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Remigio, ne «Il podere» di F. Tozzi, si offre come agnello per (l’inutile) immolazione

Vi sono delle vittime predestinate e vi sono dei carnefici volonterosi, ma anonimi, che non aspettano altro, se non d’incrociare le loro strade con quelle di chi è pronta ad offrirsi e immolarsi in qualità di vittima espiatoria.

In effetti, vi sono almeno due tipi di vittima: quella volontaria e quella involontaria; al primo soltanto spetta realmente l’appellativo di "vittima", perché, nel secondo caso, si tratta, nella maggior parte dei casi, di vittime accidentali, che hanno semplicemente avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.

Ma parliamo del primo tipo di vittime, quelle volontarie. Ci si può offrire in qualità di vittime per diversi motivi; ma, anche in questo caso, le tipologie fondamentali possono ridursi a due: quella di chi sa perché intende offrirsi in sacrificio, e quella di chi, pur non sapendolo, arde e brama, più o meno inconsciamente, di auto-distruggersi, offrendo se stesso alla ferocia e alla brutalità degli altri esseri umani.

Per spiegarci con maggiore chiarezza, faremo degli esempi storici. Una tipica figura di vittima non solo volontaria, ma anche perfettamente lucida e consapevole, è stato san Massimiliano Kolbe, il frate francescano polacco che, nel 1941, offrì spontaneamente la propria vita, nel campo di sterminio di Auschwitz, in riscatto della vita di un’altra vittima designata, un padre di famiglia che i nazisti avevano destinato a morire nel bunker della fame. Viceversa, delle vittime quasi certamente volontarie, ma forse inconsapevoli, possono essere considerati i 76 seguaci della setta davidiana che a Waco, nel Texas, morirono tra le fiamme al termine di un drammatico assedio, durato cinquanta giorni, da parte della polizia, nel 1993; fra loro c’erano più di venti bambini e due donne in stato interessante.

La letteratura, e specialmente la letteratura moderna (poi vedremo perché proprio questa) sembra essere particolarmente ricca di esempi di vittime inconsapevoli: di persone, cioè, predisposte alla sconfitta e al sacrifico di sé, ma non in vista di una buona causa, o, quanto meno, di una causa purchessia, ma semplicemente perché sono torturate da sentimenti di colpa, senso d’inadeguatezza, rimorsi, complessi, nevrosi, bisogno patologico di essere perdonate, o compatite, o magari ammirate dagli altri. Basti pensare ad Alfonso Nitti, il protagonista del romanzo «Una vita» di Italo Svevo (pubblicato nel 1892), oppure a Remigio, il protagonista de «Il podere» di Federigo Tozzi (apparso nel 1921).

In verità, Alfonso Nitti si sucida, e sia pure alla vigilia di un duello nel quale, sicuramente, resterebbe ucciso, mentre Remigio perisce sotto i colpi di scure di un contadino rancoroso e vendicativo; però le loro morti sono assai più simili di quel che possa sembrare: entrambi, infatti, si sentono fuori posto nel mondo; entrambi soffrono atrocemente per la loro "inettitudine", vista come una malattia sociale (dagli altri e da loro stessi); entrambi si sentono come delle pecore destinate al macello e, in fondo, sono stanchi di vivere in un mondo che non li capisce e non li vuole, ma, nello stesso tempo, pensano, o piuttosto sentono, che la loro morte potrebbe anche trasformarsi in una forma di sacrificio, capace di dare ad essa un significato più alto.

Certo, l’ateo Alfonso e il cattolico Remigio (che rispecchiano le concezioni generali dei loro rispettivi autori) non hanno il medesimo punto di vista sulla vita e sulla morte; e tuttavia, a dispetto delle differenze che li separano, essi sono simili: sia l’uno che l’altro soffrono di un complesso di inadeguatezza che li fa sentire di peso rispetto alla società in cui vivono, e che sembra dominare i loro pensieri e le loro azioni, spingendoli, giorno dopo giorno, giù per la china di una lenta, progressiva, inarrestabile auto-distruzione. È come se per loro la morte, infine, giungesse come una sorta di liberazione, e, nello stesso tempo, come l’esito naturale e "necessario" del tipo di scelte esistenziali che hanno compiuto nel corso delle loro brevi esistenze.

Scrive Attilio Cannella (in: Federigo Tozzi, «Con gli occhi chiusi e altro», a cura di A. Cannella, Milano, Principato, 1989, pp. 227-228):

«Nella sua essenza più profonda, "Il podere" è la storia di un inarrestabile processo di colpevolizzazione, destinato a concludersi con il rituale olocausto della vittima designata. Fatto segno, dapprima, alla curiosità diffidente della comunità contadina, Remigio è man mano sottoposto a un vero e proprio processo collettivo e subisce umilianti interrogatori sulla sua situazione economica, trasformandosi in accusato. Parallelamente, il protagonista introietta dentro di sé un angoscioso senso di colpa, che gli impedisce di difendersi nel momento decisivo del’udienza in tribunale: in tale circostanza, Remigio si presenta al giudice non come parte in causa, ma come reo confesso, destinato a subire una condanna che assume l’aspetto di un linciaggio e di una faida. La scena dell’udienza, definita da Sandro Maxia "fra le cose migliori della nostra narrativa moderna", , ha il suo archetipo nel "medievale rito giuridico attraverso il quale il reo di sacrilegio, eresia o stregoneria, esposto alla gogna, torturato e portato davanti ai giudici, viene riconosciuto e si riconosce colpevole (S. Maxia, "Uomini e bestie nella narrativa di Federigo Tozzi", Padova, Liviana, 1972, p. 110).

Desideroso di sottrarsi alla congiura ostile che gli si stringe intorno e consapevole dell’inutilità di una lotta il cui esito è stato già deciso in partenza, Remigio anela a un ‘altrove’ idillico, a un rifugio nella natura-madre ("… avrebbe voluto essere in fondo alla Casuccia, a guardare la Tressa; che scorreva placida senza gorgogli, dove c’era l’erba più folta"). Ma l’idillio, nel "Podere", è inesorabilmente avvelenato dall’odio umano, che si materializza nell’incendio doloso del grano; inebetito e atterrito, Remigio finisce con il condividere la paura superstiziosa dei suoi contadini, interpretando l’accaduto come un segno di maledizione di Dio (e come una postuma punizione del padre) e si espone, inerme, al linciaggio, come un mistico agnello destinato all’immolazione. A questo punto è introdotta esplicitamente, nel romanzo, una tematica religiosa: sentendosi destinato alla perdizione, Remigio si interroga drammaticamente sui piani misteriosi di Dio ("Egli aveva paura di una cosa ignota, più consistente del suo animo. Ma, benché non avesse più pensato a Dio da tanti anni, non poteva credere che Dio volesse annientarlo a quel modo. Che cosa aveva fatto di male? Perché non poteva esistere anche la sua volontà?". La volontà di Remigio non è sostenuta dalla Grazia, ed è quindi inutile andare in chiesa: l’appello accorato a sentir messa, rivoltogli dal vecchio Picciòlo, è respinto dal protagonista, che identifica inconsciamente in Dio Padre la figura del padre temuto e ostile. Considerato un ‘diverso’ dalla comunità, lacerato dal processo di auto colpevolizzazione, Remigio è pronto ad offrirsi come vittima di una estrema violenza, che è, nel contempo, individuale e collettiva: in questa ambivalenza è il significato del delitto di Berto, "che è ad un tempo sfogo individuale di matta bestialità ed esecuzione di una faida di gruppo; e Berto è ad un tempo il protagonista di una sua privata ‘jacquerie’ e l’esecutore di un mandato sociale (Maxia, cit., p. 121). Solo in questa complessa prospettiva si comprende la conclusione del romanzo: il gesto finale di Berto non è arbitrario e forzato, come hanno sostenuto i primi critici tozziani, ma è l’atto necessario di una macchina narrativa costruita in vista dell’ultimo rito sacrificale. Remigio sa di dover essere ucciso (già in precedenza Berto ha impugnato l’accetta contro di lui), ma, ciò malgrado, si avvia inerme al suo destino di morte, in compagnia del suo carnefice. Egli è il ‘capro espiatorio’ di una società violenta, ‘civile’ solo nell’apparenza esterna ma, in realtà, carica di impulsi omicidi repressi. Non gli resta, allora, che ripercorrere le tappe della passione di Cristo, il ‘capro espiatorio’ per eccellenza della storia umana), anche se sa che la propria morte non avrà un valore salvifico. Ritorna, su questo piano, un accostamento a Kafka (in particolare, al Kafka del "Processo): anche in Tozzi, come in Kafka, la scelta della vittima è del tutto casuale, e irrazionali rimangono le ragioni dell’odio collettivo, che si scatena selvaggiamente e colpisce alla cieca; anche per gli anti-eroi tozziani, come per quelli kafkiani, non c’è compenso alcuno al sacrificio supremo della morte. Centrale nella problematica ideologico-sociale del nostro tempo (dalla questione ebraica alla questione dei negri d’America, e, in genere, degli ‘esclusi’ e dei ‘diversi’), il tema del ‘capro espiatorio’ assume, in Tozzi, connotati apocalittici e sconvolgenti: di qui la modernità e l’attualità dello scrittore senese.»

Remigio, dunque, si sente simile a un "agnello" pasquale, offerto in sacrificio per gli altri; non è solo la sua educazione cattolica che lo porta verso una tale sensazione, ma anche un atteggiamento complessivo che lo vede, sin dall’inizio, nel ruolo di vittima designata, di "perdente", di sconfitto; l’offrirsi in sacrificio, a quel punto, potrebbe anche essere, per lui, un modo come un altro per dare un significato alla sua fine inevitabile, alla sua sconfitta annunciata, che, inevitabilmente, sarà totale e senza appello.

Vi è una forte analogia con l’atteggiamento psicologico di alcuni poeti crepuscolari, ad esempio di Sergio Corazzini, che, nella poesia «Desolazione del povero poeta sentimentale» (che fa parte del «Piccolo libro inutile», pubblicato nel 1906), si abbandona non soltanto a una lugubre fantasticheria di morte, ma ad una vera e propria fantasticheria masochista, poiché si compiace al pensiero della sofferenza fisica che gli viene inflitta, prima di affrontare la fine:

«… Oggi io penso a morire. / Io voglio morire, solamente perché sono stanco / […]. / Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire. / […] / Questa notte ho dormito con le mani in croce. / Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo / dimenticato da tutti gli umani, / povera tenera preda del primo venuto; / e desiderai di essere venduto, / di essere battuto / di essere costretto a digiunare / per potermi mettere a piangere tutto solo, / disperatamente triste, / in un angolo oscuro. / […] Io non so, Dio mio, che morire. / Amen.»

Evidenti, in Corazzini, le reminiscenze bibliche e cristiane, ad esempio nella storia di Giuseppe, venduto dai fratelli, si riflette il sogno notturno del poeta che si "vede" ritornare bambino, per poi essere venduto, battuto, affamato; così come sono esplicite, in Remigio, le reminiscenze della sua educazione cattolica, il pensiero della Grazia, della quale però si sente indegno e dalla quale si ritiene abbandonato: per cui l’uno e l’altro si offrono in sacrificio senza essere realmente in grado di giovare a qualcuno o a qualcosa, ma solo per l’oscuro sentimento di un destino ineluttabile e, forse, per l’inconscia sensazione che la loro morte servirà a placare i demoni assetati di sangue umano, i demoni della malvagità, della violenza, della iracondia.

Ci domandiamo se Cesare Pavese, allorché descriveva, nel romanzo «Paesi tuoi» (scritto nel 1939 e pubblicato nel 1941), la scena cupamente drammatica della morte di Gisella, assassinata, con un colpo di forcone nella gola, da suo fratello Talino, di lei incestuosamente innamorato e geloso, avesse presente la scena conclusiva de «Il podere» di Federigo Tozzi, là dove il contadino Berto brandisce l’accetta contro il povero Remigio. Certo, vi è una differenza notevole fra i due personaggi: Remigio si offre quasi in un sacrificio consapevole, rassegnato, malinconico; Gisella, invece, ama la vita e non pensa affatto alla morte: però entrambi cadono a terra, arrossandola del loro sangue, quasi in un sacrificio espiatorio e, nello stesso tempo, propiziatorio.

Resta il fatto che l’uomo moderno, come si vede da questi e da cento altri esempi, anche stranieri, che avremmo potuto fare, sembra presentare una significativa propensione ad offrirsi in sacrificio, quasi fosse dominato da un oscuro senso di colpa e quasi intuisse che solo così può essere riscattata una colpa collettiva originaria. Una reminiscenza, distorta e inconsapevole, della concezione cristiana del sacrificio di Gesù, che si rinnova nel mistero dell’Eucaristia? Forse. Non a caso G. K. parlava delle «virtù cristiane impazzite», che dilaniano il mondo moderno con le loro schegge ovunque disperse. Ma forse c’è anche dell’altro.

Il dramma fondamentale dell’uomo moderno è la sua complessiva perdita di senso. La vita, propria e del mondo, sembra aver perso significato ai suoi occhi, e nulla è in grado di ridarglielo. Ma vivere in questo modo è semplicemente impossibile: ci si sente degli intrusi, degli ospiti non invitati, dei pezzi fuori posto. Ci si sente in colpa e si aspira alla morte; non ci si perdona l’audacia di esistere…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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