
Fino a che punto è giusto coltivare la virtù dell’umiltà?
28 Luglio 2015
Non v’è tirannia peggiore, come ammonisce Kierkegaard, di quella della Folla
28 Luglio 2015Quando L. A. de Bougainville sbarca a Tahiti e s’imbatte… nel «buon selvaggio» di Rousseau

18 giugno 1767: il capitano Samuel Wallis, comandante della nave di Sua Maestà britannica «Dolphin», nel corso del suo viaggio di circumnavigazione della Terra, dopo aver superato lo Strettoi di Magellano e avere attraversato il Pacifico da Est a Ovest, giunge in vista di un’isola tropicale fertile e bellissima, dal clima incantevole, posta quasi al centro dei lontani Mari del Sud e abitata da una popolazione fisicamente attraente e ben proporzionata, per non parlare dello splendore delle giovani ragazze, isola che egli battezza con il nome, un po’ banale, di Terra di Re Giorgio III, in onore del suo sovrano, ma che sarebbe passata alla storia con un nome molto più esotico e musicale: Tahiti.
La scoperta delle isole della Polinesia, e specialmente di Tahiti, significò, per l’Europa, l’irruzione di una vera e propria moda culturale, che avrebbe dominato l’immaginario collettivo, e alimentato la poesia, la danza, le arti figurative e, più tardi, anche il cinema, per almeno un secolo e mezzo – ne troviamo il riflesso nei romanzi e racconti avventurosi di Robert Louis Stevenson e nelle tele, piene di freschezza e di colore, di Paul Gauguin – dalla fine del XVII secolo, a tutto l’Ottocento e fin dentro il XX secolo, ad esempio nel romanzo «Martin Eden» dell’americano Jack London, pubblicato nel 1909, o in quello del francese Jean Giraudoux «Susanna e il Pacifico» («Suzanne et le Pacifique»), apparso nel 1921.
Così è stato ricostruito quel lontano, ma importante episodio nella storia della civiltà occidentale moderna (da: E. Morris e altri, «Great Adventures that changed our World», The Reader’s Diges Association, 1978; traduzione dall’inglese M. G. Crespi e altri, «Le grandi esplorazioni che cambiarono il mondo», Milano, Selezione dal Reader’s Digest, 1979, pp. 183-5):
«[…] il 2 aprile 1768 si profilò all’orizzonte una terra: "Ci dirigemmo a nord rispetto a essa, per vederla meglio, quando avvistammo un’altra terra in direzione O-NO, la cui costa non era altrettanto alta, ma si stendeva per un lungo tratto davanti ai nostri occhi…" Bougainville aveva avvistato Mehetia e aveva trovato – ma non scoperto — la più bella isola del Pacifico: Tahiti.
All’inizio, Tahiti si comportò come una sirena: tenne lontane le navi francesi con una bonaccia, poi scomparve dietro un velo di fischia, infine presentò un litorale battuto dalla risacca e apparentemente senza porti riparati. Solo il 6 aprile le navi riuscirono a superare le scogliere esterne della laguna Hitiaa e subito si accalcarono intorno a "La Boudeuse" tante canoe che il comandante ebbe difficoltà a trovare un buon ancoraggio.
Egli fece anche fatica a "tenere al lavoro i 400 marinai francesi, che da sei mesi non vedevano delle donne". Le canoe erano piene di ragazze, "per la maggior parte nude", inviate per invitare i visitatori a terra. Una di quelle "belle ragazze" si arrampicò sul ponte di comando de "La Boudeuse" mentre i marinai stavano ancora manovrando l’argano. "La ragazza lasciò cadere con noncuranza il pezzo di stoffa che la copriva e apparve agli occhi dei marinai come Venere al pastore frigio… l’argano non fu mai azionato con maggiore alacrità che in questa occasione".
Nei giorni successivi, Bougainville usò quasi sempre citazioni classiche per descrivere le bellezze di Tahiti, paragonando il suo panorama a quello del paradiso, la sua musica ad antichi canti d’amore, e la sua popolazione a divinità greche. Arrivò al punto di chiamare l’isola Novella Citera, ricordando il luogo di nascita di Afrodite, dea dell’amore. Il suo entusiasmo era comprensibile perché Tahiti era veramente uno dei luoghi più belli del mondo, ma idealizzando così gli indigeni egli creò un mito che dura tuttora. I Francesi avevano assorbito a fondo la filosofia del "nobile selvaggio"sviluppata dal loro compatriota Jean Jacques Rousseau, il quale sosteneva che gli esseri umani solo vivendo a contatto con la natura potevano essere libri e virtuosi. . Bougainville, passeggiando in valli verdissime al suono di flauti e accettando doni di fiori e di frutta "vide l’ospitalità aperta, la tranquillità, la gioia innocente e tutte le apparenze della felicità", ma non si accorse degli incesti, degli infanticidi, delle rigide distinzioni di classe sociale che un altro esploratore più obiettivo avrebbe descritto di lì a poco. Neanche i furti incessanti dei suoi ospiti, che offrivano banane con una mano mentre con l’altra sottraevano tutto quello che potevano, offuscarono la sua ammirazione; egli scrisse: "Che paese incantevole! Che popolo meraviglioso!"
Pare che alcuni membri dell’equipaggio fossero meno affascinati dalle qualità degli indigeni di quanto non fosse il comandante; l’assoluta mancanza di moralità e il ladroneccio attraevano e nello stesso tempo disilludevano i marinai, incapaci di capire un tipo di vita così diverso da quello dell’Europa. Il 10 aprile fu trovato un indigeno assassinato e due giorni dopo altri tre furono colpiti con la baionetta da soldati de "La Boudeuse". Il principe di Nassau arrestò quattro indiziati; non riuscendo a stabilire le responsabilità di ognuno, Bougainville fece incatenare i colpevoli e decise di far loro tirare a sorte che sarebbe stato impiccato per l’assassinio, ma essi erano comprensibilmente riluttanti a partecipare a quel macabro gioco. Il principe di Nassau si offrì allora di presentare scuse formali a Ereti, il capo dei Tahitiani, e con il suo nobile portamento riuscì a superare le difficoltà del linguaggio e a ristabilire relazioni amichevoli.
I Francesi ebbero presto sentore di non essere i primi Europei a visitare Tahiti: un isolano, vedendo l’arsenale di armi da fuoco a bordo de "L’Étolie", gridò: "pum-pum!" e fece segno di morire; notarono in seguito altri segni della visita effettuata dal capitano inglese Samuel Wallis solo otto mesi prima, ma ciò non impedì a Bougainville di prendere formalmente possesso dell’isola a nome della Francia. Al termine della visita di nove giorni, egli piantò un giardino commemorativo di "piante di frumento, orzo, avena, mais, cipolle e ortaggi" e vicino alla Spiaggia sotterrò una Dichiarazione di Possesso e una bottiglia contenente una lista con i nomi degli ufficiali delle due navi. Il 15 aprile la flotta riprese il mare.
Ereti seguì "La Boudeuse" al largo oltre la scogliera con la sua canoa piena di doni e di ragazze in lacrime. Come ultimo favore chiese a Bougainville di prendere con sé un indigeno, Ahutoru, che desiderava vedere il mondo; il comandante acconsentì ad accettare quel ricordo vivente di Tahiti e diede ad Ahutoru il permesso di salire a bordo. Il giovane baciò la sua ragazza in segno di addio, "le diede tre perle che aveva agli orecchi, la baciò ancora una volta e, nonostante le lacrime della giovane donna, si staccò da lei… Così lasciammo quella brava gente e io non fui meno meravigliato al dolore che dimostrarono alla nostra partenza di quanto fossi stato al vedere l’affettuosa confidenza con cui ci avevano accolti.»
Fin dall’inizio, dunque, si può dire che la fama di Tahiti, la sua idealizzazione, la diffusione del suo mito in Europa, nacquero da una serie di equivoci o di visioni parziali, selettive, se non proprio di autentiche distorsioni rappresentative: gli Europei non videro, o — in un certo senso — si rifiutarono di vedere, tutta una serie di cose che avrebbero disturbato alquanto il loro bisogno d’immaginare quell’isola come un ritrovato Paradiso Terrestre: ad esempio le guerre tribali, i sacrifici umani, il cannibalismo.
In compenso, scelsero e ingigantirono tutta un’altra serie di fatti e di circostanze, compresa la venustà degli abitanti, e specialmente delle donne; ma bisogna pensare che quei disgraziati marinai, tutti maschi nell’età della massima potenza virile, non toccavano terra, e quindi non vedevano un essere umano di sesso femminile, da settimane e mesi: come biasimarli se cedettero di scorgere delle autentiche dee, nelle "vaihnè" tahitiane, oltretutto pochissimo vestite e ancor meno reticenti delle loro grazie, specie se in cambio ottenevano dei piccoli regali o se si trovavano in condizione di rubare esse stesse, o far rubare dai loro compagni maschi, un po’ di quegli oggetti meravigliosi di cui abbondavano così sfacciatamente i marinai dalla pelle bianca?
Eliminare il negativo, gonfiare il positivo: et voilà, il gioco è fatto: nasce il mito dei Mari del Sud.
Che sia nato così facilmente, e quasi spontaneamente, lo si capisce meglio tenendo conto del particolare momento storico-culturale che l’Europa stava allora vivendo: con ilo diffondersi della filosofia illuminista, era in atto una reazione, ora segreta, ora — più raramente, per il momento — scoperta, contro la tradizione, contro il cristianesimo, contro la "civiltà", e questo, paradossalmente (ma forse non tanto) proprio in nome della Ragione. Si disprezzava la civiltà con lo strumento della ragione; si corteggiava l’utopia di un mondo migliore, di un nuovo Paradiso in terra, grazie ad un allontanamento dalla civiltà: Rousseau predicava che l’uomo è tanto più buono e felice, quanto più è vicino alla natura e lontano dalla società corruttrice.
Ora, ecco che la scoperta di Tahiti e di una umanità primitiva, sì, ma anche, nello stesso tempo, apparentemente bella e felice, bella e spensierata, bella e in pace con se stessa, giungeva in buon punto per rafforzare e consolidare i vagheggiamenti di Rousseau e le nascenti sdolcinatezze del pre-Romanticismo, tutte a base di fanciulle indigene virtuose e infelici, come Atala (di Chateaubriand), o di fanciulle europee sbocciate dolcemente nei mari tropicali, come Virginia (di Bernardin de Saint Pierre), le quali, rese infelici dal ritorno nella "civile" Europa, morivano di nostalgia, finché non giungevano a rivedere le loro isole natie (Mauritius, in questo caso, nel sud dell’Oceano Indiano) per poi morire, veramente, nel naufragio della loro nave, sotto lo sguardo impotente e disperato dei loro giovanissimi innamorati.
Ecco, infine – si pensava allora – una terra lontana, popolata da uomini e donne felici, perché non intristiti e non pervertiti dalla civiltà, dal cristianesimo, dal noioso retaggio della cultura europea; ecco una umanità che rassomiglia a quella adamitica, ignara di colpa e di peccato, libera, serena, in pace con se stessa e con il mondo (cosa palesemente falsa, come si è visto), in armonia con la natura (altro grossolano equivoco o, peggio, deliberata mistificazione: oggi sappiamo che gli abitanti dell’Isola di Pasqua hanno letteralmente desertificato la loro terra, sconvolgendone anche il clima, mediante la distruzione delle sue dense foreste, testardamente, fino all’ultimo albero). Pareva che le teorie del "buon selvaggio" avessero trovato la conferma nella realtà.
In un certo senso, se negli ultimi decenni del XVIII secolo è nato il mito dei Mari del Sud, ciò è stato reso possibile non solo dalla nostalgia, di matrice cristiana, del Paradiso terrestre, perduto a causa del Peccato originale; ma anche, e forse soprattutto, da un atteggiamento mentale e spirituale ancora confuso e indistinto, che solo molto più tardi avrebbe ricevuto un nome preciso, e che oggi sembra aver toccato il diapason: l’oicofobia, cioè il disprezzo, il rifiuto ed il rinnegamento delle proprie radici culturali, della propria tradizione e della propria identità, da parte dei popoli europei. Si è trattato di un profondo, diffuso, patologico, disgusto di se stessi, che si è particolarmente espresso nelle due direzioni del nichilismo, della nausea e del male di vivere (fino a Sartre, Montale, Moravia e oltre) e della esaltazione ingenua, fanatica, unilaterale, delle tradizioni culturali altrui, tanto meglio se "primitive", viste aprioristicamente come "migliori", più felici, più armoniose, più degne di rispetto e ammirazione, delle proprie.
Ed ecco che il mito della"negritudine", nel XX secolo, viene ad integrare il disamore dell’Europa verso se stessa; ecco che un certo terzomondismo, sovente di matrice marxista, ma anche, in parte, di matrice cattolica (le due cose, del resto, non si escludono a vicenda, come si potrebbe credere, se la cultura europea fosse davvero così ragionevole come ama rappresentarsi), cavalca il malessere della coscienza infelice europea e si intreccia con il fastidio per l’identità europea, ultima versione del fastidio che la classe dominante europea dal XIX al XX secolo, la borghesia, ha avuto di se stessa, come si vede non solo nelle opere letterarie e filosofiche, ma anche nel cinema, dove per decenni è stato normale che i registi borghesi, finanziati da produttori borghesi, riempissero le sale di pubblico borghese, per rovesciare sulla borghesia medesima, sui suoi valori, sul suo modo di vivere, sul suo stesso diritto di esistere, gli insulti più atroci, le beffe più oscene, le critiche più unilaterali e farneticanti (valga per tutti il caso di P. P. Pasolini come regista, da «Teorema», del 1968, a «Salò o le 120 giornate di Sodoma», del 1975, passando per «Porcile». Del 1969. Ma è un vezzo, questo, che parte da lontano: in letteratura, almeno da «I Buddenbrook» di Thomas Mann, del 1901, e senza certo dimenticare «Gli indifferenti» di Moravia, del 1929.
Più che di coscienza infelice, per codesti intellettuali, si dovrebbe parlare di cattiva coscienza…
Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio