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«Mongolia», di Francesco Roman

Francesco Roman è un medico innamorato della Mongolia e il suo volume di racconti intitolato, appunto, «Mongolia» ha il pregio di quella freschezza, di quella vivacità e di quell’entusiasmo che caratterizzano le grandi passioni coltivate per anni, magari in silenzio, con pudore, tanto che solo pochi intimi ne erano venuti a conoscenza.

Benché scrivere non sia il suo mestiere, l’Autore mostra una notevole disinvoltura nel maneggiare la penna, perché egli si cala completamente nelle cose, si immerge nel vento del deserto, nelle luci, nei colori, negli odori di quei luoghi remoti e quasi favolosi, osservandole con l’occhio attento del viaggiatore appassionato, capace di andare diritto al cuore delle situazioni, disdegnando fronzoli e ridondanze.

Nelle sue pagine, che hanno quasi l’odore acre della motocicletta di un Marco Polo dei nostri giorni, che sfreccia lungo le piste come in un tempo lontano il veneziano procedeva a dorso di cammello, ma con la stessa curiosità per ogni cosa, piccola o grande, con la stessa carica di simpatia umana, con la stessa apertura mentale, solo con un pizzico d’ironia in più, scorre un senso potente di libertà, di vastità, di avventura, che prende il lettore irresistibilmente e lo accompagna, passo dopo passo, senza più lasciarlo, fino alla conclusione del libro.

Sarà per lo stile scarno, essenziale, a volte quasi scanzonato; sarà per la capacità di farsi tutt’uno con le cose viste e raccontate, con personaggi solitari e improbabili, con paesaggi grandiosi e malinconici; sarà per il sorriso benevolo che accompagna uomini e situazioni e celebra l’incontro con il diverso su un piede di autentico rispetto: fatto sta che prendere in mano il volume di Francesco Roman, corredato da fotografie di notevole bellezza, significa immergervisi ed arrivare sino all’ultima pagina senza mai tirare il fiato, perché è una lettura che prende e che pungola ad andare avanti, sempre avanti, senza sentire stanchezza né monotonia.

E la cosa più notevole è che questo ritmo, questa fascinazione, non scaturiscono da una tecnica narrativa volutamente diretta a suscitare coinvolgimento e meraviglia, ma dal candore, se così possiamo dire, del punto di vista adottato: senza filtri, senza astuzie, senza riserve mentali; da una immersione completa nel punto di vista dell’altro; da una adesione incondizionata a quei volti, a quei ritmi, a quegli odori, a quegli orizzonti, a quei silenzi, a quei tramonti.

Si tratta di un libro che sta a metà fra la narrativa di viaggio e la prosa etnologica: della prima possiede gli accenti, la spontaneità, il senso vivo della scoperta, la gioia quasi infantile della rivelazione di un altro mondo, dominato da altre logiche e da un altro senso del tempo rispetto al nostro; della seconda possiede il rigore, l’oggettività, la sobrietà e, come dicevamo, il pudore forte e virile di una passione che è ritrosa a manifestarsi pienamente.

A ciò si aggiunga la capacità di raccontare i luoghi, le persone, gi animali, le tradizioni, le leggende, senza mai la pretesa di esaurirli, di concluderli, di metterli in cornice; senza la pretesa di avere capito tutto, di aver esaurito la scoperta sino in fondo; ma, al contrario, con la consapevolezza di un residuo, di un qualcosa che rimane necessariamente nella penna, perché le cose più vere hanno sempre una componente di lontananza e di mistero, una parte che rimane a noi irraggiungibile, incomprensibile e inesplorabile.

Davanti a questo residuo, inespresso e inesprimibile, Francesco Roman ha un atteggiamento di profondo rispetto, di umiltà, di ascolto, che è poi l’atteggiamento di quegli uomini e di quelle donne che tanto lo affascinano, i quali, abituati a vivere nelle yurte come ai tempi di Gengis Khan, hanno negli occhi l’immensità del cielo e della steppa e negli orecchi gl’incommensurabili, abissali silenzi di un mondo fuori dal mondo, ma proprio per questi tanto più vicino alla natura, tanto più attento alle voci segrete delle cose, tanto più ricco di sfumature e di sottintesi e, in ultima analisi, tanto più vicino a ciò che è essenziale.

Questo senso della essenzialità è il filo conduttore del libro, da una pagina all’altra, da un racconto all’altro.

Non si tratta di una ennesima versione del mito del "buon selvaggio" di Rousseau, perché i Mongoli descritti da Roman sono persone in carne e ossa, non esenti da limiti e difetti, talvolta persino un po’ buffi, ma non in quanto membri di una società di cui si possa sorridere con condiscendenza, bensì proprio in quanto esseri umani: perché l’uomo in quanto tale, così come appare in queste pagine – ad esempio nei ricordi d’infanzia della campagna coneglianese, venati di nostalgia – è un soggetto infinitamente ricco e multiforme, infinitamente interessante da osservare e da descrivere (con la precisione del medico, appunto), ma che non si può prendere veramente sul serio senza accettarne anche le contraddizioni, le piccole miserie, gli aspetti umoristici.

Forse Francesco Roman, inseguendo sulle piste polverose del Gobi una umanità rimasta fedele alla lentezza, alla sobrietà, alla liturgia dei gesti e delle parole in una maniera che noi occidentali moderni abbiamo smarrito, ha cercato, inconsciamente, proprio le tracce di quel mondo della sua fanciullezza che era ancora impregnato di sapori patriarcali e che quanti ha vissuto nella terra del "miracolo del Nordest" hanno visto sparire con impressionante velocità, fagocitato dalle logiche dell’avere, dell’apparire, dell’esibire.

Così, in ultima analisi, il viaggio – o meglio, i numerosi viaggi – di Francesco Roman nella sua amata Mongolia, dei quali ci fa partecipi con questo suo libro, è anche un viaggio alla ricerca dell’uomo, dell’uomo perduto che è dentro di noi, dell’uomo autentico che non si sazia di cose, di tecniche, di mode, ma che ha bisogno, che ha sete – una sete struggente, divorante – di autenticità, di assolutezza e, in ultima analisi, d’infinito: come infiniti sono i cieli dell’Asia centrale e gli orizzonti della steppa battuta dal vento.

FRANCESCO LAMENDOLA

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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