza pesa su noi tutti, come un macigno…
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