
Ma un prete deve predicare il Vangelo della vita, non il vangelo della morte
28 Luglio 2015
Regola numero uno: imparare l’umiltà, ovvero ridimensionare l’ipertrofia dell’ego
28 Luglio 2015Qualcuno, dopo aver letto «Alla ricerca del tempo perduto», questa monumentale enciclopedia della disperazione dell’uomo moderno, della sua atroce solitudine, dei suoi amari e sterili rimpianti, potrebbe pur sempre pensare che si tratti di un grande inno all’amore: all’amore deluso, all’amore tradito, all’amore sconciato da innumerevoli ferite; ma pur sempre all’amore. E così, di fatto, essa è stata presentata da quasi tutta la critica, e letta dalla maggior parte del pubblico: amore per l’infanzia; amore per i ricordi; amore per le persone care; amore per il tempo che fugge, per la bellezza che svanisce, per la sete di vivere, che mai si estingue, nonostante le peggiori delusioni e gl’incomprensibili ostacoli…
Ma che ne sa, dell’amore, l’Io narrante, Marcel, tutto immerso nella voluttà dei suoi ricordi; che ne sanno, dell’amore, i numerosissimi personaggi, uomini e donne, tutti assorbiti dalle loro cieche passioni; che ne sa l’autore, Marcel Proust, questo entomologo finissimo, implacabile, dell’anima umana, cui tuttavia è sfuggita, sistematicamente, ostinatamente, inesorabilmente, la cosa essenziale: che non si dà amore, senza accettazione della sofferenza e del sacrificio; e che, anzi, senza tale accettazione, non si dà neppure la conoscenza dell’altro, destinato a rimanere, per noi, fatalmente estraneo e incomprensibile?
Che il Narratore/Proust, in realtà, non abbia la minima consapevolezza di che cosa sia l’amore, lo si vede in filigrana, pagina dopo pagina, attraverso il flusso torrenziale, narcisistico, solipsistico, ossessionante, dei ricordi: dai quali mai traluce un barlume di calore umano, di autentica simpatia, di capacità di aprirsi e di ascoltare, per non dire di porre e di valorizzare, la realtà effettiva dell’altro: l’altro che, invece, è visto sempre come un oggetto del proprio desiderio, come uno strumento del proprio piacere, come un giocattolo del proprio ego insaziabile.
Nemmeno i morti, nemmeno il ricordo dei morti, e non dei morti qualsiasi, ma delle persone defunte che sono state amate (o, per essere più esatti, che sono state concupite, possedute, strumentalizzate) sfuggono a questa logica di brutale egoismo, di sfruttamento amorale; nemmeno i morti sfuggono al pungiglione della gelosia postuma del Narratore, autentico vampiro psichico. Come appare evidente nel caso di Albertine.
Una pagina, fra le tante, de «La fuggitiva», servirà a illustrare quanto andiamo dicendo (da: M. Proust, «Alla ricerca del tempo perduto. La fuggitiva» (traduzione dal francese di Franco Fortini, Torino, Einaudi, 1954, 1978, vol. VI, pp. 115-20):
«Avevo sofferto molto, a Balbec, quando Albertine m’aveva parlato della sua amicizia per la signorina Vinteuil. Ma Albertine era là per consolarmi. Poi, quando ero riuscito a farla partire da casa mia per aver cercato di conoscer troppo le sue azioni, quando Françoise mi aveva annunciato che non c’era più e m’ero trovato solo, avevo sofferto ancor di più. Ma almeno mi rimaneva nel cuore l’Albertine che avevo amata. E ora, al posto di quella — per punirmi di aver spinto troppo oltre una curiosità cui la morte non aveva posto fine, contrariamente a quel che avevo supposto — trovavo una ragazza diversa, che moltiplicava le bugie e gl’inganni là dove l’altra m’aveva rassicurato con tanta dolcezza, giurandomi che mai non aveva conosciuto quei piaceri; quei piaceri che nell’ebbrezza della sua riconquistata libertà s’era slanciata a godere fino all’estenuazione, fino a mordere quella piccola lavandaia, sulle rive della Loira, e a dirle: "Mi fai morire". Un’Albertine diversa, non soltanto nel senso che diamo alla parola "diverso" quando si tratta degli altri. […] Un tempo, quando venivo a sapere che a una donna piacevano le donne, non per questo essa mi pareva una donna diversa, d’una particolare essenza. Ma, se si tratta della donna amata, per sbarazzarsi del dolore provato all’idea che ciò può esser vero, si cerca di sapere non solo quel che ha fatto, ma quel che provava facendolo e che idea avesse di quel che faceva; e allora, discendendo sempre oltre nella profondità del mistero, si raggiunge il mistero, l’essenza. […]
Quelle tendenze ch’essa aveva negate, quelle tendenze la cui scoperta m’era giunta non in un freddo ragionamento ma nella sofferenza bruciante provata alla lettura di quelle parole, "Mi fai morire", sofferenza che conferiva loro una particolarità qualitativa; quelle tendenze e non si aggiungevano all’immagine di Albertine come si aggiunge al bernardo l’eremita la nuova conchiglia ch’esso si porta dietro, ma piuttosto come un sale che, entrando in contatto con un sale diverso ne muta il colore: e anzi, per una sorta di precipitato, la natura. Quando la piccola lavandaia aveva potuto dire alle sue amichette: "Pensate un po’, non l’avrei mai creduto, la signorina è anche lei una di quelle", non si trattava di un vizio che esse dapprima non sospettavano e che aggiungevano alla persona di Albertine; bensì la scoperta che lei era un’altra persona, una persona come loro, che parlava la medesima lingua; cosa che, facendola compatriota di altre, me la rendeva ancora più straniera, provando che quanto da lei avevo avuto, quanto portavo in cuore, era soltanto una ben piccola parte; e che il resto (tanto dilatato dal fatto di non essere solo quella cosa così misteriosamente importante che è un desiderio individuale, ma di averlo in comune cin altri) lei me lo aveva sempre tenuto nascosto, me ne aveva tenuto lontano, come una donna che m’avesse nascosto d’essere in paese straniero e spia e, anzi, avesse tradito anche più di quanto faccia una spia: perché una spia inganna solo sulla propria nazionalità, mentre Albertine ingannava sulla propria umanità più profonda, , su quella parte di lei che non apparteneva all’umanità comune, bensì a una razza straniera che si mescola con quella, vi si nasconde e non vi si fonde mai. […]
Di tanto in tanto in tanto, la comunicazione era interrotta fra il mio cuore e la mia memoria. Quel che Albertine aveva fatto con la lavandaia m’era significato ormai solo mediante abbreviazioni algebriche, che non rappresentavano nulla; ma cento volte l’ora la corrente interrotta veniva ristabilita e il mio cuore era allora arso spietatamente da un fuoco infernale, mentre vedevo Albertine, risuscitata dalla mia gelosia, veramente viva, tendersi sotto le carezze della piccola lavandaia e dirle: "Mi fai morire". Poiché per me era viva nel momento del suo peccato, ossia nel momento in cui mi trovavo io stesso, non mi bastava, quella colpa, conoscerla; avrei anche voluto sapesse che la conoscevo. Così, se in quei momenti rimpiangevo di pensare che non l’avrei veduta mai più, quel rimpianto portava i segni della mia gelosia, e, diversissimo dal rimpianto straziante di quando l’amavo, era soli il rimpianto di non poterle dire: "Tu credevi che non avrei mai saputo che cosa hai fatto quando mi hai lasciato: ebbene, so tutto: la lavandaia sulle rive della Loira; le dicevi: Mi fai morire; ho visto il segno del morso". Certo, mi dicevo: "Perché tormentarmi? La donna che ha goduto con la lavandaia non esiste più, dunque non è una persona le cui azioni abbiano ancora valore. Non dice a se stessa che io so. Ma non si dice nemmeno che non so; perché non si dice più nulla". Ma quel ragionamento mi persuadeva meno dello spettacolo del suo piacere, che mi riconduceva invece al momento in cui lo aveva provato. Solo quel che noi sperimentiamo esiste per noi e noi lo proiettiamo nel passato, nell’avvenire, senza lasciarci fermare dalle fittizie barriere della morte. Se in quei momenti il mio rimpianto per la sua morte subiva l’influenza della mia gelosia e prendeva quella forma così strana, quell’influenza si estese naturalmente ai miei sogni di occultismo, di immortalità: che erano solo uno sforzo per cercare di attuare il mio desiderio. Così, in quei momenti, se fossi riuscito a evocarla facendo muovere un tavolino a tre gambe, come una volta Bergotte credeva possibile, o ad incontrarla nell’altra vita come pensava l’abate X, l’avrei voluto solo per dirle: "So della lavandaia. Le dicevi: Mi fai morire!; ho visto il segno del morso".»
Da buon figlio del Positivismo e del Sensismo, dunque, Proust non ammette altra forma di esistenza che quella della nostra coscienza attuale, la quale, a sua volta, lo proietta nel passato o nell’avvenire, secondo i moti delle sue passioni, ad esempio della gelosia, e sia pure della gelosia retroattiva — diretta, cioè, verso un amore che è finito, e verso una persona che ormai è morta. Una forma di cupo e ossessionante solipsismo; una realtà formata da infiniti specchi, che rimandano sempre l’immagine dell’ego e dei suoi ciechi desideri; un sensismo e un empirismo radicali, come per il vescovo Berkeley, ma senza il postulato fondamentale del filosofo inglese: l’esistenza di tutte le cose nella mente di Dio, cui sono sempre attuali e presenti.
Per Proust, la morte è una barriera definitiva; i morti, semplicemente, "più non esistono", giacché non esistono ormai i loro corpi fisici (una frase quasi identica si trova in Svevo, là dove, ne «La coscienza di Zeno», il protagonista accenna al fatto che sua madre è morta da tanti anni e il corpo di lei non esiste più); e tuttavia, in quell’inferno che è la vita dominata dalle cieche passioni e dalle brame indomabili dell’ego — è lui stesso a definire così la vita del Narratore, dopo la fuga e il decesso improvviso di Albertine — perfino la barriera della morte s’infrange, non per dare luogo al soffio vivificante dei nostri cari divenuti creature puramente spirituali, ma per attanagliarci con le pinze roventi della gelosia, per straziare la nostra anima con il fuoco infernale di una gelosia che non arretra davanti a nulla, neanche davanti all’irreversibilità della morte, e che ancora vorrebbe inseguire colei (o colui) che è morto, per potergli rinfacciare le sue colpe, le sue menzogne, i suoi piaceri segreti e inconfessabili . In questo caso, si tratta degli amori omosessuali di Albertine, dei quali il Narratore è venuto a conoscenza, con assoluta certezza, ma solo dopo aver saputo della mortale caduta da cavallo di lei, mediante la lettera di un investigatore privato, sguinzagliato sulle tracce della fuggitiva.
Questo non è nemmeno l’Inferno; è perfino peggio dell’Inferno: è un abisso ardente, perenne, di disperazione e concupiscenza frustrata, che nemmeno i lacci della morte riescono a esorcizzare; una spina nel cuore, che neppure la consapevolezza che quella persona non esiste più, che è ridotta a nulla, che non ha ormai né coscienza, né memoria, né, meno ancora, possibilità alcuna di provare vergogna, o rimorso, o imbarazzo, è in grado di strappare: tanto forte è la brama di richiamarla alla vita anche solo per un istante, e, come un Orfeo impazzito e stralunato, poter gridare alla povera Euridice, fosse pure al suo spettro esangue e cadaverico: «So tutto, mia cara; credevi d’avermi ingannato: conosco il tuo vizio, conosco il tuo peccato, le tue azioni vergognose; so che fremevi e ti contorcevi sotto le carezze della piccola lavandaia, in riva al fiume, e che, nell’estasi e nel furore dell’orgasmo, mordevi le sue carni, e intanto le gridavi: «Ah, tu mi fai morire!» (ma l’originale francese adopera una espressione più caratteristica: «Ah, tu me mets aux anges!»; e dunque: «Mi mandi in visibilio; mi fai impazzire!»).
Proust va avanti per pagine e pagine — e non solo in questo caso, ma in tutta la «Recherche» (e ciò ne spiega l’andamento fluviale, le dimensioni impressionanti) — ad analizzare minutamente, morbosamente; a sviscerare, a scandagliare, spingendosi, lui dice a un certo punto, fino al cuore del mistero. Ma è proprio vero ch’egli giunge al cuore del mistero che giace in fondo al cuore umano? È proprio vero che la sua straordinaria capacità d’introspezione, che le sue eccezionali attitudini di psicologo, gli permettono di spingersi oltre le apparenze delle cose, e di pervenire al cuore stesso del reale? Date le premesse filosofiche da lui stesso proclamate — la sua fede sensista e materialista — si tratta, evidentemente, di una contraddizione in termini, di una impossibilità logica. Del resto, quale mistero? Non è forse, per lui, tutto chiaro: vale a dire che non c’è mistero alcuno, perché noi siamo solo le nostre sensazioni, che proiettiamo talvolta verso il passato, talvolta verso il futuro, e che, all’infuori di quelle, nulla esiste e, ad ogni buon conto, nulla possiamo conoscere? Come può dire, allora, l’Io narrante della «Recherche», d’essersi spinto oltre il mistero, fino all’essenza delle cose, dove neppure Kant era arrivato, né aveva preteso di arrivare? E quale essenza, del resto? C’è forse una essenza delle cose, in un mondo fatto unicamente di fenomeni, di apparenze, di corpi destinati a dissolversi?
È significativo che Proust faccia similitudini con il paguro bernardo, con il precipitato salino, e che, alla fine, evochi il tavolino a tre gambe e le sedute spiritiche, allora tanto di moda nella buona società francese ed europea, fra aristocratici e ricchi borghesi tanto annoiati dalla vita, quanto spaventati dalla morte. La sua visione è tutta laica e immanente, tutta chiusa entro un orizzonte rigidamente materiale. La scienza offre il solo sapere veramente certo, anche se limitato (e tutta la sua opera non è che una trasposizione, nella psicologia, del metodo scientifico sperimentale: più Zola che Rimbaud, a ben guardare; più Naturalismo che Decadentismo, o meglio, un Decadentismo profondamente permeato di scientismo, razionalizzato, passato cento volte al setaccio di una logica implacabile, spietata, perfino sadica nell’accanirsi contro se stessa).
Se mai esistesse una maniera di far tornare Albertine fra i vivi, non potrebbe essere che quella degli spiritisti (Proust non si prende nemmeno la briga di considerare l’altra, quella religiosa: egli dà per scontato che Dio sia morto, o che non sia mai esistito); e vorrebbe evocarne lo spirito unicamente per poterla ferire, per gettarle sul viso il suo vizio di lesbica, le sue infinite bugie e i continui sotterfugi; insomma per strapparle crudelmente la maschera, per offenderla, per godere nel vederla impallidire, per vendicarsi con l’umiliarla e col gettarle in faccia la sua depravazione e il disprezzo che ormai ella gli ispira.
Povero Marcel: egli è sceso nell’ultimo girono dell’Inferno, quello che nemmeno la fantasia di Dante era riuscita a escogitare: là dove le atroci torture e le sevizie sadiche contro i dannati non sono messe in atto dai diavoli, ma dalle anime stesse, incrudelite contro se medesime, fino alla vertigine, fino al delirio.
Altro che amore.
«Alla ricerca del tempo perduto», non rischiarata mai da un raggio di luce, di redenzione, di pace, è, semmai, il monumento alla sterilità affettiva dell’uomo e della donna moderni: tutti chiusi e prigionieri della propria furia voluttuosa, tutti travolti dal cieco vortice di un edonismo sfrenato, convulso, quasi bestiale, per quanto infiocchettato dai nastri d’un intellettualismo fine a se stesso, che non trasmette calore all’anima, né serenità (e neppure serietà) all’esistenza. Sarà forse un caso che, poco alla volta, questi uomini e queste donne, anche i più insospettabili, si rivelino tutti, l’uno dopo l’altro, degli invertiti, che conducono una doppia vita, fatta di menzogne e doppi sensi, sempre dominata dal fuoco di passioni divoranti, compulsive, vergognose? Non è forse, la loro condizione di omosessuali impenitenti, il simbolo della sterilità dell’uomo e della donna moderni, incapaci ormai di comprendersi a vicenda, di cercarsi, di ascoltarsi?
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels