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Bisognerebbe depennare dai manuali gli scrittori che non rispettano il «bello scrivere»?

Bisognerebbe depennare dai manuali di storia della letteratura quegli scrittori che non rispettano le buone, vecchie norme del "bello scrivere"? Alcuni critici letterari e alcuni storici della letteratura sono sempre stati inclini a questa soluzione estrema: quelli che ritengono una scrittura mediocre come una specie di affronto personale nei confronti del loro senso estetico, benché, sovente, non si direbbe che nutrano preoccupazioni altrettanto vive riguardo alla bontà dei contenuti.

Evidentemente, si tratta di vedere se la letteratura sia principalmente una questione di forma o di contenuto; anche se sappiamo benissimo che ridurre la questione in termini così brutalmente semplificati, significa anche, inevitabilmente, rischiare di banalizzarla e, almeno in parte, di stravolgerne il significato. Sarebbe un po’ come chiedersi se, nella musica, venga prima la padronanza espressiva o la profondità dell’ispirazione: questione pressoché impossibile da risolvere, se è vero, come è vero, che entrambi gli aspetti sono necessari affinché si possa parlare di arte musicale e non di semplice esercizio virtuosistico.

Bisogna poi tener presente che, per molti critici letterari, l’intransigenza in fatto di bello stile è subordinata, di solito inconsciamente, al giudizio, o al pregiudizio, che di quell’autore si sono fatti, non senza lasciarsi largamente influenzare dalle idee dominanti nel loro tempo: perché il critico pretende di porsi in una condizione obiettiva e "super partes", ma quasi mai lo è, anche perché ci tiene moltissimo a fare bella figura, a strappare consensi, insomma a piacere, magari non a tutti, però sicuramente a quelli che, nel suo particolare ambito, hanno un certo peso. Ed ecco che uno scrittore, come Italo Svevo, che scrive malissimo, in un italiano addirittura esecrabile, viene pienamente assolto da una simile pecca, se pure ci si dà la briga di prenderne atto, per il fatto che lui, comunque, insieme a una pattuglia di "illuminati", di "coraggiosi", di "moderni", ha strappato i veli della ipocrisia ottocentesca e ha trasportato la narrativa nelle regioni rarefatte, ma imprescindibili, della "complessità" post-moderna. Un altro, come Carlo Emilio Gadda, poi, non è che scriva male, no: lui crea un impasto linguistico originalissimo e degno di ammirazione incondizionata; e, quand’anche la sua scrittura fosse "brutta", vuoi mettere la bruttezza voluta e calcolata, la bruttezza intenzionale e scientifica, con la bruttezza di un povero mestierante senza arte né parte, di un povero scrittore che non è capace di simili voli e che si limita a saltellare qua e là, come un pollo che invano si sforzi d’imitare un maestoso cigno selvatico?

Insomma: tutto viene perdonato, tutto viene giustificato, tutto viene attribuito a loro merito, a quegli scrittori che violano le regole del bello scrivere perché hanno voluto aprire vie nuove, perché mossi da un genio creativo incontenibile, perché capaci di trasmettere al lettore il senso della confusione, del disordine, della alienazione esistenziale; ma nulla viene perdonato, nulla viene giustificato e tutto viene addebitato a carico di uno scrittore che, scrivendo in un italiano non sempre perfetto, abbia anche la colpa, invero imperdonabile, di non essere "creativo", di non essere "moderno", di non essere pensosamente "problematico". Un po’ come nel caso delle arti figurative: i quadratini e i triangolini di Kandinskij o di Paul Klee sono qualcosa di geniale; ma gli scarabocchi del bambino sono sempre e soltanto scarabocchi: il primo, infatti, rifiuta la pittura come espressione di una forma, il secondo vorrebbe dare una forma alle sue figure, ma non ne è capace. E così il giudizio estetico diventa ideologico e perfino processo alle intenzioni. Volevi essere "moderno"? Assolto. Non era questo che ti proponevi? Condannato, senza attenuanti; e avanti il prossimo.

Il traduttore, nonché grecista e latinista, Enzo Mandruzzato, nato a Bologna nel 1924 e spentosi a Padova nel 2012, era molto severo e categorico nei suoi giudizi: valga per tutti il caso dello scrittore "scapigliato" piemontese Iginio Ugo Tarchetti.

Nella sua corposa monografia «Il piacere della letteratura italiana. Per riscoprirla, rileggerla e amarla» (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1996, p. 427) ne delinea, in pochi tratti, una stroncatura tanto spietata quanto inappellabile:

«Il piemontese Tarchetti (1841-69) visse povero e sbandato e morì tisico. Mai tanti guai furono spesi peggio.

Passa fra gli "scapigliati" più vistosi ma non ne ha neppure il merito principale, la novità e certa perizia nel linguaggio. Tarchetti non sa scrivere. Nel sonetto "Ell’era così fragile e piccina" — tragico e banale — ci sono ben cinque imperfetti in –éa. Scrive "eram" (leggi "eràm") per "eravam, eravamo". Ignora con perfetta costanza l’espressione originale. In compenso vorrebbe spaventarci con soggetti macabri:

"Quando bacio il tuo labbro profumato,

cara fanciulla, non posso obliare

che un bianco teschio vi è sotto celato."

E così via. Il candido lettore sente un fastidio che crede contenutistico ma è in realtà artistico. Si spera che sia depennato dai manuali questo abusivo.»

Che uno scrittore vada considerato un "abusivo" perché non rispetta le regole del "bello scrivere", poi, è tutto da dimostrare: a maggior ragione potrebbe essere considerato abusivo uno scrittore che, pur rispettando quelle regole, scriva senza avere nulla da dire; scriva per il solo gusto di scrivere, o, magari, per fare soldi, per inseguire la notorietà, per gratificare il proprio Ego: ma qui, appunto, si rischia di cadere nella psico-polizia e nel processo alle intenzioni. In letteratura, contano i fatti: e a decidere che sia scrittore legittimo, e chi abusivo, non possono essere i critici, tanto meno sulla base di un criterio meramente formalistico, bensì i lettori: non nel senso del numero (la maggioranza non ha mai ragione, mai: anche se fosse la maggioranza assoluta, anche se coincidesse con la totalità del pubblico), ma nel senso della qualità.

Insomma, i critici devono aiutare il lettore a capire meglio, ad apprezzare meglio, a vedere di più: non devono assolutamente ergersi a giudici di un tribunale staliniano, né possono permettersi di sentenziare chi sia abusivo e chi no. Questo non spetta a loro deciderlo: spetta alla sensibilità, alla intelligenza, al giudizio del lettore. Non del lettore-tipo, che è un’astrazione, né del lettore-massa, che è un pecorone belante e ruminante in mezzo al gregge; ma, se vogliamo, del lettore ideale: di colui che possiede sufficiente intelligenza, sensibilità e cultura per farsi una idea adeguata del testo che ha davanti. E la stessa cosa vale per i critici musicali o per i critici d’arte o per quelli cinematografici: non è loro compito quello di escludere o includere, semmai di fornire strumenti al pubblico per meglio comprendere e per poter formulare dei giudizi che siano, per quanto possibile, saldamente motivati e argomentati, e non già umorali, aleatori, campati per aria e affidati all’estro ed al capriccio momentaneo.

Tornando a Tarchetti: è vero, Tarchetti non scrive bene. Come negarlo? Però, attenzione: Tarchetti ha dischiuso una porta che, per troppo tempo, era rimasta sigillata; ha introdotto in letteratura il criterio della verità intima, segreta, sulle tracce di sant’Agostino, per quanto impietosa tale ricerca possa rivelarsi; la passione dello scavo interiore, per quanto doloroso: e senza troppi cerebralismi e intellettualismi. Insomma, i suoi racconti e i suoi romanzi, a cominciare da «Fosca», si leggono ancora, e si leggono volentieri: pur non essendo capolavori, e pur non essendo scritti bene, toccano il cuore e svelano profondità insospettate dell’anima umana — abissi, anche, e tenebre, ma senza compiacimenti nichilisti e relativisti o pseudo-esistenzialisti. Egli è pur sempre uno scrittore ancorato alla vita: non uno scrittore chiuso e sigillato nelle sue cervellotiche esplorazioni mentali, come James Joyce o come Virginia Woolf.

Ecco perché Tarchetti viene ancora letto con interesse e con soddisfazione dal pubblico, mentre Joyce e Woolf, parliamoci chiaro, non piacciono a nessuno e non sono mai stati letti da nessuno, tranne dai disgraziati studenti che i loro professori costringono a farlo, o dagli intellettuali alla moda che, poi, ne ricavano dei saggi molto profondi, molto penetranti, molto illuminanti, ma, ahimè, anch’essi non letti da alcuno, tranne da quel pubblico di persone che vogliono sembrare colte, sfoggiando una superficiale conoscenza degli argomenti più dibattuti, più attuali e di maggior richiamo. Insomma, il pubblico delle persone semi-colte, le quali, guarda caso, sfoggiano sempre il giudizio politicamente corretto sull’ultimo romanzo, sull’ultimo film, sull’ultima mostra di pittura, perché hanno dedicato un’oretta del loro tempo alla lettura dell’inserto culturale della domenica di qualche grande quotidiano, e hanno mandato, più o meno a memoria, la lezioncina così appresa, e garantita dalla firma di qualche importante saggista o giornalista.

Non stiamo facendo l’elogio del qualunquismo e dell’anti-intellettualismo: lasciamo volentieri ai demagoghi la prima cosa, e ai disonesti la seconda; non stiamo dicendo che a decidere sulla buona e sulla cattiva letteratura è chi non ne sa nulla, ad esclusione di chi ne sa, invece, qualche cosa; al contrario: sosteniamo che il giudizio letterario, come ogni altro giudizio estetico, non può essere appannaggio di una classe di "specialisti", perché lo specialismo è il grande male, il grande abbaglio, il grande pervertimento, del nostro tempo: il male dei limitati che scambiano la parte per il tutto, che confondono la finestra della loro stanza con il mondo esterno, che credono d’essere vivi, mentre sono morti e mandano già cattivo odore.

Quel che stiamo cercando di dire è che l’opera letteraria, come qualunque altra opera dell’arte e del pensiero, parla — beninteso, se ha qualcosa da dire — da sola: e non c’è critico letterario che possa farla parlare, se è muta; né critico letterario che possa abolirla, cancellarla, ridurla al silenzio (come vorrebbe il buon Mandruzzato, moderno inquisitore molto bene intenzionato ed anche, si capisce, molto, moltissimo politicamente corretto) se essa parla ed è viva. In fondo, vige per il giudizio su di un’opera letteraria lo stesso atteggiamento che dovrebbe guidarci nei rapporti con le persone: chi è vivo e vitale, non passerà mai inosservato, quand’anche facesse di tutto per nascondersi, purché, beninteso, siamo vivi ed aperti anche noi che lo abbiamo incontrato, e quindi capaci di vederlo e di riconoscerlo; mentre chi è morto, e non ha niente da dire, quand’anche gridasse dai tetti con voce stentorea, o parlassero a suo favore tutti i critici di questo mondo, non meriterebbe neppure uno sguardo di compatimento, neppure un pensiero, neppure un istante del nostro tempo, non essendo altro che un misero impostore.

Certo: l’ideale sarebbe trovare le due cose riunite insieme: un contenuto vivo e vitale, permeato di profonda umanità, di saggezza, di originalità, di inventiva; ed una forma armoniosa, impeccabile, rispettosa di tutte le regole del "bello scrivere": ma tutto questo è riservato a pochissimi scrittori, che sono, appunto, i "classici". Si badi: non tutti gli autori e non tutti i libri che oggi passano per dei classici, lo sono veramente: perché, troppo spesso, abbiamo permesso ai critici di decidere loro che cosa sia un classico, e cosa non lo sia; mentre il loro compito e la loro ragion d’essere dovrebbe essere, semplicemente, quella di guidarci a riconoscere le caratteristiche interne di un’opera, di aiutarci a meglio comprenderla, di fornirci ulteriori strumenti d’interpretazione, sia formale, sia contenutistica. E nient’altro.

Per esempio: dove sono finiti i critici che, fino a pochissimi decenni or sono, levavano alle stelle la bravura di uno scrittore come Riccardo Bacchelli, oggi così disinvoltamente dimenticato (al punto che il correttore automatico del "computer" non riconosce il suo nome, e lo sottolinea, come se fosse errato)? Eppure, «Il mulino del Po» ha tutte le caratteristiche per poter essere considerato un classico: sia di forma, sia di contenuto. Invece, oggi gli studenti universitari, per non parlare di quelli del liceo, ignorano addirittura il suo nome. In compenso, zelanti professori semi-colti e semi-intelligenti incitano i loro studenti a leggere con somma riverenza Alberto Moravia o Umberto Eco; Italo Calvino, poi, o Elio Vittorini, passano per scrittori di poco inferiori a Dante. E allora? E allora, si ritorna sempre lì: la critica letteraria, quando s’impanca a tribunale, rende un pessimo servizio alla società; non fa progredire la cultura; ostacola l’intelligenza; ritarda la consapevolezza dei giovani. Lasciamo che il libro ci parli da solo, se ha qualcosa da dire… e cerchiamo di ascoltarlo.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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