
La congiura di Ricimero contro Avito apre l’ultima fase dell’Impero Romano d’Occidente
28 Luglio 2015
Il mite cervo dell’Eden simboleggia la natura felice prima della colpa originaria
28 Luglio 2015Perché proprio io? Perché proprio a me e non a un altro; o proprio a te, o a lui, a lei? È il caso o la necessità a reggere le fila delle vicende umane? E, se non è il caso, si tratta di un destino imperscrutabile o di una ben precisa Provvidenza? Siamo predestinati? E, se è così, rimane ancora spazio per il libero arbitrio?
Un giorno cinque persone perirono nel crollo di un antico ponte di travi di legno, intrecciate con delle liane, nel vicereame spagnolo del Perù. Quel ponte esisteva da moltissimo tempo, sospeso sull’abisso di un fiume che scorreva in un profondo burrone; aveva retto e sopportato il peso di innumerevoli viaggiatori: ma quel giorno, tutto ad un tratto — e senza avvisaglie ammonitrici — aveva ceduto, di schianto. Ogni giorno decine, centinaia di persone erano transitate sopra le sue assi; moltiplicate per il numero di anni da che quel ponte esisteva, si deduce che erano state in decine di migliaia a transitare da una sponda all’altra, sempre passando indenni, tanto che il ponte appariva ormai quasi come un elemento del paesaggio, una cosa di cui sarebbe stato inconcepibile immaginare che avrebbe potuto venir meno.
Migliaia e decine di migliaia erano passate; ma quelle cinque persone, in quel certo giorno del 1714, trovarono improvvisamente la morte. Il calcolo delle probabilità, che aveva reso un simile evento altamente improbabile, almeno proprio per quei cinque, si era rivoltato contro di loro. Perché? Che significato aveva avuto la loro morte, se un significato c’era? Domande difficili; domande profonde; domande scomode. A farsele era stato un padre cappuccino, fra Ginepro, che, avendo assistito alla tragedia, non aveva più potuto pensare ad altro, e si era messo a indagare sulla vita di quelle cinque persone, di quei cinque sconosciuti, per cercare di giungere ad una risposta, a intravedere una luce che sciogliesse i suoi dubbi e le sue inquietudini.
Forse, quelle cinque persone non si erano trovate lì per caso; non per caso tutte insieme, non per caso nello stesso istante. E non per caso erano morte INSIEME. Doveva esserci, nella trama delle loro vite, qualche cosa che spiegava quell’apparente casualità; qualche cosa che le legava in un senso profondo, misterioso, che senza dubbio esse ignoravano del tutto. Di che poteva trattarsi? Qual era il filo rosso che congiungeva e annodava quelle cinque vite, quelle cinque esistenze a prima vista tanto diverse, sia dal punto di vista sociale ed economico, sia dal punto di vista morale e spirituale; o che, almeno, sembravano essere così diverse?
Tale la situazione immaginata dallo scrittore americano Thornton Wilder nel suo romanzo «Il ponte di San Luis Rey», scrittoi nel 1927, che è poi stato trasposto per ben tre volte sugli schermi cinematografici da altrettanti registi – da Mary McGuckian nel 2004; da Ronald W. Lee nel 1944 e da Charles Brabin nel 1929 -, di cui riportiamo qualche passo iniziale (traduzione di Lauro De Bosis, Milano, Mondadori, 1964, pp. 21-26):
«Il venerdì 20 luglio 1714 a mezzogiorno, il più bel ponte di tutto il Perù si spezzò, precipitando cinque viaggiatori nell’abisso sottostante. Questo ponte si trovava sulla strada maestra fra Lima e Cuzco, e centinaia di persone lo attraversavano ogni giorno; era stato intessuto di giunchi dagli Incas, più di un secolo prima, e chi veniva a visitare la città era sempre condotto a vederlo. Era formato da una pura e semplice scala di lamine sottile, sospesa sul precipizio, con balaustre di liane secche. I cavalli, i cocchi, le portantine erano obbligati a scendere più di cento metri al di sotto del ponte, per attraversare su zattere l’angusto torrente; ma nessuno, neppure il viceré o l’arcivescovo di Lima, preferiva scendere con i bagagli anziché passare sul famoso ponte di San Luis Rey. San Luigi di Francia in persona lo proteggeva, col nome e con la chiesetta di argilla posta sull’altra sponda. Quel ponte sembrava far parte delle cose che durano in eterno, non era pensabile che si spezzasse. […]
Ma se tutti rimasero profondamente impressionati, un uomo solo seppe far qualche cosa, e questi fu frate Ginepro. Per una serie di coincidenze tanto straordinarie da far quasi sospettare la presenza di un’Intenzione, accadde che questo fraticello di pelo rosso, nativo dell’Italia Settentrionale, si trovasse appunto nel Perù, intento a convertire gli indiani, e fosse testimone della disgrazia. Era un meriggio assai caldo, quel meriggio fatale, e frate Ginepro, spuntando da dietro la collina, si fermò per asciugarsi la fronte, contemplare la cortina di picchi nevosi in lontananza, e affondare poi lo sguardo della gola che si apriva sotto di lui, ricolma delle piume oscure di alberi verdi, piena di uccelli verdi, attraversata dalla sua passerella di vimini. Frate Ginepro era lieto: le cose non andavano male. Egli aveva riaperto diverse chiesette abbandonate, e gli indiani cominciavano a entrare, strisciando, all’ora della prima messa, e gemevano, all’elevazione, quasi si spezzasse loro il cuore. Era forse l’aria purissima che spirava su di lui dalle cime nevose: forse era il ricordo, che lo sfiorò un attimo, del Salmo, invitandolo ad alzare gli occhi sui giovevoli monti. Comunque, era in pace. Poi il suo sguardo cadde sul ponte. In quel momento un rumore vibrante empì l’aria, come quando la corda di uno strumento musicale si spezza in una stanza abbandonata, ed egli vide il ponte dividersi e scagliare nella valle sottostante cinque formiche gesticolanti. Qualunque altra persona avrebbe detto fra sé, con gioia segreta: "Fra dieci minuti anch’io!…". Ma il pensiero che colpì frate Ginepro fu un altro: "Perché è toccata a QUEI cinque? ". Se esiste nell’universo qualche piano, se nella vita umana v’è un disegno, certo lo si può scoprire, misteriosamente latente, in quelle vite così improvvisamente troncate. O noi siamo vivi per caso, e per caso moriamo, , o viviamo secondo un piano, e secondo un piano moriamo. In quell’istante frate Ginepro prese la risoluzione di investigare la vita segreta delle cinque persone, che precipitavano per l’aria, di sorprendere il motivo della loro morte. […]
Così fu che, al momento del disastro, sorse in lui la decisione che lo portò ad affaccendarsi per sei mesi, battendo a tutte le porte di Lima, formulando migliaia di domande, riempiendo taccuini a dozzine, nel suo sforzo di dimostrare che ognuna delle cinque vite perdute formava una perfetta unità. […]
Alcuni sostengono che non sapremo mai, che per gli dèi noi siamo come le mosche uccise dai bambini nelle giornate estive. Altri dicono che perfino i passeri non perdono una penna senza che il dito stesso di Dio si muova per farla cadere.»
Lasciamo al lettore che sia curioso di approfondire il bel libro di Thornton Wilder, di cerare, nelle sue pagine, la risposta cui arrivò, o cui ritenne di essere arrivato, l’umile fra Ginepro, che pagò con la vita la sua pretesa di leggere nei disegni della Divina Provvidenza; sta di fatto che il problema da lui posto sul tappeto è terribilmente serio e scottante, anche se noi — solitamente — ce lo poniamo in presenza di una disgrazia, come appunto accadde per quei cinque viandanti peruviani.
In effetti, se le vicende umane siano governate dal caso oppure no — ma perché limitare la domanda solo alle vicende umane? perché non estenderla anche al passero che saltella sul ramo, e al più piccolo filo d’erba? -, è cosa che ci dovrebbe interessare sempre, e non solo allorché andiamo a sbattere contro una disgrazia o ci troviamo ad affrontare qualche evento inatteso e impegnativo, che ci interroga a fondo sul senso del nostro vivere.
Alcuni pensano, come Pirandello, che noi siamo soltanto delle misere marionette, dei burattini manovrati da un burattinaio impazzito, trascinati qua e là senza senso e senza speranza, destinati a consumare la nostra intera vita recitando una commedia assurda, senza mai essere noi stessi — anche perché, sotto le maschere che indossiamo, c’è, comunque, il nulla. Altri, come fanno i calvinisti, immaginano che il nostro destino, non solo terreno, ma anche ultraterreno, sia segnato dalla mano di Dio prima ancora che veniamo al mondo: siamo predestinati all’inferno o al paradiso, e non ci possiamo fare nulla, se non cercare di placare la nostra angoscia con una frenetica attività sociale e lavorativa, sì da trovare, nell’eventuale successo che raggiungeremo, qualche debole indizio della benevolenza divina e, quindi, chissà come, della nostra salvezza finale. Ma perché mai Dio dovrebbe destinarci al Paradiso, semplicemente in base al fatto che abbiamo avuto successo negli affari di questo mondo, non è chiaro a nessuno, come non lo era allo stesso Calvino.
Altri ancora escludono sia il caso, sia una rigida predestinazione divina, e pensano che a determinare gli eventi della nostra vita sia un misto di libertà e di necessità, ma con una sostanziale prevalenza della prima sulla seconda. Dato per scontato che la libertà assoluta non esiste — e ci sembra perfino superfluo volerlo dimostrare: basta guardarsi intorno — resta l’ipotesi di una libertà relativa e condizionata; non così relativa, però, né così condizionata, da impedire all’uomo di assumersi la sostanziale responsabilità della propria vita, delle scelte importanti, del destino che ci attende. La necessità esercita un certo peso, un certo condizionamento, ma non tali da annullare il nostro libero volere: diversamente, ricadremmo nella prima ipotesi di lavoro, quella che vede l’uomo come una misera marionetta, sballottata qua e là dai capricci del caso.
Le cinque persone che stavano transitando sul ponte di San Luis Rey, come le 100.000 vittime del terremoto di Messina del 1908, o come le 3.000 vittime perite nell’attentato alle Torri Gemelle di New York, l’11 settembre del 2001, erano, certamente, molto diverse l’una dall’altra: per età, condizione sociale, cultura, moralità, stato civile, eccetera. Eppure sono morte nello stesso istante, spazzate via da un unico evento imprevedibile, o, quantomeno, altamente improbabile. Che cosa ha significato quella morte, per esse? E che cosa significa la morte, in generale? Bisogna considerarla necessariamente una disgrazia? E, se sì, per chi esattamente: per chi muore, o per coloro che restano, gli amici, i parenti? Quante domande: e tutte senza una risposta certa. La verità è che noi crediamo di sapere molto, e invece sappiamo poco, pochissimo. Conosciamo ed elenchiamo numerosi fatti, questo sì; il sapere scientifico, in particolare — perfettamente legittimo, anzi, perfino bello ed entusiasmante, nell’ambito che gli è proprio, ossia quello della natura — ci ha abituati a pensare che sapere una cosa equivalga a conoscerla: ma non è vero affatto. Noi possiamo sapere come vive un mammifero, cosa mangia, come si riproduce, eccetera; ma non conosciamo nulla di ciò che la vita è per lui, di quel che egli sente — o forse non sente — circa il fatto d’essere vivo. Meno ancora sappiamo della morte. Possiamo descriverla, catalogarla, farne delle tabelle statistiche: possiamo stabilire quanti individui muoiono per una certa causa, quanti per un’altra; a che età, mediamente, essa colpisce una certa specie vivente, a che età ne colpisce un’altra. Ma che cosa essa sia, in se stessa, non lo sappiamo. Non con gli strumenti della scienza, in ogni caso.
Ecco, questo è il punto: sapere come avviene una cosa non significa conoscere realmente quella cosa. Noi possiamo studiare un occhio, l’organo della vista; possiamo descriverlo, sottoporlo a svariati esperimenti; possiamo mostrare esattamente come funziona, e per quali cause può funzionare male, e cosa si potrebbe fare per restituirgli la sua funzionalità, o una parte di essa: ma che cosa sia, in effetti, non lo sappiamo. Possiamo aggirare l’ostacolo, affermando che esso è paragonabile ad una macchina fotografica: bella definizione, elegante: dà l’impressione di contenere un significato profondo. Peccato che non significhi proprio nulla. La macchina fotografica è stata realizzata sul modello dell’occhio, e non viceversa; dunque, dire che l’occhio somiglia a una macchina fotografica, è press’a poco come dire che il camion che corre sulla strada, col suo carico, poniamo, di ghiaia, o la barca a vela, che scivola elegantemente sulle onde, corrispondono al minuscolo camion di plastica con cui gioca un bambino, ed alla barchetta di plastica che mette a galleggiare sull’acqua di una fontana. È ovvio che corrispondano: sono stati i giocattoli ad essere realizzati sul modello del camion e della barca, e non il contrario; dunque, è perfettamente logico che presentino una certa rassomiglianza con essi.
Forse, quando ci troviamo in presenza di un evento che ci afferra, che ci trascina, che ci sembra più grande di noi — sia nel male, che nel bene — la domanda giusta che dovremmo farci non è: «Perché proprio io?», ma bensì: «Cosa può insegnarmi questo fatto? Cosa posso fare per renderlo significativo, per apprendere da esso tutto quel che mi vuole trasmettere?». La vita è lotta, movimento, conquista: conquista di noi stessi. Siamo chiamati a realizzarci, a divenire quel che dobbiamo essere. Tale è la nostra vocazione, la vocazione umana («Fatti non foste a viver come bruti», dice il gran padre Dante, in quei famosi versi che tutti conoscono). La morte? Anche lei ha qualcosa da insegnare: anzi, lei soprattutto: a noi e ai nostri cari. Basta far silenzio e ascoltare.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels