
Ma un prete deve predicare il Vangelo della vita, non il vangelo della morte
28 Luglio 2015
Regola numero uno: imparare l’umiltà, ovvero ridimensionare l’ipertrofia dell’ego
28 Luglio 2015L’uomo e il mistero: un binomio inscindibile.
Gli uomini osservano, riflettono, si fanno mille domande; vedono che a molte di esse non c’è una risposta, o, quanto meno, che non c’è una risposta del tutto convincente; s’interrogano ancora, provano inquietudine, ma sono anche affascinati da quelle domande che rimangono senza una risposta: in un certo senso, godono di sapere che non a tutto la ragione può dare una spiegazione pienamente esauriente e del tutto soddisfacente.
Il senso del mistero nasce da qui: dal sentire, dall’intuire, che c’è dell’altro, oltre a ciò che si vede, si sente, si percepisce con i cinque sensi esterni; e che c’è dell’altro rispetto a ciò che la ragione strumentale e calcolante può arrivare ad afferrare, meno ancora a spiegare: qualche cosa che mette in gioco facoltà diverse, l’immaginazione, certo, ma anche una sorta di super-ragione, un qualcosa che è di più, e non di meno, della pura e semplice logica razionale.
Quando il mistero si avvolge di un alone soprannaturale, nasce il sentimento del sacro: sentimento che prelude all’idea del divino ed alle varie manifestazioni storiche del culto religioso; ma che può anche rimanere nelle sfere inferiori, ambigue e confuse, sovente degradanti e pericolose, della superstizione, della magia, della stregoneria, dell’occultismo.
L’attrazione verso il mistero è un elemento strutturale, ontologico, della natura umana; lo si ritrova, evidentissimo, nel bambino: nessuno più di quest’ultimo è desideroso, persino affamato, di mistero; è per questo che le fiabe esercitano una presa così forte su di lui ed è per questo che il suo mondo è solo in piccola parte lo stesso di cui fanno esperienza gli adulti. Esso, infatti, è ovunque circondato e permeato dal mistero: da qualunque parte, in qualsiasi momento, il mistero può irrompere nella dimensione ordinaria dell’esistenza, sovvertirla, imporle le sue regole, molto più antiche e possenti di quelle del mondo "adulto", e, nello stesso tempo, più duttili, elastiche, quasi elusive.
Il mondo del bambino è quasi un tutt’uno con il regno del mistero: non vi è una netta separazione fra i due, né una chiara percezione della loro diversità e incommensurabilità: grazie al mistero, infatti, tutto diventa possibile. Quando la coscienza di tale differenza comincia a farsi strada, allora vuol dire che l’infanzia è finita e che la personalità adulta è ormai quasi padrona del campo, con il suo diverso modo di sentire, di ragionare, di porsi di fronte al reale.
L’adulto ha ben chiara, fin troppo, l’impossibilità che le due sfere si tocchino e si confondano: è talmente convinto di questo, che, se si trova davanti al soprannaturale, la sua prima reazione, di solito, è quella di dubitare dei propri sensi, dato che non gli sembra possibile dubitare della propria ragione; solo in alcuni casi, e, in genere, assai a malincuore, egli è disposto a rimettere in discussione le proprie certezze razionali e "scientifiche". Quel che preferirebbe fare, se lo potesse, sarebbe di dare torto ai fatti e di scordarseli, di metterli fra parentesi, ricorrendo a una qualunque spiegazione di ordine puramente razionale: bisogna proprio che sbatta contro al mistero con forza, per considerare la possibilità di una spiegazione "diversa", che (così crede, almeno) lo metterebbe fatalmente in conflitto con se stesso.
Ma torniamo al bambino. Il mondo in cui vive, il mondo che lo circonda, è permeato di mistero; e poche cose sono più adatte a rendergli viva la percezione del mistero come il contatto immediato con la natura, possibilmente con la natura non del tutto addomesticata, ancora selvaggia, almeno in parte: ad esempio con l’esperienza di un luogo selvatico come teatro dei suoi giochi e delle sue scorribande (per non parlare di ciò che prova se tale contatto avviene di notte, il momento più misterioso della giornata). I bambini che sono cresciuti a contatto con la natura hanno potuto fare questa preziosa esperienza e ne hanno tratto un intero universo di emozioni e sensazioni irripetibili, magiche, destinate a esercitare un influsso durevole sulla formazione della loro personalità.
Così ricorda i boschi della sua infanzia John G. Mitchell nella «Introduzione» al volume fotografico «I grandi fotografi di natura» (edizione della «National Geographic Society», 2001; traduzione italiana di Enrico Lavagno, 2007, p. 25):
«Sono nato nell’area forestale degli Stati Uniti orientali che lo scrittore Rutherford Pratt usava chiamare foresta "summer-green" [letteralmente: "verde in estate"], o "stagionale", così come farò anch’io. Pratt ne descrisse la composizione originaria mentre percorreva la catena dei monti Appalachi e girovagava tra le alture della costa atlantica fino al Mississippi.
Sotto quasi tutti i punti di vista si trattava (e in modo non uniforme si tratta ancora adesso, benché le specie cambino a seconda della latitudine e della quota) di una foresta di querce e frassini, di faggi e aceri, di hickory ("Carya") [noce americano] e pioppi, di noci e ciliegi, di tupelo ("Nyssa sylvatica) e sicomori, di sassofrassi a sud e di betulle da carta a nord. Per non dire dei pini, dei cedri, degli abeti e dei molti altri generi arborei.
Mentre crescevo fra i boschi dell’Ohio meridionale tutte le mie estati erano immerse nel verde, ma non ricordo di aver visto molti animali selvatici a eccezione degli scoiattoli e dei conigli che ogni tanto cacciavo, appostandomi con un fucile calibro 22 ben sistemato nella piega del braccio. In quei tempi vedere un cervo era una cosa quasi inaudita. La grande depressione aveva trasformato l’ambiente in una sorta di spaccio alimentare in cui migliaia di disoccupati si davano da fare per riempire le marmitte di selvaggina. In alcune regioni del Midwest e del New England erano passati vent’anni da quando poteva capitare di vedere un "opossum" o un porcospino, e tanto meno un cervo. È forse questo il motivo per cui mio fratello maggiore inventò un "predatore" che ravvivasse i boschi circostanti casa nostra. Chiamò "mangamoonga" la sua creatura, che secondo lui somigliava a un rinoceronte villoso e si trascinava nel fango senza lasciar tracce. Non l’ho mai incontrato, ma la storia era perfetta: era facile immaginare il bestione che si muoveva da qualche parte nel profondo delle nostre foreste, altrimenti così avare.
I boschi hanno necessità degli animali e non è vero solo il contrario. Descrivendo il paesaggio dei suoi amati boschi del nord, l’ecologista Aldo Leopold ha osservato che l’insieme si poteva ridurre "al territorio, più un acero rosso, più un tetraone dal collare". Calcolò che il tetraone rappresentasse un milionesimo dell’energia e della massa di un solo acro (4.050 metri quadrati circa). "Eppure — scrisse — sottraete il tetraone e il tutto è morto".»
Qui si vede molto bene ciò che intendevamo, allorché avevamo affermato che il contatto immediato con la natura, per esempio con un bosco selvaggio, è suscettibile di esercitare un influsso potentissimo sul mondo fantastico del bambino. A quest’ultimo, infatti, non basta vivere passivamente, per così dire, l’esperienza della natura misteriosa; ha bisogno di darle un contenuto attivo, di attribuirle una forza magica, della quale egli è partecipe, poiché ne conosce, almeno in parte, i segreti e — forse – le parole magiche.
Nel caso del brano sopra riportato, la dimensione attiva e la partecipazione magica al mondo misterioso della natura è dato dalla "invenzione" (ma questa è la definizione che ne darebbe un adulto: per il bambino non si tratta di inventare qualcosa che non esiste, ma di evocare qualcosa che già esiste realmente, anche se in forma nascosta o latente, ma che gli altri, e specialmente gli adulti, non arrivano a percepire) di una creatura selvaggia e vagamente paurosa, a metà fra la bestia e lo spirito dei boschi: il "mangamoonga", appunto. E che si tratti di una creatura dalle caratteristiche solo in parte fisiche e materiali, lo si evince dal fatto che, pur trattandosi di una bestia di grossa taglia, e quindi assai pesante (una specie di rinoceronte, forse visto sulle pagine di un libro illustrato sugli animali, dato che il rinoceronte non esiste nella fauna nordamericana), si muove nel bel mezzo delle zone fangose senza lasciare alcuna traccia: come fosse un fantasma.
Ora, quello che importa, per la fantasia del bambino, non è l’esistenza oggettiva di una data cosa, ma la sua esistenza soggettiva: una volta "creato" questo misterioso animale-fantasma, la credenza nella sua effettiva realtà diviene immediata e indubitabile, per quanto elusive siano le tracce del suo passaggio. In un certo senso, il bambino pensa allo stesso modo dello scrittore o dell’artista: una volta che questi abbiano delineato, nella loro immaginazione, un personaggio o una situazione, ecco che quel personaggio e quella situazione cominciano a vivere, addirittura, di vita propria (si vedano, per fare un esempio di quanto stiamo dicendo, certi personaggi di Luigi Pirandello o di Miguel De Unamuno, i quali, a un certo punto, hanno l’impertinenza di reclamare un destino diverso da quello che lo scrittore aveva assegnato loro).
Non è ozioso, né privo d’interesse, osservare che taluni esperimenti, condotti da alcune équipes di studiosi di psicologia e di fenomeni del paranormale, sono giunti a dei risultati perfettamente in linea con tutto ciò: una volta evocata una entità immaginaria, ad esempio nel corso di una seduta spiritica, alla quale tutti i partecipanti all’esperimento avevano stabilito di attribuire determinate caratteristiche biografiche, in maniera concorde e coerente, anche se puramente immaginaria, si sono effettivamente verificati dei fenomeni insoliti e si è stabilita una sorta di comunicazione con siffatta entità, la quale rispondeva, a richiesta, alle domande degli astanti, come se, in qualche modo, ella avesse incominciato ad esistere nel mondo reale, anche se ciascuno sapeva trattarsi di una entità solamente immaginata.
Tutto questo merita di essere approfondito. Quando il bambino, specialmente se a contatto con la natura misteriosa, ma anche in tutte quelle situazioni ove il mondo "ordinario" sia, per così dire, sospeso (ad esempio, per una assenza dei genitori o degli altri adulti, sì che i bambini siano liberi d’immaginarsi sciolti dalle "catene" della logica propria della dimensione adulta, e di sbizzarrirsi nella "loro" dimensione prediletta, quella del mistero, appunto), si mette a fantasticare ed "evoca" delle realtà invisibili, ivi compresi i "compagni di giochi" che nessun adulto potrà mai vedere o percepire con i sensi esterni, è come se tali realtà gli venissero effettivamente incontro da una dimensione parallela, rispondendo alla sua chiamata. È così che il bambino si sente non già il "creatore" di quelle presenze misteriose, ma, semplicemente e più modestamente, colui che, sospettandone l’esistenza, abbia offerto loro l’occasione per rivelarsi.
Ciò è possibile, naturalmente, ad una sola condizione, cui già abbiamo accennato: che non si presupponga una distinzione rigida fra la sfera del mondo ordinario e quella del mondo misterico, fra il visibile e l’invisibile, fra il naturale e il soprannaturale (o il preternaturale): in breve, fra ciò che, secondo il modo di ragionare degli adulti, è "possibile" e ciò che non lo è. Questa mancata distinzione implica, come corollario fondamentale, che non vi sia un muro invalicabile nemmeno fra la vita e la morte: per il bambino, la morte non è, o non è ancora, un evento irrimediabile e ineluttabile: egli immagina che sia ancora possibile, a determinate condizioni, che i defunti, in un modo o nell’altro, ritornino nel mondo dei viventi. E lo credono anche le popolazioni che un tempo venivano, sbrigativamente, definite come "primitive" o, addirittura, "selvagge": anche per esse il passaggio tra la vita e la morte è suscettibile di transiti insoliti, in un senso e nell’altro; ed è per questo che tali popolazioni credono all’esistenza dei vampiri e dei fantasmi, e prendono le loro precauzioni per tutelarsi nei confronti del loro ritorno; così come credono all’esistenza degli spiriti buoni e, nelle religioni più evolute, alle beneauguranti presenze angeliche.
Ma perché proprio il bosco esercita un fascino così grande sulla immaginazione dei bambini (e dei popoli "primitivi")? Le risposte possono essere più d’una, compresa quella di ordine archetipico junghiano: il bosco è una immagine simbolica dell’inconscio collettivo, probabilmente connessa con i ricordi ancestrali dell’umanità; perché, prima del sorgere delle civiltà urbane, prima dell’agricoltura e prima della stessa pastorizia nomade, il paesaggio di gran parte dell’Europa, e anche degli altri continenti, era pressoché interamente boschivo. Le fiabe popolate di lupi, di orsi, di briganti, che si sono diffuse nel nostro immaginario collettivo, hanno quale sfondo naturale, appunto, i fitti e impenetrabili boschi e le foreste primordiali, mai intaccate dalla scure dell’uomo e, pertanto, popolate da presenze "altre", non umane (una per tutte: quella del "piccolo popolo" dei nani, degli elfi, delle fate, eccetera).
Un’ultima considerazione. I bambini , al giorno d’oggi, crescono più che mai lontani dalla natura: dunque, più che mai lontani sia dal mistero, sia dal mondo della immaginazione (sostituita, troppo spesso, da giochi elettronici, davanti ai quali egli è sostanzialmente passivo e alienato): e questo non è bene. Guai se anche i bambini perdono il contatto, come già l’adulto "civilizzato", con il mistero…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels