
Da quando parole e cose hanno divorziato, vaghiamo nel nulla come Don Chisciotte
28 Luglio 2015
I Friulani sono così
28 Luglio 2015Non è semplice definire ciò che la natura rappresentava per l’uomo medievale.
Tanto per cominciare, l’uomo medievale non pensava alla natura come un tutto, per il semplice fatto che non ne aveva una visione, appunto, "naturalistica", come l’avevano avuta i Greci o come l’hanno, ma su basi profondamente diverse, i moderni; in altre parole, non la vedevano come un insieme, e meno ancora la vedevano come una realtà auto-sussistente.
L’uomo medievale non si sente posto di fronte alla "natura", né di esserne parte (benché i suoi ritmi siano i ritmi quotidiani e stagionali da essa scanditi): la natura fisica è solo una parte della realtà totale, e non la più importante, non quella essenziale; essa è piuttosto un velo della realtà soprannaturale, un velo percorso da una fittissima rete di simboli, di allusioni, di allegorie, ciascuna delle quali racchiude il rimando a una verità ulteriore, celata dietro le apparenze, e che occorre decifrare, penetrare, comprendere.
D’altra parte, l’uomo medievale è, essenzialmente, contadino; anche il sacerdote e il guerriero vivono in una realtà rurale; fino all’XI secolo, la dimensione urbana dell’esistenza è piuttosto la rara eccezione, che la regola: il paesaggio quotidiano è fatto di foreste impenetrabili, popolate di animali selvaggi, nonché di lande disabitate, di paludi profonde, di montagne aspre e minacciose. Il volto della natura fisica è, pertanto, un volto allo stesso tempo familiare e minaccioso, quotidiano e misterioso. Il legame con la terra è fortissimo, ancestrale; però, insieme, esso è anche ambiguo, perché boschi e paludi sono popolati non solo da lupi, orsi, cervi e bisonti, ma anche da creature sottili, elementari, da gnomi, silfidi, spiriti dell’aria; per non parlare delle presenze angeliche e di quelle diaboliche, l’incontro con le quali è sempre possibile, perfino probabile.
La terra, per l’uomo medievale, è nutrice: ad essa si affidano i semi e da essa vengono i raccolti; però non è vista come madre, perché "madre" è un concetto astratto e autonomo, lo si riserva alla "dea", e ciò vale appunto per quelle popolazioni (gli antichi Lituani, ad esempio; o, prima di loro, i Sassoni) che ancora non sono state convertite al cristianesimo, ma conservano i loro culti pagani; oppure per quelle popolazioni che, pur avendo abbandonati tali culti, hanno accolto il cristianesimo solo in superficie, operando un vero e proprio sincretismo. In questo caso, i culti pagani della natura e della Madre terra sopravvivono dietro la facciata dei riti cristiani e della venerazione cristiana per i santi e per la Madonna.
La natura, dunque, posto che egli la veda come un tutto — e ciò, forse, accade solo per taluni intellettuali, non per l’uomo comune, il contadino o l’artigiano — si presenta all’uomo medievale nella duplice veste di dispensatrice di cibo e di vita, di custode di segrete ricchezze (i tesori sotterranei, su cui vegliano le creature del "piccolo popolo"), ma anche di cifra dell’assoluto, e dunque di richiamo alle realtà soprannaturali: così, le buie foreste alludono all’oscurità del peccato; il serpente, la volpe, il lupo, il cinghiale, la lince, il camoscio, la fenice, l’unicorno, gli animali reali e quelli leggendari — i quali ultimi, per lui, sono altrettanto reali dei primi — rappresentano, ciascuno, un particolare vizio o una particolare qualità "umana", debitamente rappresentati e spiegati nei bestiari dalle bellissime miniature policrome, che ne impreziosiscono le pagine di pergamena, e che sono gelosamente custodi nelle biblioteche monastiche.
Inoltre, dalla natura si ricava il combustibile per riscaldarsi e cuocere il cibo; le medicine naturali, con le quali curare i mali del corpo e, fino a un certo punto, quelli dell’anima (la distinzione fra i due tipi non è netta, come lo è diventata in seguito); e anche le pozioni, i filtri, i veleni, che le streghe e gli stregoni conoscono così bene, con grande spavento degli uomini timorati di Dio. I boschi, specialmente, conservano un pericoloso alone di paganesimo: sono i templi all’aperto degli antichi culti naturalistici e diventeranno, nel corso di alcuni secoli, i luoghi di ritrovo e di osceno accoppiamento delle streghe e dei diavoli, i luoghi segreti del sabba e della notte di Valpurga, specialmente quando si presentano, sotto la veste cristiana (come accade per il giorno di San Giovanni), quei particolari giorni dell’anno, attesi e temuti, fra i quali il solstizio d’estate, allorché si aprono come delle "finestre" o dei "portali" sull’altra dimensione.
Ma una cosa è certa: la natura, o piuttosto i suoi elementi (l’acqua, il fuoco, il vento, la terra) non sono ammirati, e tanto meno venerati, in se stessi, ma solo come dei riflessi dello splendore, della sapienza e della bontà divini (cfr. il «Cantico delle creature» di San Francesco d’Assisi); oppure sono guardati con diffidenza, perfino con disprezzo (come nel caso del celeberrimo, e troppo spesso citato, perché non se ne comprende il significato essenzialmente "positivo", cioè ascetico, «De contemptu mundi» di Lotario Diacono, il futuro papa Innocenzo III); così come sono guardati con diffidenza e disprezzo gli istinti umani e la ricerca del piacere, perché l’uomo medievale sa, e si ripete fino all’ossessione, che la vita terrena è solo un breve viaggio, destinato a concludersi con la morte e con la dissoluzione del corpo.
Questa è anche la prospettiva degli uomini colti, di Dante, di San Tommaso d’Aquino; perché, sotto questo punto di vista, non c’è differenza sostanziale fra la prospettiva delle persone qualsiasi, ignoranti, analfabete, e quella degli uomini di cultura, degli scrittori, dei filosofi. La società medievale, infatti, è infinitamente più coesa di quella moderna; il suo valore fondamentale è la stabilità, non l’originalità: di conseguenza, essa non incoraggia e non loda l’audacia del pensiero, né i comportamenti che si distaccano dalla tradizione, ma tutto ciò che assicura alla comunità la sua compattezza, la sua forza e la sua armonia.
Ha osservato Vito Fumagalli nel suo libro «Quando il cielo si oscura. Modi di vita nel medioevo» (Bologna, Il Mulino, 1987; cit. in: E. Bonifazi, «Aspetti e testimonianze di civiltà», Firenze, Bulgarini, 2000, vol. 2, p.p. 188-9):
«La natura appariva generosa, nutriva l’uomo, legato ad essa per l’ombelico, incapace di modificarla sensibilmente, ma anche misteriosa, capricciosa, vendicativa. Misteriosa per ciò che d’ignoto racchiudeva nel suo grembo, generatore spesso di cose mostruose. Ancora più misteriosa la natura ai confini di quello che si riteneva il mondo abitato: a Nord di questo, come ci racconta Paolo Diacono sul finire del secolo VIII, gorghi profondi, grandi bocche aperte pronte a inghiottire uomini e cose, segnavano i confini invalicabili, creature strane abitavano quei luoghi strani. A mano a mano che ci si allontana dai luoghi famigliari, in cui si vive, aumentano gli esseri misteriosi. All’estremo Nord della Germania, narra ancora Paolo Diacono, sulle rive del mare, in una grande rupe s’insinua una caverna dove sette uomini sono immobilizzati nel sonno. Forse sono antichi romani, forse cristiani, e verrà il tempo in cui Dio li sveglierà per predicare la fede in quelle terre barbare.
Leggende paurose percorrono i racconti dei cronisti dell’alto medioevo, nate dall’osservazione della terra e del cielo,, fatta più attenta e angosciata quando la guerra raggiunge momenti di particolare intensità. Così, leggiamo di un vallo lunghissimo che in una sola notte s’alzò da solo dalla terra nella pianura ai confini orientai dell’Impero carolingio, dove le battaglie erano più accanite e ostinate. L’uomo si sentiva sicuro all’interno del suo paese, nel cuore caldo della patria, dove la terra gli era buona madre e lo aspettava se eventi particolari lo avevano violentemente allontanato da lei.
Nei primi secoli del Medioevo, tutto ciò che esorbitava dai limiti del normale si pensava generato, per così dire, dalla natura; si trattava di esseri materiali, seppure spesso mostruosi, legati al mondo vegetale, animale, umano. Più tardi, invece, acquistarono un contenuto ed una fisionomia sovrannaturali, in concomitanza con il progressivo allontanarsi dell’uomo dalla natura, della distruzione di molte sue componenti, tra le quali boschi e foreste, che vennero ridotte a coltura. Le selve che restarono dopo il lungo intervento colonizzatore divennero via via realtà estranee all’uomo, spesso paurose. È significativo che spesso le apparizioni dei morti iniziassero allora ad aver luogo soprattutto in esse.
Ma nell’alto medioevo tutto, pur con diverse sfumature, era assimilato alla natura, magari deformata o abbellita: lo stesso paradiso veniva immaginato come sublimazione della terra coltivata dall’uomo, un giardino bellissimo con acque, fiori, alberi. Si credeva che l’uomo si muovesse con facilità da questo all’altro mondo: prima di morire la visione del paradiso si schiudeva sul capezzale, si sentivano profumi intensi,si udivano musiche inebrianti. I morti non di rado tornavano in vita per raccontare dell’altro mondo, i santi scendevano su questo a compiere un pellegrinaggio al sepolcro di un martire famoso, a pregare per la propria anima sulla propria tomba.»
Bisogna aggiungere che, per l’uomo medievale, il confine tra la vita e la morte è netto, sì, ma non come lo è per l’uomo moderno; anzi, in parecchie situazioni, esso tende ad assottigliarsi, a sfumare, a dissolversi. Non si tratta solo della credenza nell’"altra" vita, che, talvolta — come nelle visioni di certi mistici e di certe mistiche — si rivela, con impressionanti squarci del Paradiso e dell’Inferno, fin dentro il perimetro ben noto di "questa" vita; si tratta, anche, della piena consapevolezza che il mondo di coloro che, attualmente, sono vivi, rappresenta solo una piccola isola, mobile e transitoria, nel grande flusso della vita universale, che esisteva prima e continuerà ad esistere; il quale, a sua volta, non è che un fiume destinato a sfociare nel mare dell’eternità, dove troverà il suo compimento: così come ha avuto un inizio, esso avrà anche una fine, quando Cristo Giudice verrà a concludere la vicenda del mondo creato.
In definitiva, l’uomo medievale si sente posto di fronte alla natura, ma non per goderne, né per dominarla: non è abbastanza edonista per indulgere al primo atteggiamento, né abbastanza sicuro di se stesso per adottare il secondo. Egli è troppo grande e troppo piccolo al cospetto degli elementi naturali: troppo grande, perché fatto a immagine di Dio e, dunque, proiettato verso la sfera del divino (o destinato a precipitare in quella del diabolico, se incurante delle leggi divine), e troppo piccolo perché, a confronto con essi, non possiede neppure la forza per padroneggiarli. Non controlla le epidemie, né l’altissima mortalità infantile; ogni vita che oltrepassa l’età della culla, è beneficiaria d’una grazia speciale; né egli controlla le piene dei fiumi, la siccità estiva, il gelo invernale. Non osa scalare le montagne, se non per assoluta necessità (il primo a farlo per puro piacere sarà Francesco Petrarca, con l’ascensione al Monte Ventoso, in Provenza, nel 1336); si sgomenta davanti alla vastità dei mari e alla impenetrabilità delle foreste; le miniere di sale (come quella di Wieliczka) lo attirano, ma lo angoscia l’idea di calarsi nelle buie viscere del sottosuolo.
In altre parole, la terra è, per lui, infinitamente affascinante e misteriosa; qualche volta ostile, se egli pretende di violarne i segreti, ma sempre generosa, ed egli la rispetta, senza divinizzarla, senza assolutizzarla: ha coscienza tanto del proprio limite, quanto dei limiti di essa, che è pur sempre uscita dalle mani di Dio. La creazione tutta è qualcosa di finito, nonché di transitorio; la sua bellezza lo riempie di ammirazione, ma non lo seduce, perché ne conosce il carattere effimero. Anche una bella donna, anche una donna sposata, che partecipa ai balli e alle feste per far piacere al marito, come la moglie di Jacopone da Todi, forse porta il cilicio, sotto la veste elegante: perché vuole che Dio la trovi sempre pronta, in qualsiasi momento, se a Lui piacerà chiamarla a sé.
Di certo, l’uomo medievale non si sente in guerra con la natura, e questo proprio perché non la assolutizza, ma la accetta, così come accetta la sua stessa condizione mortale: passeggera e aperta al mistero dell’eternità. L’atteggiamento dell’uomo moderno, che si ritiene padrone della natura e che pretende di imporle ovunque il suo ferreo dominio, sia nei confronti dello spazio, sia attraverso la manipolazione genetica, lo farebbe inorridire. L’uomo medievale è troppo cosciente di non essere eterno, di non essere invincibile, e allo stesso tempo di essere chiamato all’eternità, per dedicare tante energie al sogno impossibile d’imporre alla natura il proprio giogo. In fondo, è meno in conflitto con se stesso dell’uomo moderno: egli lotta contro le proprie tendenze peccaminose, quello lotta contro la sua stessa condizione creaturale. Chi dei due è più alienato, più schizofrenico? Chi dei due ha perso di più il contatto con la realtà, vivendo in un costante delirio d’onnipotenza?
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