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Amare significa vedere ed essere nel mondo, ma non più del mondo

Amare significa imparare a vedere: a vedere per davvero, e non soltanto a guardare, come facciamo di solito.

Il gran padre Dante, ancora una volta, ha colto nel segno laddove, con mirabile incisività, afferma («Paradiso», XVII, 103-105): «Io cominciai, come colui che brama, / dubitando, consiglio da persona / che vede, e vuol dirittamente, ad ama»: dunque, per amare, bisogna saper vedere; e, inoltre, bisogna possedere una coscienza retta, orientata verso il bene.

Ci piace riportare, a questo proposito, una pagina del gesuita indiano Anthony De Mello (dal suo libro:«Chiamati all’amore. Riflessioni»; titolo originale: «Call to Love. Meditations», Anand, India, 1991; traduzione dall’inglese di R. Fenoglio, Milano, Edizioni Paoline, 1994, pp. 126-131):

«Ti sarà capitato di constatare che puoi amare solo quando sei da solo. Che cosa significa amare? Significa vedere, una persona, una cosa, una situazione così come sono nella realtà e non come t immagini che esse siano, e darvi una risposta adeguata. Tu non puoi amare ciò che neppure vedi.

E che cosa ti impedisce di vedere? I tuoi modelli, le tue categorie mentali, i tuoi pregiudizi e le tue proiezioni, i tuoi bisogni e i tuoi legami, le etichette che hai derivati dai condizionamenti subiti e dalle tue esperienze passate.

Il "vedere" è l’impegno più gravoso che un essere umano possa assumersi, perché richiede uno spirito disciplinati e vivace, mentre i più preferiscono adagiarsi nella pigrizia mentale piuttosto che affrontare l’impegno di vedere ogni persona o cosa con sguardo nuovo, nella freschezza del momento presente.

Già è arduo mettere da parte i propri condizionamenti, ma l’arte del vedere esige un qualcosa di ancor più penoso: il liberarsi del controllo che la società esercita su di noi, un controllo che con i suoi tentacoli penetra fino alle radici del nostro essere, per cui per sfuggirgli si deve addirittura rinunciare a se stessi. […] Non c’è un solo minuto in cui tu non sia, cosciente o meno, intonato con le reazioni degli altri, un solo minuto in cui tu non marci al rullo di tamburo delle loro richieste. Quando vieni ignorato o disapprovato, tu esperimenti una solitudine così insopportabile che immediatamente torni verso la gente a elemosinare quel conforto che ha nome Appoggio, Incoraggiamento, Stimolo.

Vivere fra gli altri in questo stato implica una tensione senza fine, ma d’altra parre vivere senza gli altri comporta l’agonia della solitudine. Tu hai perso la capacità di vedere gli altri chiaramente così come sono e di rispondervi con precisione, perché quasi sempre la tua percezione è offuscata dal bisogno della tua droga.

La conseguenza di tutto questo è terribile e inevitabile: sei diventato incapace di amare qualsiasi cosa o persona. Se vuoi amare devi di nuovo imparare a vedere. E se vuoi vedere devi lasciare la tua droga. Devi strappare via dal tuo essere le radici della società, che ti sono arrivate fino al midollo. Devi tiratene fuori.

Esteriormente tutto continuerà ad andare avanti come prima, continuerai la tua vita NEL mondo ma non sarai più DEL mondo. Nel tuo cuore sarai finalmente libero, ma completamente solo. In questa solitudine assoluta le tue dipendenze e i tuoi desideri moriranno, lasciando via libera alla capacità di amare. Perché non vedrai più gli altri come mezzo per soddisfare le tue tossicodipendenze.

Solo chi l’ha provato conosce quanti terrificante sia questo procedimento. È come invitare te stesso a morire. […]

È difficile immaginare un’esistenza nella quale tu ti rifiuti di godere anche solo di una parola di approvazione o di apprezzamento; un’esistenza nella quale rinunci ad appoggiarti al braccio di qualcuno; un’esistenza nella quale tu non dipenda emozionalmente da nessuno, in maniera che nessuno abbia più il potere di renderti felice o miserabile; un’esistenza nella quale ti rifiuti di aver bisogno di una persona in particolare o di essere speciale per qualcuno o ti rifiuti di dire "mio" riguardo a qualunque cosa. Anche gli uccelli del cielo hanno il loro nido e le volpi la loro tana: tu invece non avrai dove posare il capo nel tuo viaggio attraverso la vita.

Se arriverai a questo punto, tu scoprirai che cosa significa vedere con una visione chiara e non obnubilata dalla paura o dal desiderio, e conoscerai che cosa sia amare. Ma per arrivare a questa terra dell’amore occorre passare attraverso le pene della morte, perché amare una persona significa morire al bisogno di essere persona e accettare di vivere totalmente soli.

Come ci potrai arrivare? Attraverso una consapevolezza incessante, e l’infinita pazienza e comprensione che avresti per un drogato. […]

Scoprirai che il tuo cuore ti ha condotto nel deserto sconfinati della solitudine, ove nessuno più è al tuo fianco, assolutamente nessuno.

All’inizio ciò ti sembrerà insopportabile, ma questo dipende dal fatto che non sei abituato a star solo. Ma se ti organizzi per fermarti un po’ a lungo, il deserto fiorirà in amore. Il tuo cuore sboccerà nel canto, e sarà eterna primavera.»

De Mello (Bombay, 1931-New York, 1987) è un autore che piace, specialmente ai giovani, ma non solo; e piace perché sembra offrire una perfetta sintesi di spiritualità e di pragmatismo, di altruismo e di "sano" egoismo: ma non è uno scrittore cattolico, perché si lascia prendere la mano dal fascino della visione induista; e l’allora cardinale Ratzinger mise in chiaro, alcuni anni dopo la sua morte, che le idee del gesuita indiano erano incompatibili con la fede cattolica.

Bisogna dire che De Mello piace soprattutto in ambito New Age: la sua concezione sembra un classico esempio di religiosità fai-da-te: «se qualcosa non ti garba del dogma cattolico, nessun problema, non tenerne conto, fai come se non ci fosse»; l’importante è essere liberi, essere "se stessi". Egli non parla mai del Peccato originale, dell’Incarnazione, della Redenzione, della Grazia, della Trinità, del Giudizio finale: in compenso, parla molto di psicoterapia, di liberazione interiore, di conquista del proprio equilibrio spirituale, eccetera.

L’idea centrale esposta nel brano sopra riportato è sostanzialmente condivisibile: per poter amare gli altri, bisogna amare se stessi; e, per poter amare se stessi, bisogna smetterla di dipendere dall’altrui giudizio, dall’altrui approvazione e disapprovazione. Tutto questo è come una droga alla quale finiamo per abituarci; e, una volta che ci saremo assuefatti, che saremo divenuti dipendenti, non saremo più padroni della nostra vita. Ma che cosa vuol dire essere padroni della propria vita? In una prospettiva spirituale, si tratta di una espressione priva di senso: noi non siamo padroni di nulla; quando mai potremmo essere padroni della nostra vita? Per essere padroni di qualcosa, bisogna saperla creare: ma noi non possiamo creare la nostra vita, possiamo soltanto abitarla; dunque, non ne siamo padroni. Se lo fossimo, allora saremmo anche padroni di gettarla via, qualora non ne fossimo più soddisfatti: ed è un punto di visto che, oggi, va per la maggiore; ma non è certamente un punto di vista religioso, meno ancora un punto di vista cristiano.

Vi è, tuttavia — lo ripetiamo — un forte nucleo di verità, nella tesi di De Mello: nella vita, bisogna imparare a camminare da soli, con le proprie gambe; a respirare con i propri polmoni; a vedere con i propri occhi. Sembrano tutte cose ovvie, ma non lo sono: di fatto, succede che moltissime persone trascorrano la loro intera vita senza mai camminare con le proprie gambe, respirare coi propri polmoni e vedere coi propri occhi, ma si affidano alle gambe, ai polmoni e agli occhi di qualcun altro. Può essere un parente, un amico, un superiore gerarchico; può essere la società intera, intesa nel senso più banalmente conformista: l’opinione della maggioranza, gli atteggiamenti della maggioranza. Queste sono vite sprecate, vite prive di un minimo di consapevolezza.

Intorno a quel nucleo di verità, tuttavia, ci sono delle affermazioni azzardate, dei concetti ambigui o insufficientemente approfonditi. Che cos’è tutto questo gettare fango sulla società, tutto questo accusare la società di operare su di noi ogni sorta di manipolazione, ogni tipo di oppressione? È roba vecchia e stravecchia: sa di ’68, anzi, sa di Rousseau (il che è la stessa cosa): la società è cattiva, ma l’uomo è buono; sottraiamo l’uomo all’influsso della società, tagliamo i suoi legami e i suoi doveri verso la società, e tutto tornerà a posto, ogni cosa riprenderà a funzionare nella maniera più soddisfacente. Semplice, no?

Ora, senza voler negare che la società, e specialmente che l’avvento della società di massa, eserciti realmente una pressione eccessiva sull’individuo, resta il fatto che tutti questi accusatori e nemici implacabili della società, questi fustigatori e frementi denunziatori della sua indebita ingerenza nella vita del singolo, cominciando da Freud e proseguendo con Pirandello, tendono a dimenticare una verità semplicissima, ma inoppugnabile: che l’uomo, al di fuori della società, è, alla lettera, una mera astrazione concettuale. L’uomo in quanto uomo non esiste; quell’uomo che conosciamo, che vediamo, che studiamo, e che possiamo amare oppure detestare, è l’uomo sociale, l’uomo prodotto dalla società e inserito nella società.

Ebbene: la società fondamentale è la famiglia (o almeno lo è stata fino ad oggi; domani, si vedrà); niente famiglia, niente uomo. La famiglia può essere surrogata da una istituzione artificiale — per esempio, da un orfanotrofio -, ma resta pur sempre vero che un bambino, un essere umano, per crescere e per vivere, ha bisogno di una società che lo sostenga, che lo protegga, che lo istruisca, che lo orienti. Certo, è possibile, perfino probabile, che la società finisca per eccedere nel proprio zelo, che esorbiti dal proprio ruolo, che diventi oppressiva e repressiva, che produca negli individui un senso di frustrazione e di claustrofobia: tutto quel che vogliamo; ma l’individuo, abbandonato a se stesso, è nulla. A meno che vogliano prenotarci tante isolette disabitate, quanti siamo noi esseri umani, e che ci assumiamo, come altrettanti Robinson, la responsabilità di badare a noi stessi, in tutto e per tutto, ventiquattro ore su ventiquattro e trecentosessantacinque giorni all’anno, per sempre, sino alla fine della nostra vita.

Se non siamo disposti a fare questo, allora faremmo bene a smetterla con le chiacchiere insulse, con le critiche a buon mercato contro la società cattiva; sarebbe ora che la smettessimo di fare come i bambocci viziati del ’68, come i grossolani ammiratori del "buon selvaggio" russoviano, e ci rimboccassimo le maniche per vivere da uomini in mezzi agli altri uomini, nel bene e nel male, con la buona e con la cattiva fortuna a farci compagnia.

E adesso torniamo all’assunto iniziale: che cosa significa amare. Amare significa vedere ed essere nel mondo, ma senza più appartenere al mondo: significa stare con i piedi ben piantati in terra e con gli occhi bene aperti, ruotando lo sguardo a trecentosessanta gradi, ma senza fare propria la prospettiva del finito, del contingente, del provvisorio: bensì conservando la sete di eternità e la fame di assoluto. Perché sono quella sete e quella fame che ci rendono veramente umani, che ci rendono veramente persone, e persone vive; senza di esse, noi saremmo come dei morti, con un cuore di pietra, senza occhi per vedere e senza lacrime per soffrire — o per gioire.

Essere veramente uomini significa saper amare; e, per saper amare, bisogno distaccarsi dalla dipendenza affettiva ed emozionale nei confronti del prossimo; nello stesso tempo, però, bisogna conservare intatta la compassione, la meraviglia, la solidarietà verso il mondo al di fuori di noi; diversamente, saremmo come dei morti che si rinchiudono nel proprio sepolcro, rinunciando alla vita per la paura di dover affrontare le difficoltà che essa comporta.

La psicoterapia, i discorsi sulla libertà, il rifiuto del ricatto sociale, sono tutte cose che vanno bene, se, a monte di esse, c’è la cosa essenziale: un cuore vivo, un’anima che cerca l’amore di Dio e, nell’amore di Dio, l’amore per tutte le creature (e non solo per quelle umane). È strano che il gesuita De Mello non faccia parola di Dio, nel suo ragionamento. A sentir lui, basta fare un po’ di silenzio interiore, e subito arriva la primavera del cuore: molto bello, molto New Age, anche un po’ kitsch — se volgiamo dirla tutta. Manca, però — lo ripetiamo — la cosa essenziale: Dio. Finché l’anima resta lontana da Dio, non troverà mai la pace; ma se scopre la Sua presenza, allora non sarà mai più sola, affranta, angosciata; o forse lo sarà, talvolta; ma troverà anche i mezzi per la ripresa…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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