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Come Guy de Maupassant vide le meraviglie della Cappella Palatina a Palermo

Al primo piano del Palazzo Reale di Palermo, oggi noto come Palazzo dei Normanni e dedicato a San Pietro Apostolo, sorge la Cappella Palatina, costruita nel 1132 per volontà di Ruggero II e consacrata nel 1140: un edificio a pianta basilicale, a tre navate, con colonne collegate da archi ogivali ed una cupola sovrastante le tre absidi.

La cupola, il transetto e le absidi, nonché le navate, sono interamente decorate, nella parte superiore, da stupendi mosaici in stile bizantino, fra i più importanti della Sicilia: raffigurano il Cristo Pantocratore (nel catino dell’abside), gli apostoli e una lunga serie di scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, a cominciare dalla creazione del mondo e dalle vicende della prima coppia di uomini, Adamo ed Eva.

Il giudizio più ammirato e commosso, più penetrante e sensibile, è quello tributato alla Cappella Palatina palermitana da Guy de Maupassant ne «La vie errante», pubblicata a Parigi nel 1890 e che qui riportiamo a testimonianza dell’amore e dell’intelligenza con cui uno scrittore transalpino ha saputo accostarsi a uno dei più fulgidi gioielli architettonici, scultorei e musivi del nostro pur ricchissimo patrimonio storico-artistico (riportato in: Giuseppe Schirò, «Cappella Palatina», Palermo, Edizioni Mistretta, 1992, p. 50):

«La Cappella Palatina, la più bella che esista al mondo, il più sorprendente gioiello religioso sognato dal pensiero umano ed eseguito da mani di artista è racchiusa nella pesante costruzione del Palazzo reale, antica fortezza costruita dai Normanni.

La Cappella non ha esterni. Si entra nel palazzo, dove si è colpiti dapprima dal’eleganza del cortile interno circondato da colonne. Una bella scalinata con pianerottoli ad angolo retto forma una prospettiva inattesa e di grande effetto. Di fronte al portone d’ingresso, un’altra porta che sfonda il muro del Palazzo e dà sulla campagna lontana, apre, all’improvviso, un orizzonte stretto e profondo; sembra proiettare la mente in paesi infiniti e in sogni illimitati, da quell’apertura centinata che colpisce l’occhio e lo trasporta irresistibilmente verso la cima azzurra della montagna intravista laggiù, lontana, lontanissima, al di sopra di un’immensa pianura di aranci.

Quando si penetra nella Cappella, si rimane inizialmente stupefatti come di fronte ad una cosa sorprendente di cui si subisce l’intensità prima di averla compresa. La bellezza colorata e calma, penetrante ed irresistibile della chiesetta che è il capolavoro più assoluto che mai si possa immaginare, lascia senza fiato dinnanzi a quei muri coperti di immensi mosaici a sfondo d’oro, soffusi di un chiarore dolce che illumina l’intero monumento di una luce tenue, la quale proietta subito la mente in paesaggi biblici e divini in cui si vedono, eretti in un cielo infuocato, tutti coloro che furono coinvolti nella vita dell’Uomo-Dio.

Quel che rende così violenta l’impressione prodotta dai monumenti siciliani è il fatto che, alla prima occhiata, colpisce di più l’arte della decorazione che non quella dell’architettura. L’armonia delle linee e delle proporzioni costituisce una mera cornice per l’armonia delle sfumature.

Quando si entra nelle nostre cattedrali gotiche, si prova una sensazione severa, quasi di tristezza. La loro grandezza è imponente; rimaniamo colpiti, ma non sedotti dalla loro maestosità. Qui, veniamo conquistati, commossi, da qualcosa, direi di sensuale, aggiunto dal colore alla bellezza delle forme.

Gli uomini che concepirono ed innalzarono queste chiese luminose, sebbene ombrose, avevano certamente un’idea del sentimento religioso completamente diversa da quella degli architetti delle cattedrali tedesche o francesi; ed il loro genio peculiare si preoccupò, prevalentemente, di far filtrare la luce in quelle navate, così meravigliosamente decorate, in modo che non la sentisse, che non la si vedesse, che essa vi scivolasse, sfiorando semplicemente i muri, suscitando effetti misteriosi ed attraenti, mentre la luminosità sembrasse provenire dalle stesse mura, dai grandi cieli d’oro affollati di apostoli.

La Cappella Palatina, costruita nel 1132 dal re Ruggero II, in stile gotico-normanno, è una piccola basilica a tre navate. È lunga soltanto 33 metri e larga 13; pertanto è un giocattolo, un gioiello di basilica.

Due linee di stupende colonne di marmo, tutte di colore diverso, conducono sotto la cupola, da dove vi guarda un Cristo colossale, circondato da angeli dalle ali spiegate. Il mosaico che costituisce il fondo della cappella laterale di sinistra è un quadro stupefacente. Rappresenta San Giovanni che predica nel deserto. Si direbbe un Puvis de Chavannes più colorito, più possente, più ingenuo, meno costruito, eseguito in tempi di fede vivida da un artista ispirato. L’apostolo parla ad alcune persone. Dietro di lui, il deserto, e proprio in fondo, alcune montagne azzurre, di quelle montagne dalle linee morbide e sfumate, in una nebbiolina, come le conoscono bene tutti quelli che hanno percorso l’Oriente. Al di sopra del santo, attorno a lui, dietro di lui, un cielo d’oro, un autentico cielo da miracoli, in cui Dio pare presente.

Tornando verso la porta di uscita, ci si ferma sotto il pulpito, semplice quadrato di marmo rossiccio, circondato da un fregio di marmo bianco intarsiato con sottili mosaici, e sostenuto da quattro colonne finemente lavorate. Ci si meraviglia di ciò che può produrre con così poca cosa il gusto, il gusto puro di un vero artista.

Tutto il mirabile effetto di simili chiese proviene, d’altronde, dalla mescolanza e dalla contrapposizione dei marmi e dei mosaici. Ed è questo il loro segno caratteristico. Tutta la parte inferiore dei muri, bianca ed ornata solamente con esili disegni, con sottili ricami di pietra, mette in possente rilievo, per via della decisa volontà di semplicità, la ricchezza colorata dei vasti soggetti che ricoprono la parte superiore.

In questi piccoli ricami, che corrono come merletti variegati sulla muraglia inferiore, si scoprono anche cose deliziose, grandi quanto il palmo della mano: così, ad esempio, due pavoni che, incrociando i becchi, portano una croce.

In diverse chiese di Palermo si ritrova lo stesso genere di decorazione. I mosaici della Martorana, anzi, sono probabilmente di una esecuzione più notevole di quelli della Cappella Palatina; ma non si può incontrare mai, in nessun momento, il meraviglioso insieme che rende unico questo capolavoro divino.»

Guy de Maupassant (nato a Tourville sur Arques, nell’Alta Normandia, il 5 agosto 1850 e morto a Parigi, il 6 luglio 1893, dopo un anno e mezzo di demenza quasi totale), è universalmente noto per i suoi racconti e per le sue novelle, oltre che per i sei romanzi, fra i quali spiccano, come due perle, «Una vita», del 1883, e «Bel Ami» (che il grande Lev Tolstoj definì «uno dei romanzi più veri e commoventi del nostro tempo»), del 1885 (gli altri quattro, cui se ne aggiungono due incompiuti, sono: «Mont Oriol», 1887; «Pierre e Jean», 1889; «Forte come la morte», 1889; e «Il nostro cuore», 1890), non è altrettanto noto — anzi, non lo è affatto — come appassionato di storia dell’arte e come Cicerone delle bellezze artistiche del nostro Paese.

Nella sua strana e complessa personalità, in cui s’intrecciavano fastidio per la società e bisogno di solitudine, ma anche capacità di amicizia e di profonda introspezione, vi era ampio spazio per il senso estetico; amico personale ed allievo ideale di Hippolyte Taine (indimenticabili le pagine da questi dedicate ai monumenti bizantini di Ravenna, e specialmente ai mosaici della Chiesa di San Vitale), come lui viaggiò e visitò l’Italia, spinto anche da un bisogno frenetico di allontanarsi dalla Francia e da se stesso. Il bisogno compulsivo di partire, di viaggiare, aveva a che fare con la sua inquietudine e con il terrore di finire come il fratello Hervé, ricoverato per pazzia: era un grande ipocondriaco che vide avverarsi i suoi peggiori presentimenti e le sue paure più profonde. Era anche uno dei maggiori scrittori naturalisti, eppure la sua concezione positivista non gli impedì di coltivare una vena malinconica e fantastica (suo è uno dei racconti del terrore più riusciti e impressionanti della letteratura mondiale: «L’Horla», che sarebbe stato poi ripreso dallo scrittore statunitense Ambrose Bierce — e, indirettamente, da H. P. Lovecraft – e, nel 1963, dal regista americano Reginald Le Borg, che ne ha tratto un film intitolato «Diario di un pazzo») e di sentire con forza il mondo delle emozioni; dal modo in cui visitava le chiese, i palazzi, i monumenti, i musei, si percepisce una intensità intellettuale ed un coinvolgimento emotivo che fanno pensare più alla vena "decadentista" di un Joris-Karl Huysmans, che al rigido razionalismo scientista di un Émile Zola.

Era, infine, un uomo del Nord innamorato del Sud: dalla sua Normandia (che detestava per la sordida, inverosimile avarizia dei suoi abitanti) amava spingesi sempre più lontano, nella Francia del Sud (Alvernia), in Africa settentrionale (Algeria) e in Italia (specialmente in Sicilia). I colori del Sud, del Mediterraneo, i suoi profumi, la sua natura, la sua storia antica e gloriosa, i suoi tesori artistici, lo affascinavano. Era, in fondo, uno spirito orgoglioso e solitario, avventuroso e romantico, assetato di grandi spazi, irrequieto, malinconico, pessimista, e pur ingenuamente fiero della sua salute, della sua forza, dei suoi muscoli: lo scrittore livornese Mario Picchi (1927-1996) lo ha paragonato a Jack London, sostenendo — a nostro avviso, con molta più verità di quanto si potrebbe immaginare — che pochi scrittori sono stati più simili, fra loro, di questi due "outsider", il francese e l’americano. Entrambi erano suggestionati da confuse teorie vitaliste e un po’ superomiste, nonché da un certo darwinismo sociale, bizzarramente venato di un certo qual socialismo umanitario; entrambi furono snobbati o sottovalutati, sostanzialmente, dalla critica, almeno finché vissero; ma entrambi furono molto amati dal pubblico, che li aveva compresi assai meglio dei professoroni di mestiere.

Dalla sua descrizione della Cappella Palatina di Palermo, che abbiamo qui sopra riportata, emerge una viva sensibilità, che Maupassant, grande maestro della parola (della parola chiara, sonora, efficace, viva di una vita propria, quasi aurorale ed intimamente sensuale: non per niente è un autore che si fa leggere ai principianti della lingua francese, essendo in un medesimo tempo semplice e ricco), traduce in immagini immediate, di sicura presa per il lettore, che vanno ditte al cuore della cosa. E il cuore della Cappella Palatina sono i mosaici dallo sfondo d’oro e dalla luce tenue, nei quali pare scorrere, dagli abissi del tempo e dello spazio, la storia sacra dell’uomo che cerca Dio e di Dio che chiama a sé l’uomo; ma soprattutto la luce: la luce che filtra attraverso le navate, che riempie l’ambiente di un’atmosfera dorata, magica, trepidante; la luce che trasfigura le cose, le smaterializza, e rivela l’anima nascosta in fondo ad esse.

Anche in questo senso si può dire che Maupassant, il naturalista Maupassant, è, a ben guardare, più vicino al Decadentismo e, in genere, alla stagione simbolista, di quanto si potrebbe credere (si pensi a quel riferimento a Puvis de Chavannes, parlando dei mosaici di Palermo): perché la luce non è materia, è spirito; e quel che affascina Maupassant non sono le cose, ma il mistero che in esse si cela: ecco, allora, che la sua parola nitida, precisa, tornita e tuttavia – a suo modo – schietta e disadorna, diviene la formula magica, la liturgia religiosa che aiutano il lettore, accompagnandolo quasi per mano, a entrare in un mondo fatto d’incanto, di pura bellezza e di pura luce, e a lasciarsi rapire lontano, via dalla grande città, dalla vita moderna, dalle bruttezze della realtà industriale, dall’acciaio e dal vapore. Positivista, Maupassant, ci si aspetterebbe che lo sia, in quanto naturalista. Eppure — lo si crederebbe? — egli è stato tra i firmatari di una petizione per far rimuovere la Tour Eiffel, qualificata come un orrore architettonico che deturpa il volto di Parigi.

No; la verità è che Maupassant non amava la civiltà moderna; che non amava le macchine, né il traffico, né, tanto meno, le folle, le masse, le moltitudini ove l’individuo si smarrisce e scompare (si pensi alla sua agghiacciante novella «Nella nebbia», storia di un incubo notturno che si materializza o, piuttosto, di un assurdo, disperato naufragio metropolitano) ed ecco allora profilarsi, con più evidenza e con perfetta coerenza, il suo grande amore per l’Italia, per la Sicilia, per Palermo, per l’arte medievale, per i mosaici bizantini: per una realtà parallela, ma opposta, a quella della vita d’ogni giorno, fatta di luce, di stupore, di silenzio. Quando visitò la Cappella, mancava poco all’eclisse della sua ragione. Fece in tempo a udire, per un istante, il sussurro della bellezza celeste?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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