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John Keats: quando un poeta s’improvvisa maestro di vita, ma pessimo maestro

A torto il poeta John Keats (Londra, 31 ottobre 1795-Roma, 23 febbraio 1821), universalmente noto, fra l’altro, per opere come «La Belle Dame sans Merci» e «Ode on a Grecian Urn», entrambe del 1819, viene generalmente considerato come uno dei più grandi esponenti, e quasi come il simbolo stesso, del Romanticismo inglese: la sostanza della sua poetica, e la stessa prospettiva da cui muove il suo discorso lirico, infatti, più che romantiche, devono essere considerate come profondamente, visceralmente illuministe; d’un illuminismo becero, arrogante, carico d’intolleranza e di disprezzo nei confronti di tutto ciò che non ha avuto la discutibile fortuna di essere toccato e trasfigurato dai "lumi" della Ragione.

Di più: Keats ha preso, dal movimento illuminista, ciò che esso ha di più specifico e peculiare: la continua, ostentata pretesa didattica; l’afflato filantropico e quasi il fervore religioso, consistente nel messianismo a sfondo razionalista; in breve: la strenua volontà, tetragona a ogni dubbio o possibile incertezza, di convertire un mondo di "infedeli" al nuovo Vangelo della salvezza universale, quello che ordina di fare un uso libero e spregiudicato della Ragione, sovvertendo le antiche certezze e rifiutando, come inganno ed astuzia pretesca, qualsiasi compromesso con l’esistente.

In questo senso, e solo in questo senso, Keats può essere considerato come un poeta religioso: religioso, perché vuole convertire; egli è un poeta pervaso dallo zelo, anzi, dal fanatismo religioso, corazzato nelle sue rocciose certezze, e assolutamente, costituzionalmente incapace di ascoltare voci diverse, di confrontarsi con altri punti di vista. Lui solo, e forse pochi altri simili a lui, sanno che cosa sia la Verità; pertanto si sono auto-proclamati salvatori del mondo, si sono auto-investiti del sacro dovere di diffonderla sino agli estremi confini della Terra, a qualsiasi costo, volenti o nolenti le genti cui essa è destinata.

Lo schema della nuova religione è quello tipico d’una religione di salvezza, e mutua dall’aborrito cristianesimo le linee fondamentali della sua teologia: prima c’era il Male, ossia l’ignoranza, concentrato di tutto ciò che di negativo porta con sé l’idea stessa di Passato; ora, però, è cambiata ogni cosa: la luce ha fatto irruzione nella prigione, la Ragione ha dato inizio ad una nuova era, l’era del Bene, ossia della libertà e della felicità universali. D’ora in poi, gli uomini guarderanno sempre avanti, pieni di letizia e di fiducia in se stessi; quel che sta alle loro spalle, lo ricorderanno con stupore misto a incredulità, per avere così a lungo soggiaciuto ai fantasmi, vani e inconsistenti, delle loro stesse allucinazioni, dei loro rimorsi e sensi di colpa ingiustificati.

Il fatto che Keats si considerasse un romantico, e che tale lo considerassero i suoi contemporanei; il fatto che egli negasse alla scienza la capacità di risolvere i grandi problemi della vita, e che rivendicasse alla poesia il compito di esplorarli, collocando i poeti su di un piano superiore d’esistenza: tutto questo non dovrebbe impressionarci più di tanto, perché non sarebbe certo il primo caso, né sarà l’ultimo, in cui un poeta non ha compreso veramente se stesso, o in cui il suo messaggio non è stato inteso nella maniera giusta dagli uomini della sua generazione. In prospettiva storica, è più facile vedere che le analogie di Keats con il Romanticismo non toccano la sostanza vera e propria della sua concezione del mondo, della sua Weltanschauung: che si basa, appunto, sul ripudio violento, perfino sdegnato, di qualunque forma di religione o di credenza nel soprannaturale e che rivendica orgogliosamente questa vita terrena, con i suoi piaceri e la sua inesausta nostalgia di bellezza imperitura, come la sola ed unica occasione di pienezza e di felicità.

Il suo estetismo ha portato Keats verso una specie di misticismo naturalistico, e tutto ciò è certo in sintonia con le teorie e con gli atteggiamenti dei poeti romantici; però non bisognerebbe mai scordare che il presupposto d’un tale misticismo naturalistico è la fiducia ferma, incrollabile, nella capacità dell’uomo di liberarsi dai lacci delle false credenze e di protendersi verso la Verità, dopo aver celebrato il funerale del vecchio spiritualismo, coi suoi stanchi e logori rituali e con le sue dolorose, assurde credenze.

Scrive, dunque, John Keats, nella poesia significativamente intitolata «Scritto in disgusto della volgare superstizione» («Written in Disgust of Vulgar Superstition»; in: J. Keats, «Poesie», a cura di Silvano Sabbadini, , Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1986, p. 114-115):

«Rintoccano tristi le campane della chiesa,

La gente chiama a qualche altra preghiera,

Ad altre tristezze, alla schiera triste degli affanni;

Agli inganni nuovi ch’arreca la tristezza del sermone.

E certo la mente dell’uomo è per forza stregata

Da nere insidie se può lasciare

Le gioie del focolare, l’arie lidie, le sublimi

Conversazioni sui grandi, di gloria incoronati.

Ancora rintoccano, e sentirei un fremito

Un gelo quasi sepolcrale, se non sapessi

Che come fiamme esauste stanno morendo,

Che è il loro sospiro, il loro ultimo gemito

Prima d’entrare nell’oblio — che fiori freschi

Stanno crescendo, e molte glorie di stampo immortale.»

Tutto questo livore contro il suono delle campane d’una chiesa, il suono più bello che abbia mai scandito il tempo della civiltà europea; la totale, ostentata incapacità di riconoscere quel che di positivo il cristianesimo ha introdotto nello spirito del Vecchio Continente, e, poi, nel resto del mondo; lo spirito rancoroso, vendicativo, esacerbato, che lo porta a compiacersi della prossima scomparsa e dissoluzione di quei valori e della imminente dispersione di quelle verità, tradiscono in maniera fin troppo evidente il pregiudizio ideologico, si direbbe di matrice neo-pagana, da cui sono mosse queste considerazioni del Nostro.

Pagano, in effetti, e più precisamente epicureo, è il suo sentimento quasi doloroso dell’attimo che fugge, della bellezza che è sempre sul punto d’involarsi; pagano è il suo esasperato estetismo, che lo pone in relazione diretta con scrittori come Walter Pater e Oscar Wilde, i quali da lui trarranno profonda ispirazione; pagano, infine, è il suo culto naturalistico dell’immediato, del qui e ora, il suo sensualismo decadente, il suo disprezzo supremo per tutto ciò che non è bello, che non sommuove i sensi, che non turba, né punge le profondità del cuore; così come pagana è la sua fede in una ragione capace di mettere in fuga, come spettri nella notte, i retaggi del passato.

Nella «Ode su di un’urna greca», Keats celebra l’eterna giovinezza di un gruppo di giovanotti che inseguono un gruppo di fanciulle: la loro bellezza è imperitura, perché mai il tempo riuscirà a scalfirla; solo che si tratta di una scena raffigurata nella materia, non della vita vera; per cui il vagheggiamento di quel genere di bellezza sconfina insensibilmente nella necrofilia: sono belle quelle forme giovanili, perché possiedono la distaccata immobilità della morte. In fondo, non paragona anche Eugenio Montale la statua che si erge nel silenzio del meriggio, al prodigio che dischiude la Divina Indifferenza (in «Spesso il male di vivere ho incontrato», che fa parte di «Ossi di seppia»)?

Per sottrarsi al male di vivere, alla opacità, alla squallida miseria della vita quotidiana, non c’è mezzo migliore che quello di lasciarsi rapire dall’estasi artistica: perché una cosa bella, è una gioia per sempre; ma cosa può esservi di più bello, d’una bella forma che sia stata sottratta alla tirannia del tempo e all’oltraggio della decadenza, che sia stata rapita alla mediocrità del mondo, ed eternata dalla perenne giovinezza della morte?

Peccato che tutto questo non porti da alcuna parte, se non agli sterili giardini del rimpianto, oppure alle morte stagioni d’una dimensione senza tempo, fuori della storia, fredda come la carezza fatta ad un cadavere. È una voluttà destinata a sbriciolarsi e a tramutarsi nel suo contrario: non si può immaginare che la bellezza, resa eterna dal gelido tocco della non-vita, imprigionata per sempre nella gabbia inesorabile di ciò che si vorrebbe durasse per sempre, ma che fugge tuttavia, senza fermarsi mai, permanga in mezzo a noi mortali. E dunque si tratta di una voluttà infeconda, maledetta, che si esaurisce nel buio di sepolcri innominabili, sbriciolati dal trascorrere di secoli e millenni, in una strana notte senza Luna, né stelle, ove pare che i sogni voluttuosi, e pur dolorosi, che non si realizzarono mai, si diano adesso convegno per circondarci ed assalirci da ogni parte, entro la nostra stessa cittadella, già quasi sul punto di capitolare. Come scrive in un verso celeberrimo, che fa parte di «Endimione», Keats pensa che una cosa bella rimanga in eterno, quale sorgente di gioia e di splendore. Ma dà vera gioia, questa venerazione per il morto passato?

In fondo, quello di Keats è una sorta di titanismo alfieriano, più che romantico: un titanismo che ha qualcosa di prometeico, anzi, di faustiano, ma portato sullo sfondo di rimembranze classicheggianti, le quali, se gli conferiscono solennità e senso del sublime, non sono base sufficiente per la costruzione di una nuova etica su delle fondamenta estetiche. Secondo l’insigne studioso ed anglista Mario Praz, Keats, pur essendo il padre nobile di tutto l’estetismo del tardo XIX secolo, non è, quanto a lui stesso, un vero esteta: la sua concezione sarebbe, infatti, a base etica. Ed è vero, a patto di considerarla "etica" non perché miri esplicitamente al Bene, ma perché vorrebbe instaurare ovunque quella moderna forma di supposto bene, che è la diffusione dello spirito "adulto", e perciò ribelle, contro tutto ciò che sa di quietismo, di perbenismo, di insincero.

E adesso torniamo alla lirica che qui sopra abbiamo riportato, e che ci è parsa emblematica del modo di porsi di John Keats nei confronti della propria missione di poeta. Come un profeta illuminista, egli è sceso in campo contro le "volgari superstizioni", che affliggono il popolo e destano tutta la sua ripugnanza: gli sembra incredibile, e quasi inconcepibile, che gli esseri umani, da troppo tempo ormai, si lascino incantare dalle fantasie religiose e che rinuncino a godere le gioie di questa vita, in attesa di quelle – puramente immaginarie – dell’altra. Se la prende con il suono delle campane, perché è un suono religioso; e fantastica di una umanità finalmente redenta da una così grave forma di schiavitù.

Né se la prende solo con le campane, ma anche con la preghiera: quel rivolgersi a Dio, a un Dio che non esiste, gli appare come la quintessenza della follia e dell’alienazione; e ogni cosa, ogni gesto, ogni parola, di quella stanca religione, gli appaiono tristi, opprimenti, gravati da una pesantezza irrimediabile, angosciosa: triste, in particolare, è il sermone del prete; tristi le parole di consolazione rivolte agli uomini che hanno perduto la presenza d’una persona cara. Ecco, in questo Keats è veramente moderno: nel rifiuto ostinato, orgoglioso, senza compromessi, della consolazione, che gli appare qualcosa d’insidioso, di falso. L’uomo che guarda al futuro non ha bisogno di essere consolato: egli può bastare a se stesso.

Eppure, la disperazione dell’uomo moderno è tutta qui: nel non voler ricevere consolazione, pur avendo sofferto in prima persona il misero fallimento dei suoi sogni di grandezza e di libertà incondizionata. Keats è molto sicuro del fatto suo: invece di consolazione, vuole dare agli uomini la verità: la verità che spazza via secoli e secoli di credenze ignoranti e superstiziose. Vuole essere un maestro; solo colui che si ritiene un maestro può arrogarsi il diritto di dire cose del genere: che gli uomini si sono sempre ingannati, e che lui possiede la chiave per la salvezza universale, onde redimere il mondo dalla tristezza e dalla bassa, volgare superstizione. Keats, però, nel momento in cui s’impanca a maestro, subito diviene un cattivo maestro: vuol distribuire al mondo la sua sofferta saggezza, ma è una saggezza infruttuosa, che si esaurisce nel vagheggiamento della bellezza "pura" e nel supremo distacco dalle cose, al fine di meglio goderne. Contraddizione in termini. Keats, dunque, è un sensuale che vuol prolungare la voluttà, allontanando l’oggetto del piacere, se solo si avvicina così da ghermirlo. Presuntuoso magistero, per un’estetica infeconda e per una vita sterile…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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