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28 Luglio 2015Il turismo è l’arte della delusione? A formulare questo interrogativo, solo apparentemente paradossale, è stato un grande scrittore, universalmente noto come l’autore de «L’isola del tesoro», che ha fatto sognare generazioni di ragazzi e anche di adulti: lo scozzese Robert Louis Stevenson (Edimburgo, 1850 — Upolu, Isole Samoa, 1894).
Stevenson aveva viaggiato moltissimo nel corso della sua vita, sempre inseguito dalla sua inquietudine e soprattutto dalla sua salute malferma (una forma di tubercolosi), che lo rendeva bisognoso di climi caldi e asciutti, anche se non poté sfuggire, dopo una lunga partita giocata con la morte, allo scacco matto finale, che gli venne da una emorragia cerebrale, su di una piccola e felice isola del Pacifico meridionale, quando non aveva ancor toccato i quarantacinque anni.
Una volta capitò, giovane e squattrinato, ma innamorato di una bella divorziata americana, Fanny van der Grift (che aveva dieci anni più di lui, nonché due figli avuti dal precedente matrimonio), sulle montagne della California, a metà strada fra San Francisco e Sacramento: l’aveva appena sposata e la coppia aveva trascorso la luna di miele in un luogo decisamente anticonformista, un ex accampamento di cercatori d’oro rimasto abbandonato, presso la valle di Napa, famosa per i suoi vini, e il piccolo centro di Calistoga. Al di sopra di tutto si ergeva la montagna più alta della regione, il Mount Saint Helena (1.323 metri), da non confondersi con la molto più celebre — e temibile — montagna vulcanica denominata Mount St. Helens (2.550 m.), che si trova alquanto più a settentrione, nello Stato di Washington, e che ancora fra il marzo e il maggio del 1980 ha dato prova della sua tremenda forza distruttrice. Vicino a Calistoga si trova una spettacolare foresta pietrificata, che un intraprendente colono di origine svedese aveva scoperto nel 1870 e che aveva deciso di aprire alle visite a pagamento, per guadagnarci sopra abbastanza da integrare i suoi modesti proventi di agricoltore.
Inutile dire che, un bel giorno, lo scrittore non resistette al desiderio di visitare un posto così suggestivo e romantico, dato che l’aveva, per così dire, a portata di mano: ma ne rimase alquanto deluso, poiché quegli enormi tronchi, abbattuti e fossilizzati, non gli dissero un gran che, anche se si consolò in parte del tempo impiegato e della strada fatta, con la conoscenza del signor Evans, il proprietario, che gli parve un tipo estremamente interessante. Il vero scrittore si riconosce anche da un simile episodio, apparentemente insignificante: se le pur celebratissime bellezze naturali si rivelano inferiori alle attese, egli si guarda intorno e scopre, nel carattere dei suoi simili, tesori sempre attraenti e non meno degni d’attenzione di quelli offerti del paesaggio. Stevenson avrebbe poi affidato le sue impressioni ad un piccolo libro di viaggio che si può leggere, ancora oggi, con notevole piacere, come un classico minore: «The Silverado Squatters: Sketches from a Californian Mountain», scritto nel 1883, ma pubblicato, a Londra, solamente nel 1892, due anni prima della morte dello scrittore.
Così, dunque, R. L. Stevenson descrive il suo incontro con la foresta pietrificata più antica del mondo, quella di Calistoga, i cui tronchi giganteschi furono inglobati da una colata di lava durante una eruzione vulcanica avvenuta ben tre milioni d’anni fa (da: R. L. Stevenson, «Gli accampati di Silverado»; titolo originale: «The Silverado Squatters»; traduzione dall’inglese di Attilio Brilli, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1985, pp. 17-22):
«Erano all’incirca le tre del pomeriggio quando lasciammo lo Springs Hotel. Il calore del sole era penetrato in tutto il mio essere. Nella valle spirava una brezza fresca e sostenuta, senza posa, satura di profumi; nella parte alta s’ergeva il Mount Saint Helena, dalla vetta nuda e dai contrafforti orlati di piante, imponente montagna che irradiava calore, Una volta ci apparve incorniciato in un boschetto di querce argentee, alte e leggiadre, perfetta mescolanza di linee e colori. Procedendo, passammo innanzi a una mucca distesa sul ciglio della strada, il cui campano tintinnava al moto lento delle ruminanti mascelle, il grosso muso rossiccio brulicante di mosche, vero monumento di soddisfazione.
Poco oltre prendemmo a sinistra, su per un sentiero di montagna, e per un paio d’ore percorremmo una sequenza verde e intricata di valli ricche di buona legna, capaci di fornire di quando in quando uno squarcio del Mount Saint Helena e dell’azzurro orizzonte collinare, attraversate da numerosi ruscelli che l’avanzare del carro rompeva in mille spruzzi. A destra e a sinistra l’unica traccia della presenza umana era costituita dalla strada che stavamo percorrendo; non credo di aver incontrato più di una fattoria durante l’intero percorso e anche quella sprangata e senza alcun pennacchio di fumo. Ma avevamo quei limpidi ruscelli a farci compagnia, quell’acqua dalla purezza abbagliante e cristallina che nel suo corso si frangeva contro le ruote in gocce di diamante, sferzando la luce del sole con corroborante frescura. E che dire dell’infinita varietà di verdi, delle foglie scosse dal vento, dell’orizzonte intravisto a tratti, del calare nel folto degli alberi a prima vista impenetrabile, del sentiero tortuoso che sembrava paventare la radura? Godevamo appieno dei boschi, della primavera e dell’aria aperta.
Strada facendo il carrettiere mi istruì sugli alberi californiani e la lezione fu quanto mai utile, poiché ero piovuto fra pittori che non sapevano il nome di alcunché, e fra messicani che di tutto ignoravano il nome inglese. Mi fece conoscere la madrona, la manzanita, l’occhio di daino, l’acero; mi additò la quaglia di montagna con il ciuffo e mi indicò alcune sequoie che svettavano contro il cielo rampollando dai resti di quelle vecchie. In questa zona, infatti, tutto era morto, anche le forme di vita più nobili, sequoie e pellerosse, ugualmente condannate.
Giunti alla fine in una valletta appartata, ci imbattemmo in una insegna da locanda, su di un pesante cancello di legno: "La foresta pietrificata. Proprietario C. Evans". Entro il recinto su di un poggio erboso, c’era la casa padronale affiancata da un’altra più piccola, adibita a museo, che raccoglieva foto e fossili, un vero e proprio richiamo per i turisti fra queste solitarie colline.
Il proprietario era un ardimentoso svedese dalla pelle bianca, ormai vecchio. Dio solo sa come avesse potuto avventurarsi in questi luoghi e come ne avesse preso possesso — non ricordo quanti anni fa — solo soletto, piegato in due dalla sciatica, con qualcosa da sbocconcellare in saccoccia e un’ascia sulla spalla. Anni e anni di infruttuosi viaggi per mare l’avevano ridotto così, malato e privo di soldi. Senza dubbio aveva tentato la fortuna nelle miniere d’oro senza ricavarne niente; senza dubbio gli era piaciuto bere e aveva condotto l’esistenza dei marinai nei porti di mare. Ma dopo tutte queste avventure era giunto qui e poiché il posto l’aveva colpito, vi s’era stabilito per crearsi una nuova esistenza, lontano dai procacciatori di ingaggi e dalle acque salmastre. Gli era bastato vedere la fattoria per star meglio.; era "il posto più bello delle montagne californiane"."Non è bello, ora?", disse, e lo amava a tal punto da investirci fino all’ultimo soldo che guadagnava. […]
E la foresta? Su un pendio coperto di folta erica — come pascolo sarebbe stata necessaria un’ulteriore ripulita, a mio avviso — erano sparsi in abbondanza tronchi fossili di diverse dimensioni, sul tipo di quello che ho già menzionato. La foresta era senza dubbio singolare e piuttosto antica, uno spettacolo che avrebbe dato il batticuore al geologo, ma che mi lasciava indifferente: il turismo è l’arte della delusione.
"Non c’è nulla di così azzurro sotto il sole,
per cui valga la pena di viaggiare."
Per fortuna il cielo ci ricompensa con molte piacevoli viste e avventure durante il percorso e, a volte, quando si ha solo l’intenzione di visitare una foresta pietrificata, ci imbattiamo in un personaggio di gran lunga più interessante, come il signor Evans, al quale auguro ogni bene per una serena e lunga vecchiaia.»
Il fatto è che, riguardo al turismo, vale la stessa aurea massima che vige per ogni altro ambito della vita umana: la delusione è direttamente proporzionale alle dimensioni dell’aspettativa. È difficile, se non impossibile, che, a fronte di una grande aspettativa, la realtà si riveli pienamente soddisfacente: se non altro perché — come spiegherebbe il buon Leopardi — il reale è sempre inferiore all’attesa, dato che l’immaginazione ci dipinge cose meravigliose che, nella realtà, non esistono, cosa che rende lo smacco inevitabile.
Anche l’opinione di Ludovico Ariosto tendeva a scoraggiare le aspettative troppo grandi: l’uomo, per lui, è una creatura essenzialmente desiderante: sogna di possedere quel che non ha, quello che gli è difficile raggiungere; ma se, per caso, talvolta riesce a ghermirla, allora ne rimane ben presto deluso, e subito riparte alla ricerca d’un nuovo oggetto del desiderio. Le cose gli appaiono desiderabili perché sono elusive: di conseguenza, possederle equivale a distruggerne l’impalpabile e indefinibile magia.
Ora, se Leopardi ed Ariosto hanno ragione, tanto vale mettersi l’anima in pace e rinunciare a viaggiare; a meno che quel particolare tipo di viaggiatore che è il turista non sia già talmente predisposto al consumo culturale dei luoghi che vedrà, da appagarsi non di una vera soddisfazione personale, ma, semplicemente, di trovare una certa corrispondenza fra quel che vede e quel che gli era stato detto che avrebbe visto: un po’ come quei visitatori di mostre d’arte moderna, invero assai poco esigenti, i quali, forse, non capiscono molto delle opere che vedono, e poco le apprezzano, però si auto-convincono trattarsi di capolavori, dato che tutti le definiscono tali, ed essi, da parte loro, non hanno certo la pretesa di rubare il mestiere ai critici d’arte. Così, probabilmente, fanno anche molti turisti: non intendono contestare ciò che dicono le agenzie turistiche; se hanno detto loro che vedranno i luoghi più belli del mondo, essi ci credono, per così dire in anticipo, e, giunti sul posto, si persuadono d’essere stati molto fortunati a poter vedere i luoghi più belli del mondo, quand’anche una vocina interna insinuasse loro qualche dubbio.
La domanda che il viaggiatore consapevole dovrebbe farsi, prima ancora di porsi davanti a un determinato paesaggio, più o meno famoso, più o meno celebrato, dovrebbe essere, pertanto, sulle vere motivazioni che lo hanno spinto a partire e su quello che egli si aspetta di trovare, indipendentemente dai singoli luoghi che visiterà, considerati in se stessi. E non ci si venga a dire che questo è uno strano modo di porre il problema, perché, in fondo, la differenza tra viaggio e viaggio non sta nelle motivazioni, ma nei luoghi precisi che si visiteranno: noi siamo persuasi che questo non è vero, e chi la pensa in tal modo, meglio farebbe a non partire affatto da casa sua. (Ma su questo argomento, cfr. il nostro precedente articolo: «Viaggiare o restare?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 14/01/2011).
Il fatto è che il turista rappresenta il tipo specifico del viaggiatore MODERNO: meschino e volgare sia nelle motivazioni che negli scopi che si prefigge. Le motivazioni raramente si innalzano al di sopra di un banale desiderio di esotismo e di "distrazione"; gli scopi, difficilmente vanno oltre la brama di portare a casa un ricco "carnet" di filmini e fotografie, di prodotti artigianali "locali" (magari Made in China), oltre all’immancabile "selfie" con lo sfondo del Fusijama, del Colosseo o delle Cacate del Niagara. Ma che senso ha viaggiare in questo modo? Qualunque cosa si vada a vedere, e per quanto lontano ci si spinga, fosse pure fra i ghiacci galleggianti dell’Antartide, l’anima non ne verrà arricchita di un’unghia.
In fondo, il turismo è l’arte della delusione — come afferma Stevenson – per colui che non si è mai domandato chi sia e che cosa si aspetti dalla vita. Chi si è fatto queste domande ed ha cercato di rispondervi, potrà viaggiare o restare, la cosa, dopotutto, non avrà una grande importanza: perché il viaggio "vero", e l’unico che conta, egli lo avrà comunque già fatto, o almeno incominciato: quello alla scoperta dell’essenziale.
L’essenziale non è dove andare fisicamente, ma dove andare spiritualmente. Il viaggio più grande è quello che dobbiamo fare alla scoperta di noi stessi: la sola, vera preparazione a quell’altro viaggio, ancora più grande e misterioso: quello che incomincerà quando davanti a noi si apriranno le porte dell’altra vita, spalancandoci la prospettiva di un continente vergine, tutto da scoprire…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels