
Giolitti, Sturzo, Mussolini e altro…
28 Luglio 2015
Le macchie solari influenzano i terremoti secondo un ciclo di undici anni?
28 Luglio 2015Vi sono, nella nostra società superficiale e consumista, delle persone che s’impancano a guide spirituali e a dispensatrici di saggezza, ma razzolano male sul terreno della vita pratica, lasciandosi guidare dagli impulsi più primitivi dell’ego, e – cosa estremamente significativa — senza neppure accorgersi della contraddizione in cui vivono sprofondate, anzi, vantandosi della qualità delle loro riflessioni esistenziali, della loro supposta profondità esistenziale, e offrendosi, addirittura, quali modelli di saggezza, di spiritualità, perfino di misticismo.
Sara Maitland, romanziera e saggista britannica e insegnane di corsi di scrittura creativa, ha scritto un libro, peraltro leggibilissimo, dedicato al valore del silenzio per la riscoperta del Sé e per il raggiungimento della pace e dell’armonia interiore: «Il libro del silenzio» (titolo originale: «A Book of Silence», Granta Publications, 2008; traduzione dall’inglese di Maria Eugenia Morin, Milano, Caito Editore, 2009).
Ora, vogliamo prendere questa volonterosa signora, "creativa", "spirituale" e molto politicamente corretta, specie nel contesto della cultura ecologista e progressista anglosassone (ma quanti ecologisti, anglosassoni e nostrani, ignorano le… impresentabili radici dell’ecologismo europeo: che sono, almeno in parte, chiaramente e inequivocabilmente di "destra"!) quale perfetto esempio di quella inconsapevolezza e di quella contraddizione tra i principi e la pratica, di cui abbiamo detto sopra: perché dalle sue stesse parole emerge un contrasto così palese, da risultare perfino imbarazzante, fra ciò che ella crede di essere e ciò che dimostra di essere, che solo una ipertrofia patologica dell’ego può spiegare come non se ne avveda.
Dopo aver descritto i suo sforzi per creare un giardino fiorito in alcune località difficili, dal punto di vista climatico, della Gran Bretagna, passa a parlare del problema dei conigli; e, senza provare il benché minimo imbarazzo – o, quanto meno, senza mostrare affatto di provarlo – racconta la maniera alquanto drastica con cui ha tentato di eliminarli, sia facendoli divorare dai furetti, sia invitando dei suoi amici cacciatori a farne strage con i fucili; il tutto per potersi godere i suoi fiori preferiti in santa pace (cit., pp. 177-8):
«… Quando avevo lasciato il Northamptonshire, pensavo di continuare a dedicarmi al giardinaggio, che aveva appagato la mia sete di crescita, di bellezza, di sapere e di esercizio fisico. Purtroppo, risultò quasi impossibile creare il genere di giardno che avrei desiderato, in parte a causa delle condizioni atmosferiche estreme: non per niente la casa si chiama Weatherhill olle delle tempeste). Una saggia tradizione afferma che non si può creare un vero giardino a più di 250 metri sopra il livello del mare nel Regno Unito, e Weaterhill era assai più in alto. Non sono del tutto convinta che sia vero e forse avrei trovato un modo di venire a patti con il clima se non fosse stato per i conigli. Come Peter Rabbit imparò a sue spese, i conigli e gli esseri umani non possono condividere un giardino. Mi riesce difficile descrivere quanti conigli ci fossero; potevo guardare fuori dalla finestra e contarne cinquanta in una volta sola: tenevano l’erba perfettamente falciata, ma falciavano anche qualsiasi altra cosa tentassi di coltivare. (Tranne le giunchiglie. I conigli non mangiano le giunchiglie. In effetti ci sono molte piante che, a quanto pare, i conigli non mangiano e io continuavo a farmele spedire o a scacciare interi elenchi da Internet, ma era molto scoraggiante. Sembrava che i conigli e io avessimo gusti molto simili in fatto di piante e inoltre scoprivo spesso che loro non avevano letto gli elenchi.) Comunque, tutti i miei tentativi di escluderli risultarono vani: il muro a secco che circondava la proprietà era molto vecchio e sgretolato, era stato riparato troppo spesso e talvolta non molto bene, per cui la sua base era troppo larga per costruire un recinto efficace. (Per tenere fuori i conigli bisogna piantare la rete metallica molto a fondo nel terreno.) Invitai giovani con furetti a venire a cacciare i miei conigli; invitai giovani con fucili a venire a esercitarsi sui conigli. Un pomeriggio ne uccidemmo trentasei e l’indomani mattina ce n’erano altrettanti nel cosiddetto "giardino". Ero stata sconfitta e mi arresi.
In compenso, iniziai a passeggiare in mezzo alla natura, lontano dalla casa e dal giardino. Il silenzio mi stava già in segnando ad ascoltare e a sentire meglio, ma ora volevo che mi aiutasse a guardare e a vedere meglio…»
E via, di nuovo, là donde l’Autrice era partita: al fatto, cioè, che la solitudine e il silenzio della natura rappresentano la via maestra, o comunque una via privilegiata, per accedere alla dimensione dell’interiorità e della spiritualità…
Che, per conquistarsi uno spazio fisico ove praticare l’ascolto del silenzio e, dunque, l’ascolto del maestro interiore, sia necessario ricorrere alla violenza e alla crudeltà; che, per trovare la via della propria interiorità, sia necessario fare una strage gratuita di animali; che si possa contemplare la bellezza del creato facendo come il gigante egoista della fiaba di Osca Wilde, cioè cacciando fuori tutte le creature che ci possono disturbare con la loro presenza, anche se esse non fanno altro che vivere nel loro ambiente e cercare il cibo di cui hanno bisogno, mentre siamo noi, in un certo senso, ad invadere i loro spazi e ad erigere muri, recinti e reti metalliche, per escluderle dalla nostra proprietà artificiale: tutto questo, evidentemente, non passa neanche per l’anticamera del cervello della signora in questione.
E non si venga a dire che chiunque, se punto dalle zanzare, non esita a schiacciarle, per tentare di difendersene; sia perché il coniglio, ovviamente, non è una zanzara (con buona pace degli animalisti propensi all’integralismo, sul modello giainista — ma in India, almeno, questo ha un fondamento filosofico-religioso – per i quali uccidere un moscerino, un verme o, magari, un batterio, è cosa altrettanto grave che uccidere un cervo, un elefante o una balena), sia perché esiste una differenza sostanziale tra chi cerca solo di proteggersi dal dolore fisico (che si provino, questi signori, a fare gli animalisti integralisti in una casa in riva al fiume, nelle notti d’estate, avvolti e assaliti da nugoli di zanzare) e chi pretende di godere le bellezze di un giardino, coltivato artificialmente in un luogo isolato e selvaggio, espellendone e massacrandone i naturali abitanti (la natura non conosce diritti di proprietà); e una differenza ancora più grande passa tra chi non possiede alcuna pretesa di tipo intellettuale, morale, spirituale, e chi ce l’ha, o pretende di averla, ma poi, per servire il proprio ego, che lo porta a dire: «Questo luogo è una mia proprietà!», non esita a sopprimere decine di animali, senza mostrare il minimo imbarazzo.
Il caso di Sara Maitland è, in ogni caso, emblematico: esso illustra benissimo un atteggiamento alquanto diffuso, non solo tra le persone comuni, prive di uno specifico bagaglio culturale e di una prospettiva più ampia, di tipo spirituale, sul posto che compete all’uomo nell’insieme della natura, ma anche tra quella specifica categoria di persone che siamo soliti definire "intellettuali" e che, in certi casi, da semplici scrittori, arrivano perfino a presentarsi, o piuttosto a spacciarsi, per "maestri di vita" o "maestri di saggezza", scrivendo e pubblicando libri e tenendo conferenze e "sedute di meditazione e di consapevolezza" che assicurano loro una certa notorietà, talvolta internazionale, oltre ad un discreto benessere economico.
Del resto, non vogliamo sopravvalutare né l’importanza del ruolo pedagogico di questa scrittrice, né l’episodio da lei raccontato relativo ai conigli: ci è sembrato, però, decisamente istruttivo di un certo modo di porsi di tanti cosiddetti "intellettuali", europei e nordamericani, e anche di tante persone comuni, i quali, a parole, dicono di avere impostato la propria vita alla luce di principi altamente spirituali, e d’avere raggiunto un senso di armonia e di comunione con la natura e con gli esseri viventi non umani; ma poi, non appena la natura "resiste" ai loro disegni e ai loro progetti, non esitano un attimo ad adottare la "linea dura" contro i viventi e contro l’ambiente, in nome dell’ego.
A costoro, evidentemente, pur con tutte le loro nobili idee e le loro buone – anzi, ottime intenzioni – sembra essere sfuggita la cosa più importante, quella veramente essenziale: che ogni male della nostra vita ha una, ed una sola, radice: la malattia dell’ego. Non è inseguendo il sogno di un "ritorno" alla natura alla Rousseau, o alla Walt Disney, che si possono ritrovare l’armonia e la pace dell’anima, smarrite nella "terra desolata" dell’inferno consumista e tecnologico, ma prendendo il toro per le corna, ossia affrontando, per primissima cosa, la malattia degenerativa del proprio ego: solo dopo aver riportato la vittoria contro questo avversario, si può pensare di trovare davvero l’armonia e la pace interiori.
Sia ben chiaro: non è l’ego, in se stesso, il male; sarebbe come dire che il corpo è male, perché soggetto alle malattie: no, l’ego non è bene, né male, esso è un elemento necessario dell’anima, dal quale non possiamo prescindere. Quello che è male, è lasciargli la briglia sciolta sul collo, viziarlo, permettergli di uscire dai suoi giusti limiti, farsi norma assoluta a se stesso, invadere gli spazi altrui, dominare tutti i nostri pensieri e i nostri sentimenti: questo è il male.
Che cos’è, infatti, che maggiormente ci ostacola nel raggiungimento dell’armonia e della pace dell’anima, se non l’invadenza petulante, sfacciata, incorreggibile, del nostro ego, il quale chiede, vuole, pretende, sempre più attenzioni, sempre più riconoscimenti, sempre più visibilità, sia nella forma del domandare, dello sperare, del desiderare, sia nella forma, opposta ma perfettamente speculare, del temere, del lamentare, del commiserarsi? È quella, la zavorra che ci impedisce di volare in alto; sono quelli il peso, il fardello, la soma che ci tengono con i piedi attaccati, troppo attaccati, alla terra, o meglio, sprofondati nella palude fino alle ginocchia, fino alle cosce, fino alla vita, e ci fanno camminare con lo sguardo chino, rivolto verso il basso, senza più nemmeno l’istinto di alzarlo per ammirare il cielo.
È dall’ego che vengono l’invidia, la gelosia, il rancore, la superbia, l’arroganza, la malevolenza, la calunnia, il pettegolezzo, la maldicenza, la disonestà, la menzogna, l’inganno, la frode, l’ambizione smodata, la fiducia mal riposta, la cattiveria gratuita, l’insinuazione subdola, il suggerimento perfido, l’ipocrisia perbenista, la slealtà, il tradimento, l’intrigo, la perfidia, lo sfruttamento del lavoro altrui, il ricatto morale nei confronti del prossimo, la volontà di manipolare quanti ci stanno intorno, l’adoperare due pesi e due misure nel giudicare noi e gli altri, la doppia morale fra la propria parte e quella degli altri, la ricerca inconfessata (e inconfessabile) di secondi fini, l’abuso della disponibilità di quanti ci vogliono bene, l’invadenza, la mancanza di discrezione, la brama di possesso, il terrore patologico di perdere ciò che si possiede, o che si crede di possedere: dimenticando che nessuno di noi possiede alcunché, tranne la propria anima, e che su quella bisogna lavorare, quella bisogna curare, quella bisogna accudire, senza concedersi eccessive indulgenze, senza cedere all’auto-compatimento, senza accampare scuse per giustificarci quando dobbiamo solo rimproverare la nostra vigliaccheria e la nostra avidità.
Certo, arriva il momento in cui, affinando la consapevolezza di sé, ci si accorge di avere realmente tante, troppe cose da perdonarsi: e come lo si potrebbe fare, da se stessi, in quanto esseri umani? Quale uomo e quale donna possiedono abbastanza forza, e abbastanza coraggio, per arrivare a perdonarsi, dopo aver gettato uno sguardo sino al fondo di se stessi, e avere visto, con un minimo di chiarezza e di onestà, quanto dense, quanto oscure e quanto incorreggibili siano le nostre tendenze egoiche? Nessuno, crediamo: ed ecco perché abbiamo bisogno che a perdonarci sia qualcun altro. Non semplicemente un altro uomo e un’altra donna, i quali, molto spesso (come fanno tutti), ci assolveranno per assolvere, almeno un poco, anche se stessi, e ci perdoneranno, almeno un poco, per essere perdonati a loro volta. No, abbiamo bisogno di qualcosa di più grande, di una certezza molto più elevata: che a perdonarci sia Qualcuno che lo può, perché non si aspetta di ricevere nulla in cambio, né ora, né mai. E a fare questo non può essere una creatura umana, perché nessuna creatura umana, per quanto pura e spirituale, sarà mai capace di arrivare a tanto; in nessuna è del tutto scomparso il velo dell’ego, in nessuna si è fatta luce fino al disinteresse competo e alla benevolenza universale, totale, incondizionata.
Solo Dio lo può: e lo può non perché noi ne siamo degni, ma semplicemente perché è l’Amore, quello vero, quello che non domanda, che non delude, che non si esaurisce mai.
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