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Che lezione straordinaria e commovente quel lauro abbarbicato sull’orlo dell’abisso

Esiste qualcosa di simile ad una intelligenza della natura, insita nelle creature e nei fenomeni stessi del mondo naturale?

Se si osservano questi ultimi con occhio attento e spassionato, non si possono non notare una quantità di cose che paiono sottrarsi alla cieca causalità di leggi meccaniche e puramente impersonali; che sembrano scaturire da una volontà, o, almeno, da un istinto, e che sono quanto di meno lontano sia dato immaginare dalle azioni consapevoli della mente umana.

Che cosa suggerisce a un albatro la rotta da tenere, durante le sue smisurate migrazioni dall’uno all’altro Polo, di notte, con il cielo nuvoloso o con la nebbia, sì che non siano visibili neppure le stelle più luminose, per potersi orientare? E cosa guida le migrazioni delle anguille?

Che cosa spinge gli animali, sia selvaggi che domestici, a divenire irrequieti, che cosa li induce ad allontanarsi, per quanto è loro possibile, nell’imminenza di un evento catastrofico inatteso, sia esso del tutto naturale, come un terremoto, sia anche di origine artificiale, come un incendio in un edificio, in un bosco, o, magari, il prossimo naufragio d’una nave?

Si dice che Attila abbia compreso che la grande città di Aquileia, che invano assediava da tre mesi, nel 452, sarebbe presto caduta, vedendo una cicogna che se ne andava insieme al suo piccolo; e che gli animali, compresi topi, serpenti e donnole, fuggirono dalla città greca di Helike, nel 373, poco prima che un tremendo sisma, accompagnato da un maremoto, la spazzasse via.

Oppure si consideri il modo in cui crescono e si sviluppano certe piante: anche a un mediocre osservatore, appaiono dei casi che riesce difficile interpretare, se non ricorrendo a una sorta d’intelligenza istintiva della pianta stessa. Non è solo il modo in cui certi alberi si piegano e si contorcono alla ricerca della lue; ma anche la maniera con cui si abbarbicano al suolo, quando la terra tende a smottare, ed essi rischiano di trovarsi pericolosamente vicini alla perdita dell’equilibrio. Protendono allora delle radici avventizie, in una sorta di silenziosa, drammatica gara contro il tempo, per ancorare più saldamente il tronco alla terra, prima che questa, franando lentamente, possa provocare la caduta dell’albero.

La pianta possiede dunque un istinto, una qualche forma d’intelligenza e di volontà, o ciò che più potrebbe somigliare ad esse, e che più le avvicinerebbe al mondo intelligente e intenzionale degli esseri umani? Che cosa, precisamente, provoca la nascita e lo sviluppo di una nuova radice, che esce non dalle radici stesse, ma dal tronco dell’albero, sì da offrire alla pianta una base più solida per tenersi afferrata al terreno e seguitare nella sua sfida ai venti, alle intemperie, alla stessa forza di gravità, che tenderebbe inesorabilmente a trascinarla fuori del suo baricentro e, in tal modo, a rovesciarla in maniera irreparabile? Che cosa è precisamente, come chiamarla, come interpretarla, la forza misteriosa, senza nome, senza volto, che spinge quella radice a soccorrere la pianta in pericolo, e che le salva la vita, o, almeno, che ritarda alquanto la sua fine inevitabile? È qualcosa di simile all’istinto che ci induce a mettere le mani avanti, o a cercare un sostegno per il piede, quando siamo sul punto di scivolare a terra, lungo un sentiero di montagna, o, più semplicemente, scendendo lungo i pioli di una scala?

E l’acqua di un fiume che, trovandosi la via sbarrata da un ostacolo, da una roccia, da una frana, lotta per aprirsi il passaggio, millimetro dopo millimetro, anno dopo anno, secolo dopo secolo: è soltanto e unicamente l’espressione d’una forza impersonale, meccanica, o qualcosa di più e di diverso, qualcosa di paragonabile alla lotta d’un uomo, ad esempio d’un minatore, o di uno speleologo, i quali, trovandosi intrappolati nelle viscere della terra, scavano con il badile, con le dita, con le unghie, fino a piagarsi le mani, fino ad avere i muscoli delle braccia completamente indolenziti, sorretti dalla ferma volontà di aprirsi un varco e dalla speranza di ritrovare la luce del sole, di salvarsi, di respirare ancora l’aria pura? Forse che l’acqua del fiume "sente" la presenza del mare, anche se lontano, e cerca di raggiungerlo ad ogni costo, superando — per quanto possibile — ogni ostacolo, così come un cane, portato lontano da casa, "sente" la strada che lo ricondurrebbe ad essa, e si mette in cammino, e segue la sua pista per giorni e settimane, incredibilmente, lungo sentieri e regioni sconosciute, attraversando corsi d’acqua, superando catene di colline, sempre teso alla meta, fino a quando la raggiunge e, con immenso stupore degli umani, si presenta davanti ai suoi antichi padroni? Eppure, casi del genere sono perfettamente documentati; anche casi più complessi, come quando il cane sale su d’un treno, come un passeggero clandestino, e perfino su di una nave: un cane americano ha fatto ritorno negli Stati Uniti, da un porto della Cina, imbarcandosi sopra un bastimento che doveva traversare l’Oceano Pacifico. Non potrebbe darsi che, nella lotta del fiume per conquistare lo sbocco al mare, esso sia guidato da una forza del genere, da un istinto misterioso, ma infallibile, e da una volontà tenace, indomabile, come potrebbe esserlo quella di un essere intelligente, che mira dritto allo scopo, senza lasciarsi fermare da niente e da nessuno, senza sgomentarsi davanti all’immensa difficoltà dell’impresa?

C’è una pagina, a questo proposito, del grande drammaturgo belga Maurice Maeterlinck — il quale era anche un valente naturalista e un finissimo osservatore della natura -, che ci sembra degna di essere letta, riletta e a lungo meditata (da: M. Maeterlinck, «L’intelligenza dei fiori», cit. in: Angelo Gianni e Giuseppe Galleno, «L’avventura dell’uomo», Firenze, La Nuova Italia, 1969, vol. 2, pp. 60-61):

«Non è soltanto nel seme o nel fiore, ma nell’intera pianta, negli steli, nelle foglie, nelle radici, che noi scopriamo, se ci chiniamo un istante sul loro umile lavoro, numerose tracce di una intelligenza vivace e sagace. Pensate agli sforzi mirabili che fanno i rami posti in punti difficili per spingersi verso la luce, o alla lotta coraggiosa degli alberi in pericolo,. Io non dimenticherò mai l’ammirevole esempio di eroismo che mi fu offerto tempo fa, in Provenza, fra le selvagge e magnifiche gole tutte profumate di violette, da un enorme lauro centenario. Sul suo tronco tormentato e annoso si poteva facilmente leggere tutto il dramma della sua vita tenace e difficile.

Un uccello o il vento, arbitri del destino, avevano portato il seme sul fianco della roccia che sprofondava a picco come un sipario di ferro; e l’albero era nato là, duecento metri sopra il torrente, inaccessibile e solitario, fra le pietre riarse e sterili. Fin dalle prime ore di vita aveva spinto le sue cieche radici alla lunga e penosa ricerca dell’acqua e dell’humus. Ma questa era solo una preoccupazione comune a tutta una specie che conosce l’aridità del Mezzogiorno: un problema ben più grave e inatteso sorgeva per il giovane stelo che, nato su un piano verticale, si trovava colla cima rivolta verso l’abisso. Lo stelo perciò, malgrado il crescente peso dei rami, dovette raddrizzare il primitivi slancio e testardamente rasentare la roccia col tronco sconvolto, tentando di mantenere con volontà, tensione e contrazioni incessanti la sua pesante corona di foglie rivolta verso il cielo. Da allora, intorno a questo stelo si sono concentrate tutta l’energia, tutte le preoccupazioni, tutto il genio della pianta; il suo gomito mostruoso mostrava una ad una tutte le successive inquietudini di una specie di pensiero che aveva saputo profittare degli avvertimenti derivati dalle piogge e dalle tempeste. Di anno in anno la cupola di fogliame si appesantiva, senza altra preoccupazione che quella di espandersi alla luce e al calore, mentre un pericolo oscuro premeva profondamente sul tragico braccio che la sosteneva nello spazio. Allora, obbedendo a non so quale comando istintivo, due solide radici, due cavi barbuti, usciti dal tronco un po’ più su del gomito, erano venuti a sostenerla alla parete di granito. Saranno state veramente richiamate dal bisogno, oppure erano in previdente attesa fino dal primo giorno, al fine di porgere il loro aiuto nell’ora critica del pericolo? Era forse solo un caso fortunato? Quale occhio umano potrà mai seguire questi drammi muti e troppo lenti per la nostra breve vita?»

E che dire dell’umile fiore, del filo d’erba che riescono a farsi strada, sbocciando dal seme caduto in una fessura della strada, letteralmente in mezzo all’asfalto, sfruttando quel minimo di terra e quel minimo di acqua e di luce che possono ricevere, pur in quelle condizioni così stentate, così estreme, pur così lontani dalle condizioni naturali del loro vero "habitat"? Che dire di questa stupefacente capacità di adattamento, di questa incrollabile determinazione a sopravvivere, a svilupparsi, a realizzare lo scopo per cui si è venuti al mondo, a dispetto delle circostanze più sfavorevoli?

O che dire delle alghe, le quali riescono a sopravvivere negli ambienti più estremi, ad esempio fra i ghiacci delle vette alpine più alte, o quelli dell’Antartide, oppure nell’acqua caldissima di una sorgente vulcanica? Sono esseri viventi, non "cose"; ma vi sono, poi, delle semplici "cose", vale a dire oggetti totalmente inanimati, nel mondo della natura? L’acqua, le rocce, i pianeti, le stelle, le galassie: sono oggetti senza vita, senza sensibilità, senza alcuna forma di consapevolezza? Erano davvero così sciocchi, così ingenui, gli antichi, i quali la pensavano in tutt’altro modo e attribuivano loro non solo la prerogativa della vita, ma di una vita divina, superiore all’umana?

Sono domande affascinanti e tutt’altro che oziose; chi la pensa diversamente, vuol dire che ha del tutto smarrito la capacità di stupirsi e interrogarsi. E la capacità di stupirsi e interrogarsi è la qualità numero uno del filosofare: niente stupore, nessuna domanda, ed ecco morta e sepolta la ricerca filosofica: non restano che speculazioni astratte, pensieri presuntuosi, senz’anima, fatti di cose teoriche: buoni per i libri e per le aule universitarie, non per confrontarsi faccia a faccia con il mistero del reale. Diciamo "il reale", e non "la realtà", perché quest’ultima espressione ha acquistato un significato banalmente prosaico, di ciò che cade sotto i nostri sensi e che noi, presto o tardi, siamo o saremo suscettibili di comprendere e spiegare sino in fondo. Il "reale", invece, è l’essere: l’essere nelle sue multiformi e innumerevoli manifestazioni, fisiche e spirituali, visibili e invisibili, spiegabili e inspiegabili. Non è vero che la ragione può spiegare tutto; e non è vero che la filosofia possa procedere solo con lo strumento della ragione. Arriva sempre il momento in cui essa deve arrestarsi, umile e riverente, davanti al mistero; il momento in cui deve cedere il passo, deve effettuare le consegne a qualcosa che è più grande di lei: la teologia. Ma neppure quest’ultima ha la risposta pronta per ogni cosa; anch’essa deve fermarsi ad un certo punto, e deve cedere il passo a qualcos’altro. I credenti la chiamano fede.

Sant’Agostino diceva che la ricerca filosofica è un procedere della ragione, credendo: vale a dire che la ragione, da sola, non è in grado di rispondere alle ultime domande. La ragione è pur sempre espressione della realtà contingente, della dimensione del finito: per comprendere il reale, o meglio per arrivare ad intuirne l’infinita complessità, bisogna servirsi anche dell’altro strumento che è stato dato all’uomo per interrogarsi e per avvicinarsi alla verità: la fede. Vivere è, in fondo, un atto di fede; senza di ciò, non si ha il vivere, ma il semplice esistere. Anche cercare, anche pensare, anche amare, anche sperare, sono atti di fede: e ciascuno di essi è necessario alla vita, di nessuno d’essi la vita potrebbe mai fare a meno, pena l’autodistruggersi.

Dovremmo sempre tenerlo presente, in ogni giorno, in ogni ora, in ogni minuto della nostra vita. E dovremmo imparare dalle altre creature che la vita ci ha posto accanto, quali compagni di viaggio: le api, con il loro infallibile senso dell’orientamento; le alghe, con la loro stupefacente capacità di adattamento; gli alberi, con la forza misteriosa che fa scaturire da essi nuove radici, mediante le quali aggrapparsi alla vita. Perché la vita è bella, e lo spettacolo che essa offre è meraviglioso: chi può dire se il cane, l’orso, e perfino il fiore, non godano, a loro modo, dei raggi del sole che li riscaldano, del tepore della primavera che fa scorrere una nuova energia vitale nelle loro vene o i loro canali linfatici? Può darsi che l’uomo soltanto sia capace di riflettere su tutto ciò; ma goderne, è molto probabile che ne godano tutte le creature, dal passero che saltella di ramo in ramo, al muschio che riceve la carezza tiepida del sole.; e, forse, anche il fiume che si apre la strada verso il mare, anche la montagna innevata che si apre al solenne e conturbante spettacolo della luce che viene a rischiarare un nuovo giorno. Forse tutto ciò che esiste è trafitto dalla commozione e turbato dalla gioia del mistero di esistere, dalla gratitudine per il fatto di esserci.

Grande cosa è esistere, partecipare all’essere. Grande mistero, acuta nostalgia, ardente speranza…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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