
I morti dimenticati sono un perenne rimorso per la coscienza morale dell’intera umanità
28 Luglio 2015
Al disopra dell’incertezza e del rischio della vita, la salda roccia e la luce divina
28 Luglio 2015Nei «Lamenti» di Jan Kochanowski lo straziante dolore d’un padre per la figlioletta morta

A Jan Kochanowski (1530-1584), umanista raffinato e autentica personalità d’artista, va il merito di aver portato la poesia polacca ai livelli più alti mai raggiunti, al punto da poter essere considerato quasi come il suo creatore.
Vasta e varia è la sua produzione letteraria, che spazia dal poemetto satirico, alla lirica patriottica, alla tragedia, all’elegia, all’epigramma; la sua opera più famosa e più toccante, tuttavia, che fa il suo nome amato e venerato non solo in Polonia, ma nel mondo, sono i «Lamenti» («Treny»), scritti nel 1589, una raccolta di diciannove liriche nelle quali dà voce al suo lacerante dolore di padre per la morte dell’amatissima figlioletta Orsola (Urszula), di soli due anni e mezzo, che aveva mostrato una eccezionale predisposizione per la musica; dolore che lo accomuna idealmente a quello di Cicerone per la morte dell’amatissima figlia Tullia.
Proprio di Cicerone il Kochanowski era stato studioso e traduttore; e la suggestione della cultura classica era stata così forte da sospingerlo verso una visione stoica della vita. Ma ora, nello sconsolato dolore di un padre che ha perso la sua creatura, egli sente tutto il vuoto della fredda saggezza degli antichi e ritorna, nell’ultimo componimento della raccolta, alla fede cristiana, che gli dice di non disperarsi per la piccola Orsola, la quale è passata da un mondo ingrato e pieno di contrarietà, ad un altro sereno e luminoso, trasformata in una stella che brilla alta nel cielo e che indica la via della pace anche al suo affranto genitore:
«O mia leggiadra Orsola, dove sei sparita?
Da quale parte, in qual paese sei finita?
Forse ora sei lassù nei cieli sublimi,
e t’hanno accolta tra i piccoli cherubini?»
Ci piace riportare una pagina, su questo argomento, della slavista Marina Bersano Begey, nella sua ormai classica monografia «La letteratura polacca» (Firenze, Sansoni, e Milano, Edizioni Accademia, 1968, pp. 46-47):
«Quasi contemporaneamente [alla composizione della tragedia "Il rinvio degli ambasciatori", del 1578] il Kochanowski compose il suo capolavoro, i "Treny" scritti nel 1579 sotto l’impulso del grande dolore della sua vita: la morte della figlioletta Urszula avvenuta in quell’anno. Nulla di convenzionale, di imitato è in questo epicedio, formato da diciannove brevi componimenti di varia forma metrica. In essi il Kochanowski effonde l’anima sua e traccia un ritratto indimenticabile della bimba:
"Figliola mia diletta un vuoto desolato
Nella casa è rimasto, da che tu ci hai lasciato.
Siam molti: ma la casa sembra di tutto priva,
una piccola anima tanto di sé la empiva!
Tu parlavi per tutti, per tutti tu cantavi!
Percorrevi di casa ogni angolo…"
E più innanzi:
"O mia spiga adorata, ancor pria che matura
tu fossi, senza attendere neppur la mietitura
Nel mesto suol ti semino ed insieme
Seppellisco anzitempo in esso ogni mia speme
Perché per tutti i secoli mai più non fiorirai
Dinnanzi agli occhi del padre tuo più mai… (trad. E. Damiani)
Il rimpianto perché la figliola non sarà un giorno sposa felice si congiunge alo strazio dei ricordi evocato dal vago vestito, dalla cintura dorata, dai bei nastri che la madre le ha donato invano: il sonno della fanciulletta è ferreo, infinito:
""Ahimè! Corredo e spoglie
Un solo scrigno accoglie!" (trad. E. Damiani)
Ma dove sarà andata Urszula? In purgatorio, in paradiso, o forse, trasformata in usignolo nelle Isole della Felicità? Nessuno di questi luoghi prende forma concreta nella poesia: l’incertezza desolata grava sul cuore del padre. Ma il dubbio è passeggero: un’alta affermazione di fede chiude il ciclo doloroso; nel "Sogno" egli sente che la bimba ha lasciato un mondo di dolore per un mondo sereno dov’ella stessa risplende come la stella del mattino. Urszula appare circonfusa di mistero, ma del mistero pieno di speranze che avvolge la morte cristiana. Il padre sa che ella ha mutato le lagrime nella gioia eterna.»
Certo, i versi scritta da Jan Kochanowski per la fanciulla Urszula richiamano alla mente altri versi, sia antichi che moderni: da quelli, bellissimi e giustamente famosi, di Marziale, in memoria della piccola Erotion, a quelli, del pari intensi e commoventi, di «Pianto antico» del nostro Carducci; si avverte, però, in essi, una assoluta freschezza e sincerità d’ispirazione, così come si sente il dramma dell’uomo che, imbevuto di filosofia classica e di ideali umanistici, si sente tuttavia come un povero albero schiantato dal dolore inconsolabile, e solo nell’abbandono fiducioso alla promessa cristiana riesce a trovare sollievo e pace dopo così acerba sofferenza.
Qui sta, appunto, la maggiore differenza fra la condizione affettiva e spirituale di Kochanowski e quella di Cicerone (e anche del nostro Carducci): se uguale, infatti, è lo strazio paterno, e del tutto paragonabili sono le parole di cupa, disperata solitudine per il distacco dalla figlia amata, in quelle del romano manca – né poteva essere altrimenti – quello squarcio d’azzurro, di cielo, d’aria pura, che l’età in cui egli visse non consentiva, trattandosi — come è stato osservato — di un lungo periodo di incredulità (dal primo secolo avanti Cristo al primo dopo Cristo) in cui l’uomo era abbandonato a se stesso, fra gli déi olimpici in cui non credeva più nessuno, e i nuovi déi, venuti da Oriente, che ancora non si erano radicati in profondità nell’animo latino.
Del resto, a Cicerone non bastarono le forze per trasfigurare in poesia, cioè in un superiore sentimento d’arte e di pacificazione intima, lo strazio per la morte di Tullia, vinta da un morbo inesorabile nel 45 a. C.; quella Tullia su cui il padre, affranto dalle delusioni politiche ed anche da quelle familiari, aveva riversato tutto il proprio affetto e tutte le proprie speranze; vinto da un dolore atroce, insopportabile, nonostante la presenza affettuosa degli amici, egli volle ritirarsi nella solitudine di Astura, riversando la sua pena nella composizione del «De consolatione philosophiae», giunto a noi frammentario (da non confondersi con il capolavoro omonimo di un altro grande filosofo vissuto cinque secoli dopo: Severino Boezio).
Versi, Cicerone non poté scriverne; e neppure nel suo epistolario privato si riscontra un superiore sentimento di accettazione e di trasfigurazione del dolore: il suo strazio paterno per la morte di Tullia traspare tutto in quel drammatico documento che è la lettera ad Attico, in cui egli confessa di cercare l’oscurità entro una foresta cupa e spettrale – che ricorda immediatamente quella descritta da Dante nel primo canto della «Commedia» -, fino allo scendere del crepuscolo, con la cui complicità soltanto osa uscirne, per tornare mestamente verso casa («Ad Familiares», XII, 15):
«In hanc solitudine careo omnium colloquio, cumque mane me in silvam abstrusi densam et asperam, non exeo inde ante versperum: secundum te nihil est mihi amicius solitudine. In ea mihi omnis sermo est cum litteris; eum tamen interpellat flatus, cui repugno, quoad possum, sed adhuc pares non sumus…»
Nel ritorno alla fede cristiana, come abbiamo detto, le lacrime paterne di Jan Kochanowski trovano infine il modo di essere asciugate, nella speranza di un futuro migliore per la tenera bambina che, in questo mondo, crescendo e diventando donna, avrebbe, sì, conosciuto alcune gioie e allietato il mondo con la sua dolce presenza, ma non avrebbe potuto evitare dolori, preoccupazioni, fastidi, quale inevitabile retaggio dei discendenti di Eva, con la loro fragilità e imperfezione: ora, invece, ella è entrata in un regno di pace e di perfetta letizia, e attende di ricongiungersi agli amati genitori, nella prospettiva della luminosa speranza cristiana.
Il senso del mistero cristiano della vita e della morte è tutto qui, nel dramma di questo maturo padre che ha visto spegnersi, ancora in germoglio, la figlioletta tanto teneramente amata, piccolo prodigio di bellezza e già come pervasa dal genio della musica: un dramma dove l’anima è messa completamente a nudo, spogliata di ogni finzione e vanità, di ogni misera contraffazione, con le quali, così spesso, gli uomini nascondono agli altri ed a se stessi la mancanza, o la povertà, della propria sostanza umana, la saldezza delle loro convinzioni, l’incertezza e la condizione aleatoria della loro forza d’animo.
«Mi porteranno gli anni / chissà quali altri orrori, / ma ti sentivo accanto, / m’avresti consolato», canta Giuseppe Ungaretti in una delle sue poesie più toccanti, «Giorno per giorno» (che fa parte della sua terza raccolta lirica, «Il dolore»), straziato dalla sofferenza per la morte improvvisa del suo piccolo figlio Antonietto, morto all’età di soli nove anni, a San Paolo del Brasile, per una banale appendicite mal curata. E lo strazio del grande poeta italiano del Novecento sembra diventare tutt’uno con quello del sommo umanista polacco del XVI secolo, travalicando le barriere dello strazio e del tempo per divenire una cosa sola: «Perché il dolore è terno, / ha una voce e non varia», come dice Umberto Saba, con potente e disarmante semplicità, nella lirica «La capra», che è parte del suo «Canzoniere».
Sì: il dolore è eterno e ha una sola voce, la voce di coloro che soffrono: siano essi giovani o vecchi; siano innocenti o colpevoli; siano, anche, esseri umani o animali (dei quali ultimi così pochi poeti si sono ricordati — Virgilio, Pascoli, Saba — e praticamente nessun filosofo, almeno nell’ambito della cultura europea). Eppure, se una sola è la voce del dolore, eterna, sempre uguale a se stessa, infinite, tuttavia, sono le maniere di viverlo, di accoglierlo, di lasciarsene penetrare, di restarne schiacciati oppure di trasfigurarlo e di ricavarne nuova forza e un rinnovato amore per la vita, per la bontà e per le cose belle del mondo. Ed è quest’ultima la sfida suprema: sfida che non dipende solo da noi, perché noi, in quanto esseri umani, ben poco possiamo contro il dolore, quando esso ci afferra come deboli giunchi e ci scrolla, senza pietà, con le sue mani di ferro.
Deboli e quasi inermi di fronte agli assalti del dolore, però, gli esseri umani trovano la loro difesa, il loro riscatto e la loro consolazione in Qualcuno che è più grande di loro e la cui luce continua a a brillare, calda e meravigliosa, al di sopra delle nuvole basse e fitte che ricoprono, talvolta, il nostro orizzonte terreno. Chi non ha provato il Dolore, quello che soffia come un turbine di tempesta, non è ancora diventato uomo, è rimasto un bambino; chi lo ha provato e ne è rimasto piegato, schiantato, sconsolato, ha perduto la propria umanità e si è fatto una povera cosa gemente, smarrita, inaridita. Solo chi lo ha vissuto sino in fondo e ne ha tratto nuova sostanza vitale, una comprensione più profonda delle cose e una più grande benevolenza per gli uomini e per tutti i viventi, solo costui ha superato realmente la prova ed ha conquistato la propria umanità più vera e profonda.
Ma questo, ripetiamo, nessuno può farlo da sé, con le proprie forze. Dio solo può venirci in aiuto…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels