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28 Luglio 2015«Inconscio» è, per l’uomo moderno, l’abracadabra che dovrebbe spiegare tutto e non spiega nulla

Prima di Freud, è stato il filosofo tedesco Karl Robert Eduard von Hartmann (1842-1906), con la sua opera monumentale «La filosofia dell’Inconscio», in tre volumi, del 1869 — dunque, una buona trentina d’anni prima de «L’interpretazione dei sogni» di Freud, ma alcuni anni dopo le geniali «Memorie dal sottosuolo» di Dostoevskij, che sono del 1864 — a divulgare, fra il grande pubblico europeo e mondiale, il concetto di "inconscio".
L’opera di Eduard von Harmann delinea una concezione del mondo sotto la luce del realismo trascendentale ed è permeata da un fortissimo pessimismo di matrice schopenhaueriana, che si potrebbe interpretare come un crocevia fra buddismo ed esistenzialismo, se non fosse per la sua marcata fisionomia panteista, che induce l’Autore a prospettare, quale unica via d’uscita dall’infelicità universale, una sorta di suicidio cosmico, consistente nella sospensione della volontà di vivere a tutti i livelli dell’esistente.
Esito paradossale, ma perfettamente coerente, di una poderosa spinta verso l’Assoluto che genera un corto circuito con i presupposti panteistici e, in fondo, materialistici, dai quali la prospettiva di Hartmann muove. Per il pensatore tedesco, infatti, l’indagine metafisica mostra chiaramente che il fondamento della realtà non è puramente e semplicemente la volontà irrazionale, ma la tensione dialettica (ah, questo benedetto hegelismo che riaffiora in continuazione, anche nei più decisi avversari di Hegel, come, appunto, Kierkegaard e Schopenhauer, e nei loro epigoni!) fra la volontà e ciò che egli chiama l’«idea» – ma qui c’è anche una reminiscenza platonica o neoplatonica: curioso come a svalutare maggiormente il "mondo" siano proprio idealisti e materialisti, gli uni perché lo vedono troppo lontano dal modello ideale, gli altri perché lo vedono sprofondato senza scampo nella propria finitudine. Precisamente dalla tensione dialettica fra la realtà e l’«idea», secondo Eduard von Harttmann, la necessità delle cose arriva a trasformarsi in libertà e il fatto bruto, a trasformarsi in essenza (questo, almeno, nel regno delle parole: dove, da Hegel in poi, i filosofi hanno preso il vezzo di «porre» tutto quello che vogliono, ed anche il suo contrario, senza prendersi la briga di dimostrarlo).
La «Filosofia dell’Inconscio», comunque, ebbe uno straordinario — anche se effimero — successo di pubblico, e valse così a diffondere e collaudare il termine chiave della successiva "filosofia" (e qui le virgolette sono veramente d’obbligo) del padre della psicanalisi, Sigmund Freud: il quale ebbe il vantaggio di trovare il pubblico già preparato a ricevere la formula magica, l’«abracadabra» di tutta la sua "speculazione", allorché le ricerche del medico viennese ebbero la strana pretesa di farsi speculazione e di abbracciare l’intero campo della realtà, religione e metafisica comprese; come se qualcuno avesse già dissodato e diligentemente arato, per poi seminarlo, il campo ove ora Freud veniva, buon ultimo, a raccogliere i frutti del lavoro altrui.
Ma fu davvero un vantaggio, e, sì, per chi lo è stato: per il progresso della conoscenza o per lo stabilimento di un nuovo dogma pseudo-scientifico?
Che relazione c’è, esattamente, fra l’Inconscio di cui parla Hartmann e quello che il padre della psicanalisi pone a fondamento della sua concezione antropologica?
Una terza domanda, ancora più politicamente scorretta, si potrebbe formulare più o meno in questi termini: il vasto pubblico che, in quegli anni, s’improvvisava lettore di libri di scienza e di filosofia — proprio come Freud, da medico di patologie psichiche, ebbe l’audacia d’improvvisarsi filosofo e persino filosofo della religione -, mentre, fino a pochi anni prima, aveva l’umiltà e il buon gusto di riconoscere i propri limiti, e di non assumere come verità divine delle formule e delle teorie che aveva bensì orecchiato, ma delle quali, in buona sostanza, non aveva compreso un accidente di niente — veniva ad essere avvantaggiato, oppure fuorviato, dall’aver letto, o sentito parlare, del poderoso libro di Hartmann (che era pur sempre, a suo modo, una ricerca metafisica), preparandosi, per tale via, a fare sue, un po’ alla volta, le categorie psicologiche e, si fa per dire, filosofiche, del freudismo, le quali, rispetto a quelle del precursore — se così vogliamo chiamarlo – avranno tutt’altra origine, tutt’altra prospettive e tutt’altro spessore speculativo?
Vediamo.
Ci è sembrato utile inquadrare l’interrogativo nella prospettiva delineata dallo storico della filosofia Jean-Claude Filloux nella sua ormai classica monografia «L’inconscio» per la mitica collana «Que sais-je?»(titolo originale: «L’inconscient» Presses Universitaires de France, Paris, 1954; traduzione dal francese di Giulia Vecchi, Milano, Garzanti, 1955, 11-13):
«[…] il sistema di von Hartmann ("Philosophie des Unbewussten", 1869), come i due precedenti [Schopenhauer e Carl-Gustav Carus], è, innanzitutto, speculazione metafisica. Si tratta di una specie di panteismo hegeliano, in cui l’Inconscio rappresenta l’anima universale, l’Uno Tutto, che apporta in seno alla natura una logica immanente. Non è il caso in questa sede di insistere su questo aspetto dell’opera di Hartmann, bensì sui numerosi capitoli in cui viene stabilito che non solo l’inconscio interviene nei processi della vita organica, ma anche che l’attività cosciente del pensiero riposa necessariamente su un’attività inconscia.
Hartmann infatti ha avuto il merito di distinguere chiaramente l’inconscio nella vita corporea e nello spirito umano. Egli si figura il primo come l’anima che dirige la finalità organica: l’organismo infatti, egli dice, è inspiegabile come semplice meccanismo; vi è uno psichismo dell’organismo, e questo è l’inconscio. I riflessi, ad esempio, sono movimenti di reazione "la produzione dei quali non può essere spiegata solo in base alle leggi generali della materia… il principio interiore di un riflesso non può essere se non un principio spirituale e incosciente". Parimente, l’ISTINTO presenta una finalità inconscia; esso è "un’attività diretta ad uno scopo senza averne coscienza". Anche la nutrizione richiede l’azione direttrice di un principio psichico: "Poiché", come dice Hartmann, "nessuna spiegazione materialista può render conto di questo cambiamento così intelligente, bisogna pure attribuirlo all’intervento di una volontà intelligente…". In breve, in ciascuno di noi e alla base dei fenomeni fisiologici stessi, sta una provvidenza individuale.
Per quanto riguarda la vita propriamente spirituale, Hartmann parla di diversi processi inconsci che intervengono nella percezione, nella formazione dei concetti, nei ragionamenti. D’altra parte, l’inconscio presiede ai sentimenti: l’amore è un volere diretto ad uno scopo senza che vi sia coscienza, il PIACERE è l’eco delle soddisfazioni o delle contrarietà di una volontà che si ignora. Riallacciandosi a Schopenhauer, Hartmann spiega come "ci accada spesso di provare piacere a compiere azioni che per principio noi condanneremmo e per le quali eravamo convinti di provare antipatia. Ciò non indica forse chiaramente che la nostra volontà tendeva in fondo ad altri fini che non quelli a lei prestati dalla coscienza?"
Le SCOPERTE GENIALI hanno la loro origine nell’inconscio, esse sono sempre il frutto di un "ruminare incosciente", di una "digestione latente delle idee" che le prepara. "Sono persuaso che l’azione di simili processi sia decisiva anche nelle questioni poco importanti, purché esse presentino per noi un interesse di una certa intensità e che, di conseguenza, in tutti i problemi riferentisi alla vita, l’inconscio ci suggerisca la vera e propria soluzione: solo dopo il fatto la coscienza ne ricerca le cause, ma a questo punto il giudizio è già stato emesso". L’inconscio che produce l’opera di genio e l’inconscio che presiede alle nostre decisioni sono dunque simili nel loro funzionamento. L’INTERA VITA COSCIENTE È SOTTO L’INFLUENZA DOMINATRICE DELLO PSICHISMO INCONSCIO.
Infine, qualora si voglia creare un legame tra l’inconscio nel corpo e l’inconscio nello spirito, bisogna definire "l’anima individuale come la totalità incosciente e una delle funzioni organiche e psichiche dell’individuo".»
Come si vede, il pensiero di von Hartmann riguardo all’inconscio si presenta con i caratteri tipici di una soluzione intermedia, si direbbe di compromesso, fra la concezione positivista e materialista, che egli rifiuta, perché la giudica insufficiente a spiegare i fenomeni concreti della vita, (sia quelli di ordine organico, sia quelli di ordine spirituale) e la concezione idealista, che affida un ruolo preponderante alla volontà diretta ad un fine, perché egli constata che il fine esiste sempre, ma non sempre viene riconosciuto come tale da colui che agisce, il quale, di fatto, sovente si trova ad agire in una maniera ben diversa da quella che avrebbe voluto, o immaginato, o che aveva giudicato idonea rispetto a quella certa situazione.
Von Hartmann, peraltro, ha avuto il merito — secondo noi — di sfiorare la giusta impostazione del problema, laddove ha intuito l’esistenza di uno psichismo inconscio, presente non solo nell’uomo, ma anche nella natura tutta; ha afferrato, pertanto, la struttura teleologica del reale, per cui la volontà (logos) tende alla realizzazione di un fine (télos), e ciò accade sempre, sia che gli esseri ne siano consapevoli, sia che non lo siano. Peccato che la sua intuizione si sia fermata qui: se l’avesse spinta appena un po’ oltre questa soglia, si sarebbe accorto che la buona vecchia metafisica, rifiutata, in sostanza, dal pensiero moderno post-kantiano, offre la risposta all’ulteriore, inevitabile interrogativo: verso che cosa, precisamente, è diretta la volontà della natura, così come quella dei singoli esseri, tanto quelli irragionevoli, che ragionevoli?
Le cose tendono a un fine, ma, si direbbe, non lo sanno; eppure le piante, gli animali, la natura tutta, procedono secondo uno schema ordinato, osservando procedimenti ben definiti: i ragni non tessono a caso le loro tele e le anguille non intraprendono a caso le loro migrazioni: vi sono un ordine, una razionalità nel dispiegarsi delle dinamiche istintive; così come, per analogia, si coglie un ordine e un significato nella tensione dell’uomo, creatura intelligente e dotata di volontà libera e autonoma, verso qualcosa di più perfetto e di più stabile di tutto ciò che esiste nel mondo circoscritto dalle coordinate dello spazio e del tempo.
L’idea di un inconscio che funge da "luogo" ove si generano i meccanismi spontanei, istintivi, di codesta finalità inconsapevole della natura, ha finito, così, per diventare non il trampolino verso la conquista di una verità più alta, ma una sorta di "abracadabra", di "passe-partout", grazie al quale, mediante l’applicazione di una semplice etichetta nominalista, si è finito per scansare la responsabilità, e la fatica, di ulteriori indagini, di più tenaci approfondimenti. "Inconscio" è diventato una formula magica, o quasi, che dovrebbe spiegare tutto, ma non spiega proprio niente: perché basta domandare a codesti sapientoni: ma l’inconscio, a sua volta, da che cosa proviene, o, comunque, come si origina?, ed ecco che non sanno che cosa rispondere, scuotono le spalle con commiserazione e si limitano a ribadire che l’inconscio è l’inconscio, e basta.
Peccato per loro che il compito e il significato della filosofia siano appunto quelli di fare domande, sempre, senza mai fermarsi a metà e senza fare sconti a nessuno. Se tutto ciò che esiste è portato ad agire secondo un certo fine, da dove ha origine tale tensione? E verso che cosa è diretta? Possibile che nasca dal nulla e che proceda verso un altro nulla? La visione naturalistica e meccanicistica, affermatasi specialmente dopo la diffusione della teoria evoluzionista di Wallace e Darwin, ammette solo una finalità intrinseca alla natura stessa, e diretta, pertanto, solo e unicamente alla sopravvivenza delle specie; quanto alla sua origine, è costretta a ricorrere al caso: per caso di verificano certe mutazioni genetiche negli organismi viventi, e per caso esse vengono selezionate e trasmesse agli individui, secondo la convenienza del più adatto.
Ora, a parte il fatto che l’estensione della teoria biologica evoluzionista all’intera sfera del reale è arbitraria (e lo è anche nella ipotesi di ridurre tutto il reale a "natura", nel senso di materia), resta ancora qualcosa che non quadra, e già Eduard von Hartmann lo aveva compreso: come potrebbe una spiegazione materialista rendere conto del fatto che ogni azione "naturale" (per esempio, il fatto della nutrizione) proceda verso un fine intelligente, se non si è disposti ad ammettere alcun genere di volontà intelligente? La volontà istintiva presente in natura sarebbe, dunque, un meccanismo perfetto, ma inutile, nato non si sa come, che gira a vuoto, senza alcuna ragione all’infuori di se stesso e senza alcuna spiegazione all’infuori del proprio esistere e del proprio perpetuarsi? Tale è la miseria del panteismo: che si limita ad adorare l’esistente, rinunciando ad ogni orizzonte di senso…
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