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28 Luglio 2015Emblematico è l’atteggiamento degli studiosi di orientamento psicanalitico rispetto alla figura e all’opera letteraria di uno dei più grandi scrittori inglesi di tutti i tempi, Jonathan Swift, universalmente noto come l’autore dei «Viaggi di Gulliver» (1726), che passano, del tutto a torto, per un’opera comica o, peggio, come un libro adatto a un pubblico di ragazzi.
Questo grande, infelice misantropo, ebbe una prima infanzia particolarmente tribolata: da ciò gli psicanalisti hanno dedotto che non poteva non covare, da adulto, una grave nevrosi, che si manifesta, nelle sue opere, attraverso l’impulso sadico-anale e in quella che è stata definita da alcuni critici come una vera e propria tendenza escrementizia. In effetti, il suo sconsolato pessimismo antropologico, celato dietro un ironico sorriso o, più spesso, un ghigno sardonico, non di rado prende le forme di una compiaciuta insistenza sulle funzioni fecali; e, come è noto, secondo la psicanalisi freudiana, la mania dell’ordine e della pulizia, il bisogno compulsivo di regolarità e di stabilità, la diffidenza nei confronti dell’altro sesso, se non la vera e propria misoginia, sono altrettanti inequivocabili segnali dell’abnorme stabilizzarsi della coscienza adulta nella fase anale, caratteristica dei primi anni di vita del bambino (per l’esattezza, dopo la fine della fase orale e prima dell’avvento della fase fallica).
Abbiamo già avuto occasione, in un precedente articolo, di soffermarci sull’alone di mistero, di incomprensibile ritrosia che domina e che, in ultima analisi, avvelena i rapporti di Swift con le donne della sua vita (cfr. «Swift, Stella, Vanessa: un triangolo d’amore che non riuscì mai a trovar la pace», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 19/04/2011), proprio perché, in quel mistero, se tale è realmente, crediamo doversi trovare la spiegazione ultima del sarcastico, spietato pessimismo swiftiano: senza per ciò ritenere che la lettura in chiave psicologica, ed eventualmente psicopatologica, di un determinato autore, risulti essenziale e indispensabile per la comprensione delle sue opere, sotto il profilo che interessa agli studiosi e agli amanti della poesia e della letteratura, vale a dire quello squisitamente estetico.
Nondimeno, siccome intorno al "caso Swift" si è fatto un gran discutere, specialmente nell’ambito della critica anglosassone, precisamente come se l’interpretazione psicoanalitica freudiana fosse un passaggio ineludibile per la comprensione dell’autore in quanto scrittore (e non in quanto soggetto nevrotico e, quindi, come caso clinico), vogliamo ora ritornare sull’argomento, al fine di mostrare quanto sbagliate e velleitarie siano le pretese della cultura psicoanalitica, specialmente della scuola freudiana, la quale vorrebbe stabilire una sorta di totalitarismo intellettuale, al di fuori del quale non è dato accostarsi in maniera appropriata ad alcuno scrittore, o pittore, o musicista, o a qualsiasi altro personaggio del mondo dell’arte o del pensiero.
I termini della disputa sono stati ben sintetizzati dallo studioso e saggista americano Norman O. Brown nel suo libro «La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia» (titolo originale: «Life against Death», Wesleyan University, 1959; traduzione dall’inglese di Silvia Besana Giacomoni, Milano, Adelphi, 1964, pp. 211-215):
«Gli psicoanalisti, come ci si può aspettare, per formulare la loro diagnosi, cercano l’origine della nevrosi di Swift nella sua prima infanzia. Se la teoria psicoanalitica della nevrosi è esatta, dobbiamo abbandonare il tentativo di Murry [J. M. Murry, "Jonathan Swift: a Critical Biography"] di isolare la visione escrementale facendone una tarda escrescenza; dobbiamo abbandonare anche la tesi (legata al tentativo di salvare una parte della rispettabilità di Swift) che, fino a che egli non ne fu respinto, il suo amore per Varina (Jane Waring) fosse "il sano amore naturale di un animo naturalmente appassionato e generoso" [Murry]. Dovremo tornare al più aspro giudizio letterario di Huxley, sul fatto che Swift È la visione escrementale, e sul suo più duro giudizio psicologico, per cui la sessualità swiftiana aveva fin dall’inizio delle anomalie strutturali. E i dati biografici, analizzati con gran cura da Greenacre, ne forniscono una conferma più che sufficiente. Swift perse il padre prima di nascere; fu rapito alla madre da una balia quando aveva un anno; fu restituito alla madre soltanto tre anni dopo, per essere abbandonato dopo un solo mese, proprio durante il periodo edipico, cruciale dal punto di vista psicoanalitico. Secondo i criteri psicoanalitici, una tale successione di traumi infantili deve provocare più che una predisposizione alla nevrosi per tutta la vita. Il caso potrebbe allora considerarsi chiuso. Gli esperti di psicoanalisi sono d’accordo con i critici nell’affermare che Swift era pazzo e che le sue opere andrebbero lette solo come documenti della storia di un caso clinico. Non solo la quarta parte del "Gulliver" e le ‘opere malsane’, ma tutto Swift. Se infatti gridiamo alla pazzia di fronte alle parti discutibili di Swift, dobbiamo onestamente affidare il caso agli psicoanalisti; ma, dopo un esame psicoanalitico, non rimane nulla di Swift che non sia discutibile. Non dobbiamo sottovalutare la capacità della psicoanalisi di scoprire il vero significato dei simboli. Ad esempio, un commento psicoanalitico su Gulliver, piccolo uomo su una piccola barca nell’isola di Brobdingnag, dice: "Il comune simbolismo dell’uomo nella barca, che rappresenta la clitoride, indica l’identificazione con il fallo femminile che è considerata tipica del travestito maschile". E così la psicoanalisi non lascia al nostro nemmeno un briciolo di integrità. "Swift mostrava dei marcati caratteri anali (estrema pulizia personale, discrezione, grande ambizione, compiacimento nelle scurrilità raffinate [leggi satira], cocciuta vendicatività nelle cause giuste) che indica chiaramente come avesse acquisito il controllo delle funzioni escrementali sotto grave pressione e forse troppo presto" (P. Greenacre). A questo punto l’uomo comune si ribella. SE la pulizia della persona, l’ambizione e la difesa delle giuste cause sono tratti nevritici, chi andrà assolto? Certamente nessun genio, se si permette a questo tipo di psicoanalisi di sfogarsi sui testi letterari. La nostra umanità ci fa ribellare contro Huxley, Murry e gli psicoanalisti. Con quale diritto stilano certificati di pazzia? Grazie alla loro straordinaria sanità mentale? Giudicati col metro della sanità e della veridicità, i "Viaggi di Gulliver" non usciranno male dal paragone con le opere di Murry e di Huxley. Soltanto Swift potrebbe far giustizia dell’ironia huxleyana che condanna Swift a causa delle sue distorsioni misantropiche in un volume di saggi impegnato a distruggere l’integrità non solo di Swift, ma anche di san Francesco e di Pascal [cfr. Huxley, "Do What you Will"]. Né si può dare per scontata la sanità mentale degli psicoanalisti e la la loro interpretazione del significato dell’uomo in barca. Solo Swift potrebbe fare giustizia dell’ironia degli psicoanalisti che vogliono condannarlo per la sua ossessionante attenzione ai fenomeni anali: proprio gli psicoanalisti, che sono notoriamente abilissimi nel trovare degli ani nei posti più impensati […] Nel manicomio del dottor Swift c’è una stanza per Huxley e Murry; le loro stramberie religiose sono prefigurate da Jack, il prototipo dell’entusiasta religioso nella "Storia di una botte". Anche a proposito di Huxley, come di Jack, accadde più tardi che "fu dato per certo che fosse del tutto uscito di senno. Poco tempo dopo egli si fece vedere e confermò le voci col cadere nelle più strambe fantasie che mai cervello malato abbia concepito" [da: Swift, "A Tale of a Tub"]. Swift ha preparati anche una stanza per gli psicoanalisti con il loro complesso anale non sono forse profeticamente annunciati in quei "certi chiromanti nell’America del Nord, che hanno un sistema per leggere il destino di un uomo, sbriciolandogli dentro le brache [idem]. La discussione finisce cos in una babele da manicomio che riempie l’aria di reciproche accuse di pazzia. Se resistiamo alla tentazione di tapparci le orecchie e scappar via, se conserviamo l’interesse psichiatrico e il distacco clinico, possiamo concludere solamente che le accuse sono tutte giustificate: sono tutti pazzi. E punto fondamentale della loro pazzia è proprio l’orgogliosa insistenza sul fatto che tutti sono pazzi, tutti tranne loro, Huxley, Murry e gli psicoanalisti. Possiamo salvarci dalla loro pazzia solo ammettendo che siamo tutti pazzi. La psicoanalisi merita le censure più severe perché avrebbe dovuto aiutare gli uomini a sviluppare questo tipo di consapevolezza e di umiltà. Freud vide nella psicoanalisi la terza grande ferita inflitta dalla scienza al narcisismo dell’uomo, paragonabile a quella di Newton e a quella di Darwin. Gli epigoni di Freud si sono orgogliosamente atteggiati a eletti, esenti dalla generale condanna. Ma […] il vero fine della psicoanalisi è la diagnosi della nevrosi universale dell’umanità, nevrosi della quale la psicoanalisi stessa costituisce un sintomo e uno stadio, come tutte le altre fasi della storia della civiltà umana. Se diamo questo diverso indirizzo alla psicoanalisi, vediamo che si può applicarla con un altro metodo a Swift, o a qualsiasi altro letterato. Non cercheremo più di liquidare le opere letterarie di Swift giudicandole semplici epifenomeni della sua nevrosi individuale. Cercheremo piuttosto di valutare la sua comprensione della nevrosi universale dell’umanità. In tal modo la psicoanalisi non sarà più un modo per liquidare Swift con delle definizioni, bensì il metodo che ce ne rende possibile la comprensione. Non ci turba il fatto che Swift sia stato soggetto a un tipo particolare della nevrosi universale dell’umanità, non ci sentiamo turbati neppure al pensiero che la sua nevrosi personale possa essere stata eccezionalmente acuta o che la sua anormalità fosse inscindibile dalla sua arte. L’intensa sofferenza può essere necessaria, seppure non sufficiente, alla produzione del genio; e la psicoanalisi non ha mai riflettuto a fondo sulla propria posizione verso la concezione tradizionale secondo cui vi è un’affinità tra genio e follia Forse c’è veramente quella "necessità di medici e infermieri, CHE SIANO ESSI STESSI MALATI" di cui ha parlato Nietzsche…»
Questo ci sembra un modo corretto e condivisibile di accostarsi a un determinato autore, sia esso Swift, o qualsiasi altro: non sono i fatti che devono, sempre e comunque, dimostrare la giustezza e l’infallibilità delle teorie, più o meno fecali, della psicanalisi freudiana; sono le teorie che devono inchinarsi ai fatti, e renderne conto. Tutt’al più, nel caso di Swift, possiamo assumere, come ipotesi di lavoro, che lo scrittore inglese abbia dato voce, nei suoi scritti carichi di amarezza e di disgusto nei confronti dell’uomo e della società, a un senso d’angoscia e ad una disperazione generalizzata, non semplicemente una propria nevrosi privata.
In altre parole: l’opera di Swift ci pone di fronte a una visione escrementizia della realtà, perché la realtà dell’uomo moderno e della società moderna è di natura escrementizia: o, quanto meno, perché Swift l’ha percepita come tale, l’ha ritenuta insopportabile, e ha fatto della sua vita e dei suoi scritti una crociata ininterrotta contro i suoi aspetti nauseabondi e ripugnanti. Atteggiamento assai notevole, se si pensa che Swift visse in un’epoca che corrisponde ad una rapida e spettacolare ascesa politica, economica e culturale della sua patria: in pratica, con le origini del suo "destino" imperiale sui mari e sui continenti di tutto il mondo.
Questo, peraltro, è il dono degli spiriti grandi: quello di saper vedere l’essenza delle cose, e non fermarsi all’apparenza. L’apparenza, per l’Inghilterra al principio del 1700, era quella del successo, del prestigio, del progresso: essa, a quell’epoca, rappresentava un "modello vincente" per tutta l’Europa e per il mondo intera, ammirato e invidiato da tutti, amici e nemici; e, quanto alla cultura, quale intellettuale inglese del XVII secolo non si sentiva fiero, già in partenza, non solo dei propri meriti personali, ancora tutti da dimostrare, ma del fatto, puro e semplice, d’essere membro di quella società, di quella nazione, di quella eletta schiera di artisti, poeti, filosofi e scienziati, e di esprimersi proprio in quella lingua — la lingua di Shakespeare, di Milton, di Alexander Pope?
Eppure, Swift non si ferma alle apparenze; e sa leggere nei cuori. Egli vede quanta aridità, quanto egoismo, quanta mostruosa cupidigia si nascondano dietro la vetrina scintillante del "modello di successo"; non si inorgoglisce per le vittorie, terrestri e navali, né per la creazione dell’impero, ma denuncia con inaudito sarcasmo il totale disinteresse delle autorità britanniche nei confronti della carestia irlandese, e, più in generale, la sua spietata politica di sfruttamento ai danni di quell’isola infelice e del suo popolo, reo, quest’ultimo, di voler resistere alla pulizia etnica inaugurata da Cromwell e proseguita, in forme meno esplicite, ma sostanzialmente non meno determinate, dai successivi governi inglesi.
Escrementizia, dunque, l’opera di Swift? Sì, certo: come escrementizie gli apparivano la società del suo tempo e il tipo antropologico della modernità: affarista, insensibile, reso folle dalla cupidigia…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels