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Il bisogno di sicurezza, per Michelstaedter, è la catena che tiene l’uomo schiavo della paura

L’uomo, per vivere, ha bisogno di sicurezza; ha bisogno di sentirsi al sicuro, tanto sul piano economico e materiale, quanto su quello morale e spirituale. Nulla egli teme quanto l’insicurezza, il destino incerto; nulla lo spaventa quanto la prospettiva di vedere inappagato quel bisogno di sentirsi protetto, di sentirsi difeso contro le incertezze della vita. Di ciò era fermamente convinto Carlo Michelstaedter: ed è partendo da tale convinzione che egli ha sviluppato il suo discorso sulla necessità di conquistare la vera libertà, che, per lui, paradossalmente, finisce per coincidere con la decisione della morte volontaria.

Il pensiero di questo giovanissimo scrittore e filosofo goriziano è terribile nella sua coerenza distruttiva e mostra fino a che punto di assurdità possa giungere la logica, quando l’uomo si crede una scheggia indipendente del cosmo e dimentica la sua connessione originaria con l’Assoluto. Sarebbe sbagliato e pericoloso, peraltro, fare del suicidio di Michelstaedter soltanto la necessaria e assurda conclusione d’un percorso speculativo "controcorrente"; perché in quel gesto c’è anche, senza ombra di dubbio, il peso di un clima familiare gravemente depressivo: suicida era stato il fratello maggiore, suicida la donna da lui amata; e la pistola con cui si uccise era stata il tragico "testimone" lasciatogli da un amico in partenza, un mezzo per emanciparsi da un vicolo cieco in cui s’era cacciato, rovesciando sulla madre la ferita immedicabile del senso di colpa, dato che il giovane si sparò dopo un litigio con lei. Da tempo Michelstaedter mangiava poco e niente, dormiva per terra, insomma sembrava volersi congedare dalla vita: ormai soltanto una sorella e un cugino potevano ancora parlare con lui.

Non vogliamo nemmeno, però, ridurre il suo gesto al livello d’un caso puramente biografico, venato di tinte patologiche: perché c’è una estrema coerenza, in esso, rispetto alle conclusioni cui egli era pervenuto nel suo personale cammino di ricerca filosofica. Il suicidio come legittima risposta al male di vivere: come negare che già Foscolo e Leopardi, per fare due nomi celebri, avevano "giocato" imprudentemente con questa idea, pur arrestandosi davanti alle estreme conseguenze: Foscolo, facendo morire il suo Ortis e consumando, così, un suicidio "per procura"; Leopardi, nel «Dialogo di Plotino e di Porfirio», mettendo avanti l’argomento, assai poco convincente, che non si devono aggravare le sofferenze altrui con la propria morte. E come negare che il clima complessivo della "belle époque" era tutto pervaso da un segreto desiderio di autodistruzione e di morte, come sarebbe apparso evidente nell’estate del 1914, con le folle di giovani inneggianti alla guerra nelle strade e nelle piazze delle maggiori capitali europee (scene che non si sarebbero viste affatto nel 1939, nemmeno nella Germania hitleriana)?

Scrive, dunque, Carlo Michelstaedter in «La persuasione e la rettorica» (da: «La sicurezza», cit. in A. Asor Rosa, ed A. Abruzzese, «Cultura e società del Novecento», Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 308-10):

«Questa sicurezza delle cose necessarie sta nella forza sufficiente per assicurarsi nel futuro l’affermazione delle proprie determinazioni di fronte a tutte le altre determinazioni (forze) estranee e nemiche: per vincere la materia (il tempo e la varietà delle cose [spazio]) colla propria forma.

In questa materia sono compresi anche i miei simili — che si distinguono dal resti della materia in ciò che si determinano nello stesso modo come io mi determino, che per continuare cioè impongono al resto della materia la stessa forma che io le impongo.

Così la sicurezza (la "cosa", come dicono i giuristi) significa:

1) violenza sulla natura: lavoro;

2) violenza verso l’uomo: proprietà.

1) Io ho lavorato il campo, ho approfittato a mio vantaggio del sole, della pioggia, dell’aria, della terra; ho ucciso gli animali nocivi, ho addomesticato quelli che mi potevano servire. Ho colto il frutto della terra violentando la pianta; ho costrutto un tetto a difesa delle intemperie e della fiere, vincendo lo spazio e l’inerzia e la durezza del sasso; mi sono fatto le vesti, le armi, gli utensili; ho cacciato nel bosco la selvaggina, ho tagliato la legna per cucinarla sul mio focolare e mangiar questa e il frutto del campo a mia maggior gloria.

Finché ci siano l’aria, la terra, il sole e l’acqua, e sulla terra campi e boschi, ed in questi vegetazione e animali, la potenzialità del lavoro in me e i cumuli di lavoro passato (le cose elaborate) in mio possesso mi sono sufficiente sicurezza pel mio futuro. Ma ecco ora il maggior pericolo di fronte al quale io non ho alcuna previsione, ecco una potenzialità di lavoro identica alla mia che vuol determinarsi nello stesso punto dello spazio e del tempo, e toglie a me tutto il futuro: ecco l’uomo, il mio simile.

2) Sul campo, ancora fumante si rinnova la lotta. — I due uomini si contendono la sicurezza di poter violentar la natura e di usar dei cumuli di lavoro passato: in breve i due simili non sono più simili, ma l’uno ha il diritto del lavoro (o proprietà immobile) e il diritto sui cumuli di lavoro (o proprietà mobile), ha affermati di fronte all’altro la propria individualità; l’altro ha il futuro troncato, è alla mercé del vincitore in ciò che egli vuol vivere ancora e non può giovarsi della propria potenza di lavoro. L’altro allora gli dà il mezzo di vivere purché egli lavori per lui. Così l’uomo ha subordinato il suo simile alla propria sicurezza: ha esteso la sua violenza anche sul suo simile, perché questi cooperi a fornirgli quanto gli giova. E questo, lo schiavo, è materia dio fronte al padrone, egli è una "cosa".

Ma egli è "cosa" in altro modo da come sia "cosa" un albero che il padrone sradica per usar tutto il legno; egli è "cosa" come l’albero che il padrone innesta e pota per ricavarne le fritta, e come quello ch’egli priva periodicamente dei rami per aver legna da ardere. Lo schiavo serve al padrone vivo anche perché muoia per lui — ma non morto.

Così la sua schiavitù non è assoluta ma relativa al suo bisogno di vivere. La mano dello schiavo non è condotta con la forza a girar la mola del mulino; ma esso lo fa perché il corpo abbia poi da mangiare, e non sia con la frusta o coi supplizi impedito di farlo temporaneamente o per sempre. A ognuno dei mezzi coercitivi o alla minaccia dei mezzi coercitivi inerisce la vittoriosa violenza padronale, la persuasività assoluta riguardo alla volontà di vivere dello schiavo.

Lo schiavo che non ha più bisogno del futuro è libero, perché non offre più presa alla persuasione della violenza padronale. Finché l’acqua ha peso, cioè volontà d’andar al centro della terra, può esser costretta a far andar i mulini e le fabbriche rannicchiate alle sponde: essa deve seguire tutte le vie preparate dall’uomo e far girare tutte le sue ruote, se pur vuole scendere e non restar sospesa. Ma il giorno che l’acqua non abbia più bisogno del "più basso", all’uomo saranno vane le sue chiuse e i suoi canali e le sue ruote: e tutte le fabbriche e tutti i mulini resteranno fermi per sempre.

Il padrone si serve dello schiavo attraverso la di lui forma: attraverso la sua potenza di lavoro. E gli fa sentire che il suo diritto d’esistere coincide colla somma di doveri verso il padrone, che la sua sicurezza è condizionata al suo aderire ininterrotto ai bisogni del padrone.

Così nelle sue catene dure ma sicure lo schiavo s’acquista col violentamento della natura in pro’ del padrone, la sicurezza fra gli uomini; e con la sua violenza sul suo simile il padrone ricava da lui la sicurezza di fronte alla natura, ch’egli non lavorando non ha più in sé. — Uniti, sono entrambi sicuri; staccati, muoiono entrambi: ché l’uno ha il diritto ma non la potenza del lavoro, l’altro la potenza ma non il diritto.»

Naturalmente, i soliti critici marxisti si sono gettati sull’aspetto potenzialmente sinistrorso di questa filosofia: piace loro il fatto che Michelstaedter, dopo aver individuato nel lavoro e nella proprietà le origini d’una duplice violenza, contro la natura e contro l’uomo, passi a individuare proprio nella tecnica e nello sviluppo i cardini dell’ideologia dello sfruttamento sistematico. Così, appunto, fa Alberto Asor Rosa, da cui abbiamo scelto di riportare questo passaggio de «La persuasione e la rettorica»: incredibile la disinvoltura di codesti storici della letteratura di formazione marxista, instancabilmente impegnati ad arruolare nelle loro file, volenti o nolenti, il maggior numero possibile di scrittori del passato, sulla base di singoli brani o di singoli aspetti, staccati dal tutto, nonché a dispetto del buon senso, dell’evidenza e, in non pochi casi, della decenza intellettuale.

Molto più significativo a noi sembra, nel pensiero di Michaelstadter, rispetto alla valenza "socialista" (che, del resto, è stata senz’altro una componente della sua formazione filosofica: si veda anche il caso di Italo Svevo, l’altro grande intellettuale italiano proveniente dall’estremo lembo dell’Impero asburgico), l’elemento schopenhaueriano. Per il Nostro, la catena che tiene l’umanità in stato di schiavitù è originata dal bisogno compulsivo di sicurezza; bisogno di sicurezza che si concretizza, appunto, nel duplice sfruttamento della natura e del lavoro altrui. A Michelstadter, più che rivoluzioni e palingenesi sociali, interessa la liberazione del singolo individuo, e non sul piano economico-sociale o su quello politico, ma sul piano interiore, spirituale. Nietzschiano e anche un po’ dannunziano — anche se antidannunziano, o meglio critico del D’Annunzio, a livello intenzionale — egli è un inguaribile individualista, forse l’ultimo dei romantici; forse, a suo modo, un poeta maledetto, un decadentista armato della propria orgogliosa solitudine e del proprio fiammeggiante nichilismo: quasi un Raskolnikov che ha deciso di rivolgere la propria dottrina superomistica alla sua stessa autodistruzione fisica, per conseguire, con Schopenhauer, la suprema liberazione dalle catene della schiavitù.

Se, per Schopenhauer, l’origine del male è la volontà, e precisamente la volontà di vivere, per cui lo scopo che l’uomo deve prefiggersi è quello di distruggere in se stesso la volontà di vivere, per Michelstaedter l’origine del male è la sicurezza, ossia il bisogno, la smania di sicurezza: sicurezza di che vivere, sicurezza del proprio futuro; e dunque non vi è altra via d’uscita, dall’inferno di una vita dominata dalla lotta incessante degli egoismi contrapposti, che quella d’infrangere, alla radice, il bisogno di sicurezza, saltando a pie’ pari nella suprema insicurezza della morte. L’uomo che non teme di morire, infatti, è libero, libero una volta per tutte: non teme più il futuro, dunque nulla è in grado di spaventarlo, di turbarlo, di agitarlo. Ha capito che il "diritto d’esistere" crea in lui un giro vizioso di timore del futuro e di volontà di esorcizzare quel timore, facendone ricadere tutto il peso su altri: sulla natura e sui propri simili. Ma se l’uomo si libera di quel frutto avvelenato, se rifiuta quell’inutile e pernicioso "diritto," per affermare, in un gesto supremo di libertà, la sua indifferenza verso il futuro e il suo disprezzo per la morte, allora non esisteranno più ceppi o catene capaci di tenerlo in schiavitù: egli è perfettamente libero, come lo è lo schiavo o il gladiatore i quali, secondo la dottrina stoica, rifiutano di prestarsi ulteriormente alle aspettative del padrone e del pubblico, e recidono da se stessi quel nodo che li tiene attaccati, insieme alla loro vita, al potere di ricatto e di dominio del padrone.

Michelstaedter, dunque, individua nella paura della morte la fine del grande ricatto, la ragione per cui la partita della vita si gioca con delle carte truccate, ed il suo esito è sempre la sconfitta: gli uomini hanno paura del futuro, hanno paura dell’insicurezza, hanno paura dell’ignoto, rappresentato dalla morte: non dalla morte in sé, ma dal fattore d’incertezza, d’imprevedibilità, di suprema irrazionalità che essa costituisce. E poiché è per loro intollerabile convivere con una simile incertezza, preferiscono un male presente e senza posa — la soggezione volontaria alla propria schiavitù — ad un bene certo, ma circondato d’incertezza, che il futuro offre loro in qualsiasi momento essi lo vogliano cogliere: la liberazione della morte.

Ci vuole un bel coraggio per fare di una simile filosofia una parente, anche lontana, del marxismo, e, in genere, di qualunque ideologia rivoluzionaria: essa ne è, semmai, la perfetta e totale negazione. Non vi è alcun dubbio che Michelstaedter, acuto com’era, avrebbe riso della fede rivoluzionaria in un mondo migliore, da realizzarsi mediante l’insurrezione politica e la palingenesi sociale: se l’uomo non è capace di liberarsi dalle proprie catene interiori, originate dalla paura dell’insicurezza, non sarà mai capace di instaurare un siffatto mondo migliore. Migliore, rispetto a che cosa? La paura dell’insicurezza tornerà immediatamente a manifestarsi, magari a livello di classe, anziché a livello d’individuo: e saranno i campi di concentramento, gli stermini di massa, sempre giustificati con il nobile fine superiore della "giustizia". Ma una giustizia che non tiene conto del bisogno istintivo dell’uomo di proteggersi dal futuro, assoggettando la natura e i suoi simili, non sarà altro che il paravento per nuove forme di assoggettamento, originate dalla medesima radice. Ci vuole tutta la rozzezza, ci vuole tutto il fanatismo dei signori critici marxisti, per non vedere una verità così chiara, così lapalissiana.

A questo punto ci si può domandare, semmai, per quale ragione un pensatore così acuto come Michelstaedter non abbia visto che le sue conclusioni sono coerenti rispetto alle premesse, ma solo a patto di operare una semplificazione del dato di partenza: vale a dire che l’uomo, pur dominato dal bisogno compulsivo di sicurezza (che potremmo, cristianamente, assimilare al peccato originale), non abbia minimamente preso in considerazione la possibilità ch’egli ne esca non con le proprie forze, a ciò chiaramente insufficienti, ma con un aiuto spirituale proveniente da fuori di lui e dal di sopra di lui. Come mai, in altri termini, abbia scartato a priori la "soluzione" religiosa del suo terribile dilemma, senza neanche prendersi la briga di esaminarla ed, eventualmente, di confutarla. Egli, a quanto sembra, dava per scontato che Dio è morto; ma un filosofo non deve dare per scontato nulla, anche se altri filosofi che vanno per la maggiore, come Nietzsche in quel momento, affermano di aver risolto per sempre quel determinato problema.

È qui che si vede la grandezza autentica di un pensatore: egli è capace di andarsene dritto per la sua strada, assolutamente incurante di quel che la cultura del suo tempo crede o non crede di avere dimostrato una volta per tutte. Perché la sua strada è la strada dell’eternità, non quella del divenire — o, almeno, egli tenta di mettersi sulla strada di ciò che è assoluto, eterno, di ciò che è giusto e vero e buono e bello in se stesso, e non in virtù del fatto che questa o quella tendenza storica li giudicano tali. Il vero pensatore non va a rimorchio di nessuno; il dialogo ideale che egli instaura con altri pensatori è occasionale, quello invece che instaura con l’Essere è l’unico realmente necessario, permanente, insostituibile.

Michelstaedter si è fidato troppo del giudizio di pensatori che il suo tempo giudicava grandi e non ha avuto il coraggio intellettuale di avanzare da solo. Se lo avesse fatto, probabilmente si sarebbe reso conto che la libertà da lui affermata ne «La persuasione e la rettorica» – e poi, a livello personale, attraverso la decisione del suicidio – non è la risposta al dramma della insicurezza, della fragilità e dell’egoismo dell’uomo, ma una resa totale, oltre che un paradosso logico. Perché se l’uomo ha paura di vivere senza la "sicurezza" che lo rende schiavo, non si libera da tale paura suicidandosi, ma affrontandola.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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