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28 Luglio 2015La congiura e la rivolta di Ricimero, generale di stirpe germanica, contro l’imperatore d’Occidente, il gallo-romano Flavio Eparchio Avito, si inserisce nella più vasta cornice degli ultimi sussulti dell’Impero d’Occidente dopo la fine della dinastia di Teodosio, avvenuta con la morte violenta di Valentiniano III, nel 455: dinastia che aveva rappresentato, bene o male, l’ultimo efficace fattore di stabilità e di coesione in una compagine statale e amministrativa ormai largamente in via di disfacimento.
Ci siamo già occupati di tale cornice generale nel precedente saggio «La fine dell’Impero romano d’occidente», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 28/05/2007; e, più specificamente, nell’articolo «Il sogno imperiale di Antemio naufraga nel 472, con il terzo sacco di Roma», del 18/02/2014. Vogliamo ora riprendere il filo della narrazione dall’indomani della grande battaglia dei Campi Catalaunici (l’odierna Châlons-en-Champagne), combattuta sulle pianure della Gallia settentrionale il 20 giugno 451 e definita, da alcuni storici, la "battaglia delle nazioni" della tarda antichità. In essa, gli Unni di Attila e i loro alleati delle pianure orientali (Ostrogoti, Rugi, Gepidi, Sciri, Turcilingi) vennero fermati e costretti a ritirarsi da una vasta coalizione formata dai popoli germanici stabilitisi in Gallia, sotto la guida dei Visigoti di Teodorico I, di cui facevano parte Burgundi, Alani, Franchi, Sassoni e perfino Bagaudi (i contadini gallici della regione armoricana, insorti contro le autorità romane), cucita insieme dall’abilità politica e militare di Ezio, l’ultimo grande condottiero di Roma, alla testa di poche legioni, tutto ciò che l’Impero era stato ancora in grado di schierare per questo scontro di portata decisiva.
L’inaspettata sconfitta di Attila, peraltro non decisiva, era stata seguita, nella primavera dell’anno successivo, da un rinnovato tentativo unno contro l’Impero d’Occidente, questa volta colpendolo al cuore, ossia invadendo l’Italia; ma anche in quella occasione qualcosa non era andato secondo i piani, e Attila, dopo aver preso e distrutto Aquileia ed essersi spinto fino a Milano, era poi stato indotto a ritirarsi oltre le Alpi, quando la via di Roma sembrava aperta e incustodita. Non è ben chiaro cosa fosse accaduto; la Chiesa cattolica si impadronì della vicenda e tramandò il racconto che Attila si era spaventato e aveva deciso di tornare indietro, nel momento in cui si recò ad incontrarlo una ambasceria di cui faceva parte lo stesso vescovo di Roma, Leone I, poiché aveva avuto la visione, dietro le spalle del pontefice, dei due apostoli Pietro e Paolo, che brandivano minacciosamente delle spade fiammeggianti.
È più verosimile che a determinare la brusca ritirata, nell’estate del 452, non sia stata né una simile apparizione, né — come narra lo storico greco Prisco di Panion — il ricordo superstizioso della morte improvvisa che aveva colpito il re visigoto Alarico, poco dopo aver violato l’Urbe con il suo popolo invasore, nel 410; bensì la difficoltà di approvvigionare il suo esercito, lo scoppio di qualche epidemia, e soprattutto la minaccia di un attacco alle spalle da parte dell’imperatore d’Oriente, Marciano. Sta di fatto che l’anno dopo, alla vigilia di una nuova spedizione contro l’Impero (questa volta in direzione di Costantinopoli), Attila era morto improvvisamente, al termine di un banchetto con cui aveva festeggiato il suo nuovo matrimonio, e che l’Impero unno si era dissolto con una rapidità incredibile, liberando l’Impero Romano da un autentico incubo.
La morte di Attila e la rapidissima disgregazione del vastissimo stato da lui fondato, determinata anche dalle lotte per la successione scoppiate fra i diversi eredi, modificarono bruscamente il complesso equilibrio di pesi e contrappesi su cui si reggeva quel poco che ancora restava della compagine imperiale in Occidente, di gran lunga la più esposta e la più traballante delle due "partes" in cui, di fatto, l’Impero romano si era spaccato dopo la morte di Teodosio il Grande, nel 495, sebbene non fosse stata certo questa la sua intenzione, ma che, di fatto, egli aveva determinato, assegnando una parte, con Costantinopoli, al figlio maggiore Arcadio, di soli diciotto anni, e l’altra, con Roma, al figlio minore Onorio, che ne aveva appena undici.
In particolare, due regni romano-barbarici erano interessati, non a distruggere quel che restava del potere imperiale in Occidente, ma a porvi la propria rispettiva ipoteca politica: quello dei Visigoti, in Gallia, e quello dei Vandali, nell’Africa settentrionale. Il primo aveva ormai l’appoggio, tacito o esplicito, di buona parte della stessa nobiltà gallo-romana, consapevole di poter trovare solo nei Visigoti un valido sostegno alla preservazione dei loro beni, le vaste tenute fondiarie, e del loro predominio sociale sopra le plebi rurali sempre più esasperate e irrequiete; il secondo, al contrario, era in conflitto aperto con l’aristocrazia romana delle regioni conquistate, che aveva spogliata di gran parte dei suoi latifondi e delle sue ricchezze e che perseguitava anche sul piano religioso (essendo i Vandali ariani e nemici del cattolicesimo).
Un terzo potere si era delineato all’interno stesso dell’Impero occidentale: quello militare, rappresentato, dopo le due prestigiose ma sfortunate figure di Stilicone (fatto sopprimere dalla corte di Onorio nel 408) e di Ezio (ucciso di sua mano da Valentiniano III nel 454, a sua volta assassinato da due seguaci del’ex generale, l’anno dopo): Flavio Ricimero, un barbaro abbastanza ambizioso da voler governare di fatto l’Impero, ma anche abbastanza astuto da non volerne assumere la responsabilità piena e formale. Ricimero, dunque, cercava un candidato adatto, un uomo di paglia da insediare sul trono di Ravenna, per manovrarlo a suo piacimento, ma rispettando, in apparenza, la sua suprema autorità politica.
L’ironia volle che i primi passi della carriera di Ricimero si svolgessero all’ombra di Ezio e di Teodorico I, re dei Visigoti, per poi passare al servizio di Avito, allorché questi venne eletto imperatore con l’appoggio decisivo del nuovo re visigoto, Teodorico II. Così, mentre il Senato romano vedeva in quest’ultimo poco più che un fantoccio dei Visigoti, Ricimero, nominato "magister militum", sconfisse i Vandali (che avevano saccheggiato Roma nel 455) per mare e per terra, e poi, forte della popolarità derivatagliene, si accordò segretamente con il Senato per liquidare lo stesso Avito. Cosa che avvenne con la sanguinosa battaglia di Piacenza, combattuta fra il 16 e il 18 ottobre 456; dopo di che, il deposto sovrano venne subito giustiziato, pare per mano dello stesso Ricimero, oppure, secondo un’altra versione, venne nominato vescovo e poi avvelenato, mentre tentava di fuggire, nel 457, avendo saputo che il Senato di Roma, suo nemico implacabile, ne desiderava la morte.
Al suo posto, l’esercito (cioè, ormai, lo stesso Ricimero) acclamò imperatore il generale Maioriano, già uomo di fiducia di Ezio e, poi, candidato all’Impero della vedova di Valentiniano III, Licinia Eudossia, alla morte del marito: quando invece il supremo potere era stato afferrato, ma per brevissimo e tempo e per poi morire d’una morte ignominiosa — linciato dalla folla mentre tentava di fuggire alla notizia dello sbarco dei Vandali di Genserico — da Petronio Massimo. Però Maioriano si rivelò troppo abile come generale e troppo indipendente come sovrano, per cui Ricimero decise di eliminarlo — a Tortona, il 7 agosto 471, al rientro dalla Spagna, ove aveva subito una grave sconfitta da parte dei Vandali che si accingeva ad attaccare fin dentro le loro basi nordafricane. Ma questa è un’altra storia.
Così rievoca l’oscuro complotto di Ricimero contro Avito, il saggista Stefano Caso nel suo volume «Le 100 grandi congiure» (Hobby & Work, 2008; Gruner Jahr-Mondadori, 2011, pp. 75-76):
«Di origini gallo-romane, Marco Mecilio Flavio Eparchio Avito nacque intorno al 400 da una famiglia di rango senatorio. In gioventù si dedicò agli studi d legge, a cui ben presto preferì la carriera militare. Un primo importante successo lo ottenne nel 436, combattendo contro i Goti a fianco il generale romano Flavio Ezio. Un’azione militare che l’anno successivo gli fece ottenere il grado di "magister equitum" ("maestro dei soldati"), un alto riconoscimento entrato uso nel tardo impero romano. Grazie alle sue capacità diplomatiche, riuscì poi a trattare la pace con i Visigoti di Aquitania, convincendo addirittura il loro re Teodorico I ad affiancare l’esercito romano comandato da Ezio nella guerra contro gli Unni di Attila. La battaglia risolutiva si tenne nel 451 ai Campi Catalaunici, nella Gallia nord-orientale. L’esercito di Ezio e di Avito ebbe la meglio, ma con loro, oltre ai Visigoti, c’erano i Franchi, i Burgundi, e gli Alani, tutti popoli barbari. Nel corso della battaglia Teodorico I perse la vita. Quattro anni dopo, nel 455, Avito si trovò nuovamente a trattare con i Visigoti. Era ancora in corso la missione diplomatica, quando lo avvertirono che l’imperatore Petronio Massimo era stato ferocemente ucciso dalla plebe. L’assassino faceva seguito alla sua fuga di fronte ai Vandali di Genserico che, dopo essere entrati in Roma, l’avevano barbaramente saccheggiata per quattordici giorni, dal 15 al 29 giugno. Il nuovo re dei Visigoti, Teodorico II, che aveva continuato a mantenere con Avito i buoni rapporti instaurati dal padre, venuto a sapere dei fatti di Roma, decise di riconoscerlo nuovo imperatore. Dello stesso parere era un gruppo di senatori gallo-romani e presto lo sarebbe stato anche Marciano, imperatore d’Oriente. Era il 9 luglio del 455. Forte dell’acclamazione, Avito partì da Arles alla volta dell’Urbe. Con lui c’era il barbaro cristiano Flavio Ricimero, generale e consigliere di Teodorico II, che già aveva prestato servizio per Valentiniano III e per il generale Flavio Ezio. Arrivato a Roma, Avito nominò Ricimero comandante dell’esercito, un incarico che quest’ultimo inaugurò con l’organizzazione di una nuova armata e di una nuova flotta. La sua salita al trono, però, non era piaciuta al Senato romano, sia per le sue origini gallo-romane, sia perché troppo accomodante con i barbari. Intanto, i Vandali di Genserico erano pronti per una seconda incursione nella penisola italiana. Dopo due pesanti sconfitte, una a valle di Agrigento e una nei pressi della Sardegna, furono però costretti a ritirarsi a mani vuote e soprattutto con la flotta decimata. Ma i successi contro i pericolosi Vandali non fecero cambiare idea ai senatori romani verso Avito, anche perché Genserico continuava a spadroneggiare sui mari, mettendo a repentaglio gli scambi commerciali. In più, c’erano da pagare gli stipendi ai soldati che avevano partecipato alle ultime campagne militari. Un’incombenza che Avito decise di assolvere con un forte aumento delle imposte. Il suo gradimento tra i senatori e tra la popolazione ne risentì pesantemente. E l’astuto generale Ricimero non perse l’occasione per portare a suo vantaggio la difficile situazione. Anche perché a lui le vittorie contro i Vandali, al contrario di Avito, avevano procurato una grande celebrità tra i romani. La sua trama prevedeva un iniziale accordo con il Senato per deporre Avito, un patto che, com’è facile intuire, non tardò ad arrivare agli orecchi di quest’ultimo. Poi predispose un forte esercito e si preparò ad affrontare l’imperatore. Le due opposte milizie si scontrarono presso Piacenza il 18 ottobre del 456. Le truppe di Avito ebbero la peggio e lui fu facilmente catturato. Quel che seguì, non è ancora chiaro. Secondo alcuni storico, Avito fu immediatamente ucciso dallo stesso Ricimero. Secondo altri, invece, gli fu concessa l’opportunità di diventare vescovo di Piacenza. Un’occasione che l’ex imperatore giudicò inutile, visto che il Senato aveva già emesso la sua condanna a morte. Preso dalla paura, cercò allora di fuggire verso la Gallia, ma, presto raggiunto, fu assassinato. Ricimero era così diventato il principale candidato alla testa dell’impero. Un incarico che il generale rifiutò, accontentandosi di assumere il titolo di patrizio con l’autorità di nominare l’imperatore. Il trono rimase vacante per cinque mesi, fino alla nomina di Giulio Valerio Maggioriano, un abile soldato di nobile famiglia. Era il 457 e Maggioriano sarebbe rimasto in carica fino al 461, fino a quando, cioè, Ricimero lo fece uccidere. Il pretesto fu la sconfitta subita in Spagna contro Genserico. La verità fu che il nuovo imperatore si era dimostrato un governatore troppo capace, ma non sufficientemente remissivo agli ordini del generale.»
Riassumendo: Avito era il candidato di Teodorico II, e ciò lo poneva in una posizione impopolare verso il Senato, oltre a procurargli la diffidenza di Ricimero. Questi voleva che fossero eletti come imperatori dei personaggi scialbi e inoffensivi, da poter manovrare a piacimento, senza correre il rischio di finire come Stilicone ed Ezio. Ad Avito successero Maioriano, Libio Severo, Antemio e Licio Olibrio: quattro imperatori in quindici anni, dal 457 al 472 (ma con un interregno nel 465-7): tutti burattini del tremendo Ricimero. Che infine morì lui pure – ma di peste, pare – il 18 agosto 472.
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