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28 Luglio 2015
La crociata contro gli Albigesi in un quadro di Daniel van den Dijck a Treviso
28 Luglio 2015Nel «Dialogo della natura e di un Islandese», uno dei vertici del suo pessimismo cosmico, Giacomo Leopardi fa dire al protagonista queste parole: «Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti all’uomo, e infiniti di numero, tanto che un filosofo antico non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere».
Il filosofo antico a cui allude Leopardi è Lucio Anneo Seneca, il quale, nelle «Naturales quaestiones» (VI, 2-3; traduzione di Dionigi Vottero, Torino, Utet, 1989, pp. 589-91), aveva affermato testualmente:
«Se volete essere liberi da timore, pensate che tutto è da temere; guardatevi intorno quali insignificanti cause bastano a sconvolgerci né il cibo, né le bevande, né la veglia, né il sonno sono per noi salutari se non si osserva una certa misura; ormai avete capito che noi siamo dei miseri corpi insignificanti e deboli, inconsistenti, annientabili senza grandi apparati. Senza dubbio questo è per noi il solo pericolo: che la terra trema e improvvisamente si spacca e trascina giù ciò che le sta sopra! Ha un alto concetto di sé chi ha paura dei fulmini e delle scosse e delle voragini della terra. Quando si deciderà a prendere coscienza della propria debolezza e a temere il catarro? A quanto pare questa è la nostra condizione di creare: abbiamo ricevuto in sorte una corporatura così florida, siamo cresciuti sino a raggiungere tale grandezza! E per questo, se le parti del mondo non si sconvolgono, se il cielo non tuona, se la terra non si sprofonda, noi non possiamo perire! […]
Contro la morte nessun conforto è più valido del fatto stesso che s deve morire, e contro tutti questi eventi che ci atterriscono dal di fuori vale soprattutto la consapevolezza che coviamo in seno. Infatti che cosa vi è di più assurdo che abbattersi di fronte ai tuoni e rifugiarsi strisciando sottoterra per paura dei fulmini? Che cosa di più stolto che temere l’ondeggiamento della terra o il crollo improvviso delle montagne e l’irruzione del mare sbalzato fuori dalla riva, quando la morte ovunque è in agguato e ci viene incontro da ogni parte e niente è così minuscolo da non aver forza sufficiente per mandare in rovina il genere umano? A tal punto codeste sciagure non ci debbono sbigottire, come se comportassero un male maggiore della morte comune, che anzi, essendo inevitabile uscir di vita ed esalare lo spirito un giorno o l’altro, è meglio farlo per una causa di morte più grandiosa. Morire bisogna, dove e quando che sia; stia pure salda la terra su cui posiamo i piedi e si mantenga al suo posto senza essere scossa da nessuna violenza, un giorno o l’altro sarà sopra di me. (Che cosa) importa se sarò io a gettarlo su di me o se si getterà da se medesima su di me? Si spalanca e si spacca per la immensa potenza prodotta da un male ignoto e mi precipita nei suoi abissi senza fondo; ebbene? Forse la morte è più leggera alla superficie della terra? […]
Gioverà anche convincersi in precedenza che niente di simile fanno gli dèi e che gli sconvolgimenti del cielo e della terra non sono la conseguenza dell’ira divina: questi fenomeni hanno le loro cause specifiche, e non infieriscono a comando, bensì gli elementi, per certi loro difetti, come avviene nel corpo umano, vanno soggetti a tali alterazioni, e proprio mentre che facciano del male, in realtà lo subiscono. Per noi, poi, che non sappiamo la verità, ogni fatto è più terribile, specialmente quei fenomeni la cui rarità è motivo di più grave terrore: i fenomeni che ci sono familiari non ci fanno quasi impressione, ma quando un fenomeno è insolito la paura è più grande. Ma perché qualche cosa è per noi insolito? Perché noi afferriamo la natura cogli occhi e non coll’intelletto e non pensiamo a ciò che essa può fare, ma solo a ciò che ha fatto. Perciò siamo puniti, per questa nostra negligenza, col terrore ispirato da fenomeni che ci sembrano nuovi, mentre in realtà non sono nuovi, bensì insoliti.»
Leopardi, come al solito, pur di sostenere e rafforzare la sua concezione generale del reale basata su di un pessimismo radicale, nichilista e disperato, non esita ad "arruolare" altri pensatori e ad immatricolarli nel proprio battaglione; infatti, non ci vuol molto, confrontando i due brani, per rendersi conto che, mentre il pessimismo leopardiano è totale, radicale e interamente fine a se stesso, quello di Seneca è limitato al discorso specifico sul rapporto fra uomo e natura: l’uomo non si illuda, la natura è cosa troppo più grande di lui, al cui cospetto anche le sue paure assumono una sfumatura di ridicolo: egli teme di essere minacciato dalle grandi catastrofi naturali, ma, in effetti, basta un po’ di catarro per causargli una seria malattia, e, ad ogni modo, una sola cosa è assolutamente certa, fin dal primo istante della nostra vita: che dobbiamo morire. E dunque, conclude il filosofo romano, che importa se sarà oggi o domani; se avverrà a causa di un terremoto, o nel silenzio della nostra stanza?
Ci siamo già occupati del pensiero filosofico di Seneca, in alcuni precedenti articoli (cfr. «La fragilità e la grandezza dell’uomo nella visione filosofica di Seneca», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 01/02/2012, e «Seneca e l’idea di progresso»m pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 02/03/2015). L’aspetto che Leopardi ci sollecita ad approfondire discende dal quadro generale del suo percorso speculativo: un naturalismo radicale, che sfocia inevitabilmente in un razionalismo pessimista.
Lo stoicismo di Seneca, come l’epicureismo di Lucrezio, ha uno scopo preciso: rendere l’uomo libero dalle passioni che turbano l’animo, prima fra tutte la paura della morte. Per Seneca, solo rendendosi conto di essere parte del Logos, cioè di un progetto ragionevole e provvidenziale dell’universo, l’uomo si può liberare dalle passioni che lo confondono, lo angosciano e lo tengono legato a mille timori e superstizioni. Per vivere felice, l’uomo deve conquistare la propria "libertas" interiore; e, per riuscirvi, deve comprendere che la sua esistenza si inscrive in un disegno più ampio, di natura razionale, del quale egli è chiamato a far parte; così come deve comprendere e riconoscere quali sono le cose irrazionali che non appartengono al Logos e che, pertanto, sono indegne di lui, compresa la sua paura.
Leopardi, invece, si ripromette di mostrare che la vita è irrilevante, miserabile, casuale, priva di alcun significato: la sua citazione di Seneca è puramente strumentale, perché Seneca non avrebbe mai condiviso il nichilismo di Leopardi; pur condividendo con lui le più ampie riserve sull’idea di progresso, non avrebbe mai sottoscritto l’affermazione che la cosa migliore è il non essere, essendo male, nonché destinato al male, tutto ciò che esiste. Seneca non crede al progresso perché rimpiange lo stato di natura, quando l’uomo viveva felice, accontentandosi di soddisfare i suoi bisogni più elementari; Leopardi non ci crede, perché non crede né alla storia, né alla società, né agli uomini, insomma non crede a nulla, tranne che alla funzione liberatrice della morte.
C’è una bella differenza tra le due posizioni. Leopardi rimprovera alla natura di essere matrigna, di mettere al mondo i viventi con un indefinito bisogno di felicità, e poi di abbandonarli, incurante delle loro sofferenze; Seneca non ha nulla da rimproverare alla natura, perché la vede come la manifestazione del Logos, dunque come buona in se stessa; e, quanto alla felicità umana, egli la ritiene possibile, perché ragionevole: basta essere ragionevoli, ed ecco che la felicità si mostra a portata di mano. Basta sbarazzarsi di ciò che é superfluo — ambizioni, orgoglio, smodato desiderio di piacere, paura delle cose dolorose — e noi possiamo vivere una vita piena, luminosa, appagante. Per il naturalista Seneca, il ritorno alla natura è possibile: condivide con Rousseau, in un certo senso, il mito del buon selvaggio, ma non la sua malinconia, perché pensa che l’amicizia con la natura sia possibile, qualora noi la vogliamo davvero.
L’accostamento fra lo stoicismo di Seneca e la concezione cristiana della vita nasce dal comune rifiuto e dalla comune condanna dell’ego, della brama, della furia di vivere; certi passi delle «Lettere a Lucilio», in cui si stigmatizza il disordine morale e materiale di quanti vivono all’insegna del piacere, sembrano la versione pagana di certi passi paolini, e specialmente della parte iniziale della «Lettera ai Romani»: da ciò la tradizione, probabilmente leggendaria (ma chi può dirlo con assoluta certezza?) di una conoscenza diretta fra i due, o, quanto meno, di una certa conoscenza della dottrina cristiana da parte del filosofo di Cordova.
Le analogie, però, non devono farci perdere di vista le differenze, che sono sostanziali. Per il cristianesimo, la felicità si realizza con l’abbandono dell’uomo all’amore di Dio; per Seneca, con il ritorno alla Natura/Logos. Seneca, nonostante certi atteggiamenti insoliti nella mentalità pagana – per esempio, l’orrore e il disgusto per gli spettacoli gladiatori, o la condanna morale della schiavitù — è pur sempre un Romano al cento per cento, un filosofo schiettamente pagano: condivide con la cultura classica il naturalismo radicale di fondo, per cui la natura gli appare come buona e perfetta in se stessa, e tutto quel che deve fare l’uomo per essere libero e felice, è di fidarsi di essa e seguirla il più possibile, sempre alla luce della ragione (che è, essa pure, un elemento "naturale"). Non pensa che il male possa venire da un uso sbagliato della ragione stessa, meno ancora della volontà: addossa alla brama e al timore tutta la colpa per l’infelicità dell’uomo.
Seneca, in altri termini, non si chiede se vi sia, nell’uomo, un elemento peccaminoso; l’idea stessa di peccato gli è estranea, come lo è, sostanzialmente, a tutta la cultura classica e pagana. Certo, per i Greci il peccato esiste: Oreste che uccide la madre Clitennestra insieme all’amante Egisto, e sia pure per vendicare la morte di suo padre, Agamennone, commette un’azione empia, che scatena le Furie e che deve essere riparata: riparata, appunto, non "espiata". Il matricidio è una offesa agli dèi, più che un turbamento dell’ordine cosmico e una macchia che inquina la vita dell’anima; ma, a certe condizioni, quella offesa può essere placata. Dunque il peccato in senso cristiano è una cosa nuova, rispetto al paganesimo: è una infedeltà dell’uomo al piano amorevole di Dio. Non ha un carattere legalistico, ma sostanziale; non si può "riparare", ma solo "espiare", e ciò è possibile mediante la conversione dell’anima. In altre parole, per il cristianesimo il peccato è il punto d’arrivo di un orientamento disordinato dell’anima; per il paganesimo, è solo un "errore". Il paganesimo classico, stoicismo compreso, è razionalista; il cristianesimo no (pur non essendo affatto nemico della ragione: e lo si vedrà con le costruzioni filosofiche di Agostino e di Tommaso d’Aquino); per il cristianesimo, non ci si salva con la ragione, ma con l’amore.
Pertanto, a ben guardare, esiste una opposizione di fondo e una inconciliabilità quasi assoluta fra la concezione di Seneca e quella cristiana. L’idea che la ragione sia lo strumento principale della redenzione individuale è gnostica; così come il naturalismo pagano, e anche stoico, porta, per forza di cose, o al razionalismo pessimista di un Seneca, o al dualismo schizofrenico dei manichei. Se la natura è buona, da dove viene il male? Dalle passioni, dice Seneca; ma le passioni, da dove vengono? Non vengono anch’esse dalla natura? Dalla ragione, no di certo. Allora, può darsi che la natura sia cattiva in se stessa: che ci abbia ingannati, traditi, beffati, sin dall’inizio. Così la pensa Leopardi, e non sa darsene pace. Il suo «Inno ad Arimane» (rimasto incompiuto) è una estrema protesta contro la natura, che si tinge di manicheismo e di satanismo (cfr. il nostro precedente articolo: «Leopardi cantore di Arimane è il campione di un satanismo disperato, ma lucido e coerente», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 16/10/2008).
Il problema di Seneca è tutto qui: posta la saggezza del Logos divino e posta la bontà intrinseca della natura, non si capisce donde provenga il male. Qual è la finestra mal chiusa, da cui irrompe la bufera delle passioni, che portano ansia e infelicità nella vita umana? Per Leopardi, la cosa è più semplice: se tutto è male, l’infelicità della vita umana non può essere una possibilità, ma la regola universale, a cui nessuno sfugge: che sia ragionevole oppure no. Anzi, la ragionevolezza ci rende ancor più disperati, perché più lucidi nel riconoscere il male radicale di vivere e la sua ineluttabilità. Da qui si vede come gran parte della cultura moderna, fino a Montale, Sartre, eccetera, sia seguace del nichilismo leopardiano, più che del razionalismo senechiano. Seneca, infatti, ha fiducia nella ragione: essa è il ponte che l’uomo può gettare fra sé e la pienezza vitale; per Leopardi, la ragione serve solo a rafforzare la nostra disperazione (anche se poi, contraddittoriamente, l’apprezza).
Quel che manca ad entrambi è la vera umiltà: hanno la coscienza della fragilità umana, ma non vogliono trarne le logiche conseguenze: che l’uomo, rinchiudendosi nella sfera del finito, diventa il peggior nemico di se stesso; e che una sola cosa può redimerlo da infelicità e solitudine: l’amore…
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