
Gli interessi degli industriali inglesi dietro gli orrori della Guerra del Pacifico
28 Luglio 2015
Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano (seconda parte)
28 Luglio 2015Il declino della famiglia è stato preparato e quasi pianificato dai filosofi illuministi

Sarebbe difficile sottovalutare l’importanza dei filosofi illuministi rispetto all’orientamento della opinione pubblica in Europa verso la fine del XVIII secolo e, più ancora, sugli interventi legislativi degli organi costituzionali sorti sul modello dell’Assemblea costituente francese, poi della Convenzione nazionale; interventi legislativi quali, a loro volta, hanno esercitato una notevole influenza sul modo di sentire e di pensare di milioni di persone.
La legge sul divorzio venne approvata in Francia sin dal 1792, dunque prima della "svolta" giacobina, quando al potere c’erano i Girondini e la Rivoluzione francese era ancora saldamente nelle mani della borghesia liberale, massonica e "illuminata". Fu quello il cuneo che incrinò l’assetto giuridico della famiglia nei Paesi cattolici; in quelli protestanti, l’istituto del divorzio era già collaudato e ben sviluppato da parecchio tempo. La legislazione divorzista, ripresa da Napoleone e introdotta nel suo codice, pur con qualche limitazione, venne abrogata con la Restaurazione e reintrodotta definitivamente nel 1884, sotto la Terza Repubblica: laica, massonica e anticlericale. E, di nuovo, essa fu il modello e il centro propulsore di una serie di legislazioni analoghe negli altri Paesi d’Europa: per la seconda volta, e ora definitivamente, l’esempio francese fece scuola nel mondo intero.
Il terreno per l’introduzione del divorzio era stato preparato, come abbiamo detto, dall’opera dei filosofi, a cominciare da Rousseau (1712-1778), che, in tema di diritto di famiglia, si esprime nel senso di una forma di utilitarismo morale: se la famiglia è una società che nasce dalla volontà di procreare, allora una tale società può essere rotta quando lo scopo sia stato raggiunto e i figli siano diventati adulti e autonomi. Inutile dire che Rousseau se ne intendeva, dato che piazzava i suoi figli all’orfanotrofio, nello stesso tempo in cui veniva applaudito per un classico della pedagogia illuminista come l’«Emilio».
Anche i filosofi inglesi della seconda metà del XVIII secolo si sono segnalati nella loro opera di orientamento dell’opinione pubblica in senso divorzista, specialmente gli utilitaristi; fra essi, un posto importante spetta a Jeremy Bentham (1748-1832), del quale ci siamo già occupati a proposito di un altro aspetto del suo pensiero (cfr. il nostro precedente articolo: «Nel "Panopticon" di Jeremy Bentham il volto poliziesco e totalitario dell’utilitarismo», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 17/07/2013). Bentham, sia detto per inciso, dispiegò notevoli energie per diffondere l’idea che la persona ha diritto al massimo della libertà, anche in senso economico, che sia compatibile con l’esistenza della società; che stato e chiesa devono essere nettamente separati; e, inoltre, per il riconoscimento della parità giuridica fra uomo e donna; per la protezione degli animali; per la fine della schiavitù; per l’abolizione delle pene corporali; per il libero commercio; per la libertà di praticare l’usura; per la depenalizzazione del reato di sodomia; per la creazione di un nuovo sistema carcerario, basato sul controllo indiretto e sulla pressione morale da esercitare nei confronti dei detenuti, in modo da far sì che essi si sentano costantemente sotto l’occhio vigile dei guardiani e da non potersi illudere che il più piccolo gesto possa rimanere celato.
Quella a favore del divorzio, tuttavia, resta una delle sue "battaglie civili" più importanti, più abili ed efficaci da lui condotte. Essa è stata molto ben sintetizzata da Giovanni Oriani nel suo saggio «Matrimonio civile e divorzio dalla Riforma a Napoleone» (in: AA. VV., «Matrimonio e famiglia oggi in Italia», Torino, Borla Editore, 1969, pp. 153-154):
«Bentham, portavoce dell’utilitarismo, molto conosciuto e apprezzato in Francia, scrive sull’argomento [del divorzio] nel suo "Traité de Législation Civile ed Pénale", pubblicato in francese nel 1802. […]
Scrive dunque il Bentham che "il corso naturale della unione coniugale è la durata della vita", che esso è "il più confacente ai bisogni, alle necessità delle famiglie, il più favorevole agli individui per la generalità della specie. Se non ci fossero le leggi per ordinarlo — prosegue l’autore — cioè altre leggi oltre a quelle che sanzionano i contratti, questa sistemazione sarebbe la più comune, perché la più conveniente agli interessi reciproci degli sposi".
Fin qui, tutto va bene: siamo alla presenza di un bel panegirico sul matrimonio e l’indissolubilità. A questo punto però Bentham è fulminato dal pensiero di un possibile errore, di una incomprensione di carattere: ecco che, in un istante, il quadretto idilliaco si muta in un girone infernale.
L’autore, in un brano pieno di forza, ci descrive la situazione: "Cosa si penserebbe se la donna apponesse questa clausola al contratto matrimoniale: "Non potrò mai essere abbandonata da te, dovessimo giungere ad odiarci tanto quanto ci amiamo ora?"
Una simile condizione sembrerebbe un’assurdità: ha in sé qualche cosa di contraddittorio e di assurdo che colpisce a prima vista: tutti sarebbero d’accordo nel considerare un simile voto come temerario e a pensare che l’umanità deve farlo abolire.
Ma — continua il Bentham — questa clausola assurda e crudele non è la donna che la domanda, non è l’uomo che la invoca, è la legge che la impone ai due sposi come una condizione alla quale essi non possono sfuggire.
La legge sopraggiunge in mezzo ai contraenti: li sorprende nel trasporto della giovinezza, in quei momenti che aprono tutte le prospettive di felicità e dice loro. "Voi vi unite nella speranza di essere felici, ma io vi dichiaro che voi entrate in una prigione la cui porta è murata dietro di voi: io sarò insensibile alle vostre grida di dolore e per quanto battiate coi vostri ferri non permetterò mai che vi si liberi!
Credere alla perfezione della persona amata, credere all’eternità della passione che si prova e che si fa provare, ecco delle illusioni che si possono perdonare a dei ragazzi nell’accecamento dell’amore.
Ma dei vecchi giureconsulti, dei legislatori imbianchiti dagli anni non cadono in questo inganno. Se avessero creduto a questa eternità di passioni perché mai proibire un potere che nessuno vorrebbe mai usare?
Ma no: essi hanno preveduto l’incostanza, hanno preveduto gli odi, hanno preveduto che al più violento amore potrebbe succedere la più violenta antipatia ed è con tutto il sangue freddo dell’indifferenza che essi hanno pronunciata l’eternità di quella promessa anche qualora il sentimento che l’ha dettata fosse vinto dal sentimento opposto.
Se — continua Bentham trattando il matrimonio come un contratto di diritto comune — cui fosse una legge che permettesse di prendere un socio, un tutore, un intendente, un amico solo a condizione di non separarsene mai, tutti direbbero: "Che tirannia, che sciocchezza!"
Uno sposo è nello stesso tempo amico, tutore, intendente, socio e ancora di più, e tuttavia non si possono avere, nella maggior parte dei paesi civili, che degli sposi eterni.
Vivere sotto l’autorità perpetua di un uomo che si detesta è già una schiavitù. Essere costretta a ricevere i suoi abbracci è una disgrazia troppo grande da tollerare perfino in regime di schiavitù. Si ha un bel dire che il giogo è reciproco: la reciprocità non fa che raddoppiare la disgrazia. Se il matrimonio presenta agli uomini comuni il solo mezzo per soddisfare pienamente e piacevolmente questo desiderio imperioso d’amore, il distoglierli da quello è fare un male proporzionalmente grave. Ora, quale più terribile deterrente dell’indissolubilità di questo impegno? Matrimonio, servizio, Stato, paese qualsiasi: la proibizione di uscirne equivale a proibizione di entrarci."
Così, dalla critica indiretta di Montesquieu, che parla per bocca del persiano Usbek [nelle «Lettere persiane», 1721] si giunge, passando attraverso le calde e vivaci invettive di Voltaire, alla critica diretta e decisa di Bentham.
Il loro discorso, limpido e di forma piacevole, conquista l’ambiente aristocratico e borghese che darà alla Francia rivoluzionaria i nuovi legislatori.»
E bravo il nostro Bentham: si vede che, nel caso della famiglia, e solo in quello, egli non era disposto a vedere l’intervento di alcuna "mano invisibile", così come il suo maestro e ispiratore Adam Smith aveva immaginato per l’insieme della vita sociale, con particolare riguardo alla libera iniziativa nel campo dell’economia. I due sposi sono soli, assolutamente soli, l’uno di fronte all’altra: due atomi del cui "diritto" alla felicità, evidentemente, deve occuparsi lo Stato: strano, proprio quello Stato che gli utilitaristi e i liberisti, come Bentham, vedono poco meno che come il fumo negli occhi, come una specie di Cerbero sempre pronto a immischiarsi in cose che non lo riguardano, e dalle cui lunghe mani i cittadini devono guardarsi quanto più possibile; salvo invocarlo ogni qualvolta sono alle prese con difficoltà più grandi di loro. Perché a questo si riduce la funzione dello Stato, nella prospettiva di Bentham e dei filosofi del suo orientamento: a soccorrere i cittadini nelle loro difficoltà, e, per tutto il resto, a sparire o, almeno, a rendersi il più possibile invisibile. La funzione dello Stato, per Bentham, somiglia parecchio alla funzione che molti giovani d’oggi sembrano attribuire ai genitori: quella di un Bancomat a credito illimitato; ma, a parte questo, non riconoscono loro alcuna autorità e non sono disposti ad ammettere, nei loro confronti, il benché minimo dovere. E ora torniamo al discorso su matrimonio e divorzio.
Bentham — che ragiona con una rozzezza tale da far pensare che il titolo di "filosofo" gli si addica, rispetto ai filosofi classici come Platone o Aristotele, più o meno come il titolo di "medico" si addice a un qualsiasi ciarlatano o praticone di chi sa quale setta New Age — dapprima delinea un quadro assolutamente positivo dell’istituto matrimoniale e della sua "naturale" indissolubilità; poi, con un colpo di teatro, rovescia la prospettiva e traccia un quadro allucinante della vita che due sposi sono costretti a condurre insieme, una volta che l’amore venga meno e ad esso subentrino dei sentimenti di forte repulsione (e qui strizza l’occhio al nascente movimento femminista). Come dire: il principio sarebbe giusto; ma, in pratica, si vede bene che non funziona. Ahimè, un filosofo non può ragionare in tal modo: questo non è un ragionare, ma un procedere a sbalzi e saltelli, ora qua e ora là, secondo le suggestioni emotive e le cronache delle gazzette. Da un punto di vista filosofico, una cosa non può essere vera, buona e giusta in teoria, ma falsa, malvagia e insopportabile nella sfera pratica: o errava il primo giudizio, oppure erra il secondo.
Che cosa non funziona, nel ragionamento di Bentham? Il fatto che, prima, egli parla del matrimonio come dovrebbe essere; poi, come si vede che è. Per giustificare il capovolgimento di prospettiva, egli non esita a dipingere il legislatore come un vecchio sadico che, pur conoscendo l’incostanza dei sentimenti umani, si approfitta della leggerezza e dell’inesperienza di due giovani fidanzati, per costringerli a un connubio perenne, che potrebbe rivelarsi nefasto; di più: lo dipinge come un perfido angelo del male, che se ne sta in agguato come un ragno sulla tela, e gioca volutamente con l’ingenuità dei giovani, per condannarli a una vita di orribili supplizi. Basterebbe già questo per vedere che quello di Bentham non è un ragionamento, ma una favola morale alla rovescia: come lo sono, del resto, tutte le operette similari di Voltaire, Diderot e degli altri "philosophes", che seguono tutte indistintamente, nessuna esclusa, la tecnica che potremmo definire del terrorismo psicologico. Fra parentesi, è la stessa tecnica di cui si sono serviti i radicali italiani, a partire dagli anni ’70 del Novecento, per diffondere le loro opinioni divorziste, abortiste, omosessualiste e favorevoli all’eutanasia: prendere un caso particolarmente drammatico e sbatterlo sui media, con la maggiore enfasi possibile: sì da produrre un effetto emotivo talmente forte, da far passare una intera filosofia e, se possibile, una intera legislazione, in cui la difesa contro singoli abusi si capovolge in un "diritto" ad imporre alla società il volere di alcune minoranze.
Il fatto è che Bentham, da buon utilitarista, tratta il matrimonio come un qualsiasi affare civile, per esempio come un contratto di lavoro. Ma è semplicemente disonesto quando osserva che «lo sposo è nello stesso tempo amico, tutore, intendente, socio e ancora di più»: non precisa, infatti, che quell’«ancora di più» si differenzia dalle altre qualifiche in senso qualitativo, non quantitativo; ma come potrebbe ammetterlo, se già vede l’amicizia solo come un rapporto di mutua convenienza? Egli priva il matrimonio del suo slancio ideale; lo riduce a contratto civile; pone sopra esso, e contro di esso, la difesa dei "diritti" dei coniugi, paragonandolo alla peggiore schiavitù: e il gioco è fatto…
Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio