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28 Luglio 2015John Silver, mascalzone doppiogiochista de «L’isola del tesoro», è il vero antieroe moderno

Si dice e si ripete che «L’isola del tesoro» («Treasure Island») di Robert Louis Stevenson, apparso nel 1883 e destinato a vivere per sempre nell’immaginario di milioni e milioni di ragazzi in tutto il mondo, è un tipico romanzo di formazione, oltre che d’avventura, perché in esso il protagonista appena adolescente, Jim Hawkins, un quattordicenne rimasto orfano di padre, si imbarca per una favolosa avventura in cerca di fortuna sui mari lontani e torna a casa, da sua madre, divenuto ricco e, soprattutto, uomo maturo e responsabile.
Tutto questo è vero, certamente; a patto, però, di mettere subito bene in chiaro che il vero protagonista non è lui e che la storia non ruota intorno a lui, ma che il vero e quasi unico protagonista è l’avventura, il gusto per l’avventura, il piacere dell’avventura, in sé e per sé; secondariamente, la storia ruota non già intorno a Jim, bensì intorno al classico deuteragonista, che poi finisce per diventare l’effettivo protagonista umano: quella canaglia incredibilmente scaltrita e senza scrupoli, rotta ad ogni genere di tradimenti e doppi giochi, ma anche stranamente, eccezionalmente simpatica, per quella vena di sincerità brutale che traluce in mezzo alle sue menzogne, e soprattutto per quello sfrontato, indomabile amore per la vita, che in lui, vecchio marinaio mutilato d’una gamba, zoppicante e non più giovane, acquista un inconfondibile sapore epicureo, anzi, addirittura una coloritura nietzschiana, come se egli fosse ormai una creatura posta al di là del bene e del male.
Si tratta di Long John Silver, pirata e filibustiere, ladro e assassino, bugiardo e spergiuro: un avanzo di galera, un pendaglio da forca talmente infame, che, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo: tanto sono sbiaditi, al suo confronto, i compassati difensori del codice morale, a cominciare dal capitano Smollett e dal dottor Trelawney; tutta gente seria e compita, niente da dire, gente di parola, gente d’onore! Ma vogliamo mettere con le gioiose ribalderie, con le inverosimili mascalzonate e le imperdonabili furfanterie di Silver John, che in tutta la sua vita, si direbbe, non è mai entrato in una chiesa, se non — forse — per scassinare la cassetta delle elemosine, o, magari, per derubare un prete o un frate, beninteso non senza avergli prima spiegato di essere costretto a farlo delle circostanze, e magari chiedendogli di pregare lui il buon Dio, affinché possa perdonarlo e, magari, metterci anche una buona parola per quando bisognerà fare i conti una volta per tutte, s’intende il più tardi possibile, perché lui non ha alcuna fretta di lasciare questa valle di lacrime?
Immaginare come sarebbe «L’isola del tesoro» senza l’esecrabile, la nefanda, ma, allo stesso tempo, indispensabile e gustosissima, sanguigna, istrionica presenza di Long John Silver, è semplicemente impossibile: sarebbe, press’a poco, come accingersi a mangiare una minestra senza neanche un pizzico di sale: ma allora non sarebbe più una minestra, bensì una incommestibile brodaglia, una inqualificabile risciacquatura da ingerire con pena, come una triste necessità. Si badi: John Silver non è, puramente e semplicemente, l’antagonista, il "cattivo" che ogni storia che si rispetti, per ragioni di equilibrio e d’interesse, deve ingaggiare, onde far meglio rifulgere la virtù dei buoni: non è l’equivalente di don Rodrigo de «I promessi sposi», né della marchesa Orsola Maironi, la zia di Franco, di «Piccolo mondo antico». Che John Silver sia cattivo, in fondo, non è la cosa più importante; lo dimostra il fatto che i suoi antagonisti appaiono tanto più insignificanti, quanto più sono "buoni"; no: la cosa più importante, in lui, è la ribalderia festosa, l’incoercibile forza vitale e l’inesausto, canagliesco appetito per tutto ciò che la vita può offrire di buono, inteso in senso crassamente materiale, a cominciare dalla ricchezza.
Ha osservato Emma Letley nella sua pregevole Introduzione a «L’isola del tesoro» (tradizione dall’inglese di Angiolo Silvio Novaro, Milano, Mondadori, 1991, pp. IX-X e XXVII-XXX):
«Pur esprimendo in generale la loro approvazione per la vivace scrittura di Stevenson e le sue magistrali descrizioni di personaggi e avvenimenti, i recensori dell’epoca incontrarono, occasionalmente, alcuni problemi con il personaggio di Long John Silver, l’eroe eponimo del racconto che si intitolava originariamente "The Sea Cook" (fu James Henderson a convincere l’autore a cambiarlo in "L’Isola del Tesoro", che inizialmente era solo il sottotitolo). "The Athenaeum" diede inizio a un leitmotiv della critica, osservando che "nella vita reale John Silver difficilmente se la sarebbe cavata; certamente non dovrebbe farlo in un’opera narrativa". Il "Dial" di Chicago espresse lo stesso parere di irresponsabilità morale: il libro "verrà apprezzato da ragazzi smaniosi di avventure, ma se sia per loro una lettura salutare, questo è più che dubbio." W. E. Henley, comunque, la cui "zoppa vitalità" ispirò a Stevenson il personaggio di Silver, non aveva di questi scrupoli: "Lui [Silver], e non Jim Hawkins, né il tesoro di Flint, è il vero eroe di Mr. Stevenson; e una volta finita di leggere la storia si capisce che il suo vero titolo non è L’Isola del Tesoro, ma John Silver, pirata". […]
Con il personaggio di Silver, Stevenson dà prova della sua straordinaria abilità letteraria su due piani: la costruzione di un racconto di intrattenimento e il ritratto psicologico di un personaggio complesso come John Silver, un uomo con la maschera. La lettura della favola "I personaggi del racconto", pubblicata su "Longman’s Magazine"nel 1895, può contribuire a spiegare le diverse qualità che rendono "L’Isola del Tesoro" un testo così appagante per il lettore: un classico. Allo stesso tempo, la favola servirà a chiarire quali fossero le affinità e le divergenze fra Stevenson e Henry James.Nei personaggi, Stevenson immagina che Long John Silver e il capitano Smollett escano dalla storia per farsi una passeggiata e fumare la pipa tra il capitolo XXXII e il XXXIII: Smollett fa notare a Silver »che si trova su una "cattiva strada", al che Silver, mantenendo fino in fondo il contrasto tra linguaggio legale e illegale, commenta: "il dovere è dovere, come so bene, e nessuno lo sa meglio di me;ma, adesso, siamo a riposo, e non so perché dobbiate ancora occuparvi di morale". Può darsi che non ci sia alcuna ragione di attenersi a principi morali, nondimeno Silver riconosce di essere il cattivo, mentre il capitano è il personaggio virtuoso. Chiede: "qual è la differenza?": La risposta del capitano e il dialogo che ne segue hanno un sapore molto moderno (o addirittura modernista), caratteristico dello spirito di Stevenson e del suo atteggiamento flessibile e umano di fronte ai problemi morali.
"Il catechismo non ve l’hanno insegnato?" disse il capitano. "Non sapete che esiste una persona che si chiama l’Autore?"
Una persona che si chiama l’Autore?" rispose John con aria di scherno. […]
"Non credete in una vita futura?" disse Smollett. "Credete che soltanto il giornale di oggi contenga la storia?"
"Questo non lo so con precisione" disse Silver "e, in ogni modo, non so vedere che cosa c’entri. Io so questo: se esiste una persona che è l’Autore, io sono il suo personaggio favorito. Riesce a far me mille volte meglio che non voi; mille volte, questa è la verità. E gli piace far me. Mi fa stare sulla tolda la maggior parte del tempo, con la mia gruccia; e lascia voi a oziare nella stiva, dove nessuno vi può vedere, e non vuole che vi vedano, ci potete scommettere! Se c’è un Autore, tuoni e fulmini! prende le mie parti, e ci potete scommettere!"
Qui Stevenson ha ripreso la tradizione del pensiero provvidenziale di stampo religioso (l’idea di un creatore e di una vita ultraterrena) e l’ha tradotta nei termini dello scrittore di professione e dei suoi personaggi letterari. L’aldilà diventa, ovviamente, il seguito o i capitoli successivi. È significativo che sia il pirata Silver, nel suo rifiuto anarchico di una vita "reale" per un personaggio d’invenzione, ad arrivare più vicino alla posizione dello stesso Stevenson. L’impossibilità di Silver di pronunciare correttamente la parola "character" [personaggio], il suo uso di "chara’ther", segnala il suo disprezzo sia della morale convenzionale, sia dell’idea che la narrativa possa "competere con la vita". È appunto su questa idea che le posizioni letterarie di Stevenson e di Henry James divergevano: pur avendo in comune un atteggiamento (giustamente) autocosciente e moderno verso la narrativa, Stevenson e James si trovano in disaccordo sulla questione dell’artificialità dell’arte. Lo scetticismo (religioso e letterario) di Silver è una specie di glossa alla posizione di Stevenson, come è espressa a Henry James in "Un’umile rimostranza":"Una proposizione geometrica non compete con la vita; e una proposizione geometrica è un’ottima similitudine per chiarire che cosa sia un’opera d’arte." Il capitano Smolett — personaggio di secondo piano in questo dialogo come anche nel romanzo — si aggrappa alle convenzioni del rigido moralismo e del ristretto realismo, convinto com’è che l’Autore — (in duplice senso) sia stabilmente "dalla parte giusta". Il capitano può attestarsi su questa posizione nella favola; ma nel romanzo — dal punto di vista della resa artistica — è chiaro che è Silver a essere il personaggio preferito dall’autore. Come Stevenson stesso fu pronto ad ammettere: "E poi di John Silver andavo non poco fiero; e ancor oggi devo confessare la mia ammirazione per quel soave e formidabile avventuriero."»
Un’altra cosa colpisce, in questo anti-eroe che scardina e sovverte tutte le convenzioni, non solo etiche, ma altresì letterarie, della narrativa di fine Ottocento: il suo sovrano disprezzo, o, per meglio dire, la sua totale, assoluta, sprezzante indifferenza nei confronti di tutto ciò che è problematico, intellettualistico, complicato, cerebrale. Long John Silver è, alla lettera, l’anti-Petrarca, ma anche l’anti-Proust, l’anti-Kafka, l’anti-Joyce e l’anti-Pirandello ("ante litteram", per giunta!): egli è talmente pervaso di energia e di sensualità, che non gli avanza il tempo, né la voglia, di perdersi in problemi astratti, in complicazioni inutili, in drammi di coscienza. Per lui le cose sono molto chiare: c’è un tesoro, sepolto in un’isola lontana dal pirata Flint, e c’è il suo bruciante desiderio d’impadronirsene: tutto quel che si pone in mezzo fra le due cose, tutto quello che lo intralcia, che lo ostacola, va tolto di mezzo. Nessuna cialtroneria è troppo grossa, nessuna carognata è talmente lurida da dovervi rinunciare, se dovessero servire alla scopo che egli si è proposto: mettere le mani sul tesoro, costi quello che costi.
In un mondo, come quello moderno, fatto di uomini complicati, ultrasensibili, introspettivi, nevrotici, complessati, in piena crisi d’identità e di valori («Memorie dal sottosuolo», il romanzo di Dostoevskij che è il capostipite di tutta la letteratura della crisi, e il cui protagonista è l’antenato di tutti gli anti-eroi e gli inetti proustiani, sveviani, pirandelliani, kafkiani, joyciani, è stato pubblicato già da vent’anni, nel 1864), John Silver è l’emblema stesso della pienezza vitale, e sia pure in una versione moralmente discutibile, per non dire decisamente inaccettabile. In lui vi sono una irruenza, una rumorosità, un "élan vital" talmente scatenato, da fare invidia a Nietzsche, a Dilthey, a Bergson, a Ortega y Gasset ed a tutti gli altri filosofi vitalisti messi in fila, l’uno dopo l’altro, compresi i lontani padri nobili, Bruno e Campanella.
Long John Silver è incontenibile, perché possiede ancora un animo semplice: rozzo, ma semplice; criminale, ma semplice; e, dunque, è una forza della natura: troneggia come un vaso di ferro in mezzo a tanti vasi di coccio. Saranno gli altri vasi ad infrangersi, se si verificheranno degli urti; essi, e non lui, andranno in mille pezzi. Lui è forte, d’una forza istintiva e primordiale: non conosce dubbi o ripensamenti, scrupoli o esitazioni. La linea più breve che passa fra due punti, per lui, è senz’altro una retta, sempre, in qualunque circostanza.
Ci si chiede, semmai, se un uomo del genere, così indecentemente "sano" (per usare il linguaggio di Svevo), in un mondo di "malati", possa ancora esistere, nel 1883. Non sarà un’utopia anche questa, da parte di Stevenson: e, pertanto, una forma mascherata, ma, in fondo, neanche troppo bene, d’intellettualismo, e sia pure d’intellettualismo alla rovescia? Non sarà, quello di John Silver, un tipo umano in fuga dalla realtà, l’equivalente di un alienato moderno, di un Enrico IV nell’omonimo dramma di Pirandello? Non sarà che egli tiene nascosta a tutti, ed anche a se stesso, la propria nevrosi, semplicemente reprimendola, o sublimandola nell’azione?
Non abbiamo la risposta. In un’epoca malata, i sani al cento per cento, non esistono. Bisogna accontentarsi di coloro i quali, consapevoli della malattia, vogliono lottare contro di essa. Lottano come possono, vale a dire con le armi che la società offre loro. Se questa è malata, anche le armi sono malate; e così lo sono i medici. Ma che importa? John Silver è un "malato" troppo simpatico…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels